Pubblichiamo in una nostra traduzione la riflessione sul Sinodo scritta per il Denver Catholic da Samuel J. Aquila, arcivescovo di Denver, e intitolata “Tommaso Moro e John Fisher sono morti invano”?
ottobre 23, 2015 Samuel J. Aquila
L’arcivescovo di Denver, Samuel J. Aquila, sulla comunione ai divorziati risposati pone qualche domanda a Kasper e Marx.
L’idea che ai cattolici dovrebbe essere concesso di risposarsi e ricevere la comunione non è stata avanzata per la prima volta nella lettera firmata dal cardinale Kasper e da altri membri dell’episcopato tedesco nel 1993. L’episcopato di un altro paese, l’Inghilterra, ha fatto da pioniere in questo campo della dottrina cristiana circa 500 anni fa. Al tempo non ci si chiedeva appena se un cattolico potesse risposarsi, ma se il re potesse farlo, dal momento che sua moglie non gli aveva generato un figlio.
Come nel caso di coloro che chiedono la comunione per chi si risposa civilmente, così anche i vescovi inglesi non volevano autorizzare apertamente il divorzio e le nuove nozze. Così, scelsero di piegare la legge alle circostanze individuali del caso che dovevano affrontare e il re Enrico VIII ottenne “l’annullamento” su basi fraudolente e senza il permesso di Roma.
Se “l’eroismo non è per il cristiano medio”, per dirla con il cardinale tedesco Walter Kasper, certamente non lo era per il re di Inghilterra. Al contrario, la felicità personale e il benessere di un paese costituivano due forti argomenti a favore del divorzio di Enrico. Ed era difficile che il re si prendesse il disturbo di saltare la comunione come conseguenza di un matrimonio irregolare.
Il cardinale di Inghilterra Wolsey, insieme a tutti i vescovi del paese, con l’eccezione del vescovo di Rochester, John Fisher, appoggiarono il tentativo del re di cancellare il suo primo e legittimo matrimonio. Come Fisher, anche Tommaso Moro, laico e cancelliere del re, gli rifiutò il suo sostegno. Entrambi vennero martirizzati e in seguito canonizzati.
Difendendo pubblicamente l’indissolubilità del matrimonio del re, Fisher sostenne che «questo matrimonio del re e della regina non può essere dissolto da alcun potere, umano o divino che sia». Per questo principio, disse, era disposto a dare la vita. Continuò facendo notare che Giovanni il Battista non aveva trovato «causa più gloriosa per cui morire che quella del matrimonio», nonostante allora il matrimonio «non fosse così sacro come lo è diventato dopo che Cristo ha versato il Suo sangue».
Come Tommaso Moro e Giovanni il battista, Fisher fu decapitato e come loro fu chiamato “santo”. Al Sinodo sulla famiglia che si sta svolgendo in questi giorni a Roma, alcuni vescovi tedeschi insieme ai loro sostenitori stanno facendo pressione perché la Chiesa permetta a chi ha divorziato, e poi si è risposato, di ricevere la comunione. Al contrario, altri vescovi da tutto il mondo insistono che la Chiesa non può cambiare l’insegnamento di Cristo. Questa situazione impone una domanda: credono i vescovi tedeschi che san Tommaso Moro e san John Fisher abbiano sacrificato invano le loro vite?
Gesù ci ha mostrato lungo tutto il suo ministero che per seguirlo è necessario un sacrificio eroico. Quando si legge il Vangelo con cuore aperto, un cuore che non mette il mondo e la storia al di sopra del Vangelo e della Tradizione, si scorge il costo della sequela che tutti i discepoli sono chiamati a pagare. I vescovi tedeschi farebbero meglio a leggere “Il costo dell’essere discepoli” del martire luterano, Dietrich Bonhoeffer. Infatti, ciò che loro promuovono è una “grazia a poco prezzo” invece che una “grazia onerosa”, e sembrano anche ignorare le parole di Gesù: «Chi mi vuol seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc. 8: 34, Lc. 14: 25-27, Gv. 12: 24-26).
Pensiamo, ad esempio, all’adultera che i Farisei presentarono a Gesù per coglierlo in fallo. La prima cosa che fece fu proteggerla dai suoi accusatori e la seconda cosa che fece fu richiamarla. «Va’», comandò, «e non peccare più». Seguendo le parole di Cristo in persona, la Chiesa cattolica ha sempre insegnato che il divorzio e le nuove nozze sono solo un altro modo per chiamare l’adulterio. E poiché la comunione è riservata ai cattolici in stato di grazia, coloro che vivono in una situazione irregolare non possono partecipare a questo aspetto della vita della Chiesa, anche se devono sempre essere accolti all’interno delle parrocchie e anche a Messa.
A maggio, il cardinale Kasper, in un’intervista a Commonweal Magazine, ha affermato che «non possiamo dire se l’adulterio è in corso» quando un un cristiano divorziato e pentito intrattiene «rapporti sessuali» in una nuova unione. Piuttosto, lui ritiene che «l’assoluzione sia possibile». Ma, ancora, Cristo ha chiaramente chiamato adulterio il risposarsi e ha detto che l’adulterio è peccato (Mt. 5:32, Mc. 10:12, Lc. 16:18). Nel caso della Samaritana (Giovanni 4:1-42), Gesù ha anche confermato che risposarsi non può essere valido neanche quando è un gesto dettato da fedeltà e sentimenti sinceri.
Se si aggiunge all’equazione l’alto tasso di fallimenti delle nuove nozze in seguito a un divorzio, nessuno può dire a che cosa potrebbero portare i ragionamenti del cardinale Kasper. Per esempio, la comunione sacramentale dovrebbe essere ammessa solo per coloro che si risposano una volta? E per coloro che si risposano due o tre volte? Ed è ovvio che gli argomenti usati per ammorbidire il divieto di Cristo di risposarsi potrebbero essere utilizzati anche per l’uso dei contraccettivi o per innumerevoli altri aspetti della teologia cattolica, che il mondo moderno e auto-referenziale giudica “difficili”.
Per predire a che cosa porterà tutto questo non serve conoscere il futuro, è sufficiente osservare il passato. Dobbiamo solo guardare la Chiesa anglicana, che ha aperto la porta alla contraccezione (e poi l’ha abbracciata) nel 20esimo secolo e per oltre un decennio ha permesso ai divorziati di risposarsi in alcuni casi.
Il “Piano B” dei vescovi tedeschi, cioè fare “a modo loro” in Germania, anche a costo di andare contro gli insegnamenti della Chiesa, presenta le stesse falle. Ed è “anglicanamente” inquietante. Consideriamo le parole del presidente della Conferenza episcopale tedesca, il cardinale Marx, che secondo la citazione riportata dal National Catholic Register sostiene che mentre la Chiesa tedesca può restare in comunione con Roma per quanto riguarda la dottrina, per quanto riguarda invece la cura pastorale dei singoli casi, «il Sinodo non può prescrivere nel dettaglio ciò che dobbiamo fare in Germania». Enrico VIII sarebbe stato sicuramente d’accordo.
«Non siamo appena una succursale di Roma», ha affermato il cardinale Marx. «Ogni conferenza episcopale è responsabile per la cura pastorale nella sua cultura e deve proclamare il Vangelo a modo suo. Non possiamo aspettare che il Sinodo decida qualcosa, mentre dobbiamo occuparci qui del ministero del matrimonio e della famiglia». Anche gli anglicani hanno ricercato una simile autonomia, anche se questa ha portato come risultato a crescenti divisioni interne e a uno svuotamento delle comunità.
È innegabile che la Chiesa debba raggiungere con misericordia coloro che si trovano ai margini della fede, ma la misericordia parla sempre il linguaggio della verità, non condona mai il peccato, e riconosce che la Croce è al cuore del Vangelo. Si potrebbe richiamare papa san Giovanni Paolo II, citato da papa Francesco alla sua canonizzazione come “il Papa della famiglia”, che scrisse estensivamente della misericordia, dedicandole un’intera enciclica e istituendo la festa della Divina misericordia. Per san Giovanni Paolo II, la misericordia era un tema sì centrale, ma che necessitava di essere letto alla luce della verità e della scrittura, piuttosto che in contrasto con esse.
Per quanto riguarda le nuove nozze, e molte altre questioni, nessuno può dire che gli insegnamenti della Chiesa, che sono quelli di Cristo, siano facili. Ma Cristo stesso non è sceso a compromessi con i suoi principali insegnamenti per impedire ai discepoli di andarsene – che si trattasse dell’Eucaristia o del matrimonio (Gv 6: 60-71; Mt 19: 3-12). Neanche John Fisher è sceso a compromessi per mantenere cattolico il re. Per cercare un modello su questo tema, non dobbiamo andare oltre le parole di Cristo e san Pietro che troviamo nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni, un passaggio che ci ricorda che gli insegnamenti sull’Eucaristia sono spesso difficili da accettare per i credenti.
«”È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra voi che non credono. (…) Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”. Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?”. Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”».
Come i discepoli, noi siamo sempre chiamati ad ascoltare la voce di Gesù prima che la voce del mondo, della cultura e della storia. La voce di Gesù illumina le tenebre del mondo e delle culture. Preghiamo affinché tutti prestino ascolto a queste parole di vita eterna, a prescindere dalla loro difficoltà!
Tempi.it
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