Un amico di Biella mi racconta che aveva convinto il suo giovane parroco (romeno) a terminare la Messa con la preghiera a San Michele che Leone XIII ordinò fosse recitata dal sacerdote in ginocchio nelle funzioni feriali, e che fu soppressa nel 1964 sotto Paolo VI. “Sancte Michael Arcangele, defende nos in proelio; contra nequitiam ed insidias diaboli esto praesidium…”. Il prete ha dovuto smettere perché i parrocchiani, avevano detto che la preghiera “li spaventava…Come? Il diavolo, adesso?! C’è da aver paura?”.
Questo è la condizione di buoni cattolici d’oggi, probabilmente anche buoni cattolici se vanno a messe feriali: aver paura di una preghiera. Che era un presidio. Papa Leone la scrisse di suo pugno dopo essere stato visitato da una visione, il 13 ottobre 1884, in cui una potente voce cavernosa chiedeva cento anni per distruggere la Chiesa: appunto per evocare la protezione del primo arcangelo contro Lucifero. Bisognava spaventarsi quando la protezione fu tolta, magari. Ma non è colpa nostra. “Nei testi conciliari l’inferno non si trova menzionato mai col termine proprio, e solo una volta per obliquo con la perifrasi ‘fuoco eterno’. Alla dottrina stessa dell’inferno non si trova dedicata alcuna pericope”, scrive Romano Amerio (Iota Unum, capitolo Escatologia). L’inferno è stato espulso dalle gerarchie, la sua eternità negata dai teologi. I vescovi di Francia rigettarono il dogma, nel 1978, comunicando ai fedeli che “l’inferno è semplicemente un modo di parlare del Cristo a uomini poco evoluti religiosamente: noi, da allora, ci siamo evoluti…”.
Si è visto come siamo religiosamente evoluti, se essere cattolici significa aver paura di una preghiera. Si noti che, dai sondaggi, almeno metà di quelli che ancor si dicono cattolici non crede all’inferno, né al paradiso; e poi, questi spiriti forti “si spaventano” a sentir nominare “Satanas”, superstiziosamente. O è la ripugnanza invincibile di gente tutta votata all’aldiquà alla sola idea che la nostra vita si adempia nell’aldilà? A tal punto è persa la nozione della tragicità inerente all’esistenza umana? In credenti? Credenti in che cosa, c’è da chiedersi.
L’immagine che diamo noi pochi cattolici rimasti, di timorose pecorelle che in fondo si raccomandano a Gesù e Maria perché ci risparmino i mali di questo mondo; il pacifismo che dà nell’imbelle e confina con la pusillanimità (non escludo me stesso dal gregge) è increscioso, nei tempi che corrono e in quelli che verranno; ed è contrario alla fede, che ci dovrebbe rendere – una volta confessati e comunicati – pronti anche alla morte. Mi domando se non ci sia mancata una pedagogia del coraggio; perché se è vero che la fortezza (la costanza nelle avversità e nelle persecuzioni) è un “dono dello Spirito Santo”, esso è una virtù: e alle virtù ci si allena, essendo esse “buone abitudini” da acquistare.
Scusate se lo cito troppo, ma devo ad Amerio anche questa intuizione: che l’ultima cena, lungi dall’essere un allegro banchetto di Pasqua, fu un evento tragico: nella coscienza che i potenti quella notte stavano braccando il Maestro per “farlo morire”; cala l’ombra del tradimento, e quando il Maestro dice “uno di voi mi tradirà”, tutti Gli domandano: “Sono forse io?”, perché – dice Amerio “nessuno dei discepoli è certo di non tradire…tragica incertezza del proprio volere morale”.
La nostra fortezza, dovremmo strapparla da questo stesso dubbio sulla nostra tempra, sulla costanza della nostra volontà – che chiediamo a Dio, sapendo di non averla. Lo stesso Gesù nella notte del Getsemani, qualche ora dopo, avrà paura, e pregherà nel buio dell’anima. E’ Dio ma anche uomo, ed ha paura – paura del dolore della carne – tanto che il volto gli si copre del sudore di sangue. “Padre, se possibile, passi da me questo calice..”.
Anche Lui, non è un superuomo. Ci ha indicato la via della croce, tremando Lui per primo – e vincendosi. Non indurendosi, ma abbandonandosi alla Volontà del Padre.
L’altro giorno, per un amico che s’è scoperto una grave malattia oculare, ho cominciato una novena a Gianna Beretta Molla, nata nel 1922 e morta nel 1962 dando alla luce il quarto figlio. Feci in tempo ad intervistare suo marito, l’ingegner Pietro Molla, che era il direttore della SAFFA di Magenta (la fabbrica di fiammiferi) e un uomo di una bontà e santità commovente, quando Giovanni Paolo II la dichiarò “venerabile” nel 1991. La signora Gianna è piuttosto popolare anche nei paesi di lingua inglese perché, essendo lei stata medico, ha fama di procurare guarigioni dall’aldilà. Soprattutto di risolvere casi di parti pericolosi.
Fidanzata innamoratissima (come si vede dalle sue lettere al futuro marito), moglie ideale, attivissima amante degli sport, tre gravidanze senza mai cessare l’attività di medico (specie dei bambini e dei vecchi soli), una persona vitale e lieta. Alla quarta gravidanza, si manifestò un fibroma dell’utero, una situazione che – per essere curata – avrebbe comportato la perdita del feto. Non volle la cura.
Facile a dirsi. Possiamo immaginare la lotta interiore? Aveva tre bambini da crescere, una buona scusa umana per l’aborto terapeutico – una tentazione. Dubitò della costanza del proprio volere morale? Anche lei, come tutti noi, sarà stata incerta di non tradire. Ne parlò col marito? Dubitò della sua fermezza, di padre che sarebbe stato lasciato solo coi tre bambini? L’ingegner Molla ha ricordato “lo sguardo profondo” con cui, prima d’essere ricoverata, gli disse: “Se dovete scegliere tra me e il bambino, salvate lui. Lo esigo”. Anche lei non era una superdonna. Non voleva morire; come medico sapeva che c’era una possibilità, e si affidò a Dio. Accettò il tentativo di provocare il parto per vie naturali, che avrebbe forse risolto il problema. Il tentativo fallì; all’ospedale d Monza, il 21 aprile ’62, la quarta bambina – Gianna Emanuela – nacque da taglio cesareo: la ferita da cui venne l’infezione. In poche ore, febbre altissima e dolori atroci rivelarono la peritonite, presto diventata setticemia puerperale. La signora Gianna salì sul suo Calvario tremando, aggrappandosi al Crocifisso. E’ morta a casa sua, dove la riportarono, alle otto del mattino del 28 aprile 1962, a 39 anni. Ora, sono molti convinti che la dottoressa continui ad esercitare la medicina, più viva di prima.
Il mondo la chiamerà folle, ed anche noi saremmo tentati, noi figli dell’epoca che l’aborto lo ha legalizzato come normale mezzo anticoncezionale. E’ la sfida regolare della Casa regnante: “Noi predichiamo la croce, scandalo per i giudei e follia per i greci”, come disse Paolo di Tarso.
La Cresima, ci era stato insegnato quando noi la ricevemmo, infonde lo Spirito e rende “soldati di Cristo”; un carattere indelebile ma potenziale, che possiamo lasciar inattuato. Mari del Carmen capì. Aveva due anni, ma già i discorsi dei grandi e gli spostamenti della famiglia le rendevano chiara la tragedia che incombeva su tutti; fu sballottata, affidata a zie. Ascoltò certo le orrende notizie del ’34, quando le Asturie in rivolta massacrarono preti e seminaristi. Il 15 agosto 1936 dei miliziani si presentarono ed arrestarono papà. Lui disse alla moglie: “Quando crescono, dì ai bambini che papà ha dato la vita per Dio e una Spagna cattolica”. Meno di un mese dopo, alla moglie che si presentò in carcere, dissero: ”Tuo marito? Cercalo all’obitorio”.
Ai bambini non dissero niente. Ma Mari del Carmen cominciò a pregare intensamente il Rosario delle piaghe di Gesù, indicato per le svolte dolorose. La mamma dovette rifugiarsi nell’ambasciata del Belgio per sfuggire alla morte, i bambini furono affidati a una zia; poi anch’essi ottennero asilo nell’ambasciata, perché si scoprì che erano in una lista che li destinava alla deportazione in Russia, per la loro rieducazione. I diplomatici belgi strapparono un salvacondotto per loro, perché raggiungessero la Francia; muniti di questo incerto permesso, nonna, mamma e figli viaggiarono in camion fino a Valencia, da lì si imbarcarono per Marsiglia dove abitarono presso le francescane; poi un nuovo spostamento, a San Sebastian.
La piccola Mari fu affidata a suore irlandesi che avevano un collegio scuola, separata di nuovo dalla famiglia. Lei era la sola alunna che seguiva la Messa delle suore, alle sette del mattino. La mamma le aveva insegnato a pregare “per i nostri nemici”. Quelli che le avevano ucciso il padre, per lei, si riducevano ad uno: il presidente Azana, massone. “Azana si salverà, mamma?”. “Si salverà se fai dei fioretti e preghi per lui”.
Solo dopo la sua morte, la piccola agenda che Mari del Carmen nascondeva ha rivelato la sua scelta. Tre pagine sono precedute dalla scritta: “Privatissimo”. Nella seguente: “29 agosto. Oggi hanno ucciso mio padre”. Nella seguente ancora: “Viva Espana, viva Cristo Rey!” – era il grido che, come aveva sentito dire, lanciavano i laici e i preti prima di essere fucilati o uccisi col colpo alla nuca.
Nell’ultima pagina, il suo segreto: “Mi sono offerta, parrocchia del Buon Pastore, 6 aprile 1939”.
Sua zia Sofia ha ricordato che un giorno, durante una Messa, la piccola le ha chiesto: “Me entrego?”. La zia aveva assentito, senza capire bene cosa intendesse la nipotina. La vide prendere la comunione e poi in ginocchio, concentrarsi coprendosi il viso con le mani. All’uscita, Mari del Carmen chiese alla zia che cosa volesse dire, esattamente, il verbo “entregarse”. Significa consegnarsi, ma nella pratica cattolica ha un significato più preciso: significa offrirsi a Dio per la salvezza di altre anime. Evidentemente, Qualcuno durante la Comunione le aveva suggerito quel verbo che non conosceva. Lei si era “consegnata” per il massone Azana, che aveva ucciso suo babbo.
Il suo calvario cominciò l’8 maggio 1939. I medici diagnosticarono scarlattina. Una forma di virulenza inaudita, che la fece orribilmente soffrire, la coprì di pustole e piaghe in suppurazione. Il 27 maggio ’39 la ricoverarono a Madri per tentare di asportarle una specie di tumore che s’era formato all’orecchio; le rasarono i capelli; le inflissero sieri (non si conoscevano ancora gli antibiotici) fino a 300 cc., che le venivano iniettati nelle vene delle mani, perché quelle del braccio erano ormai irrecuperabili. “Quando le facevamo le iniezioni”, ha ricordato un’infermiera, “ci chiedeva di pregare con lei, un Credo e un Padre Nostro. Recitava lentamente. Quando iniettavamo il siero, pregava forte forte…”. Teneva stretto in mano il libretto che aveva ricevuto alla prima Comunione, uno di quei libretti con la copertina di finta madreperla e con dentro le preghiere. Il suo aveva per titolo: Mi Jesùs. Era il nome che ripeteva nei momenti di sofferenza più difficili. Un medico famoso che fu chiamato per un consulto giudicò “straordinario ed eroico il comportamento della bambina, anche se a me non compete parlare di santità”. Disse che sarebbe morta, come desiderava, il 16 luglio, festa della Madonna del Carmine e suo compleanno. Le dissero che una zia si sposava quel giorno, e lei: “Morirò il giorno dopo”. E così fu. Il corpicino, il volto sfigurato dal male, aveva ripreso la bellezza infantile. Aveva nove anni, era il 17 luglio 1939.
A quel punto Azana, il presidente, fondatore del Frente Popular, non era più più presidente di nulla. La Barcellona repubblicana, in cui lui e il governo s’erano ritirati, era caduta sotto l’impeto delle truppe franchiste a gennaio; il 5 febbraio, Azana riparò in Francia, dove visse ancora un anno, quasi prigioniero, sotto la protezione dell’ambasciata del Messico comunista e massonico. Isolato anche dai suoi compagni di lotta, di cui aveva criticato le divisioni e discordie (comunisti, anarchici, repubblicani..) e lo giudicavano un traditore. Già doveva aver avuto un ripensamento quando, il 18 luglio 1938, davanti alle Cortes, dichiarò la necessità di una riconciliazione nazionale, invocando: Paz, Piedad, Perdón.
Sappiamo per certo che, prima di morire, chiese di confessarsi. Lo confessò, e gli impartì l’estrema unzione, il vescovo della diocesi di Montauban, monsignor Théa, che ha attestato che il suo trapasso, in piena lucidità, era avvenuto “nella speranza nell’amore di Dio”.
Per cui temo che anche la storia della bambina Maria del Carmen susciterà paura in molti buoni cristiani: Dio è così crudele? E dietro, la domanda: Dio non chiederà qualcosa del genere anche a me? No, a voi e a me, no. É dogma che Egli non ci prova oltre le nostre forze, e noi – salvo una grazia – non ne abbiamo nemmeno un briciolo di quella che ha avuto la bambina María del Carmen González Valerio y Sáenz de Heredia, la piccola guerriera. E non è stato Dio crudele, è stata lei ad entregarse, liberamente. E’ una di quelle cose che restano incomprensibili ai sapienti, ma che i bambini capiscono ed accettano con eroismo immediato, quindi faremo bene a non intrometterci.
Che spreco però. Dare la propria vita per uno che non lo meritava. Non è nemmeno giusto, non c’è giustizia nel Paradiso. Sono perfettamente d’accordo. E a questa ingiustizia affido le mie personali speranze di salvezza, perché non sono mai stato migliore di Azana.
E poi: la Chiesa di oggi sarà anche devastata, sembrare in ritirata e in pericolo estremo, o al lumicino prossima a sparire. Ma Maria del Carmen, Gianna Molla, e chissà quanti altri ignoti, confermano che la Verità è quella, quella di Cristo, la cattolica; che niente può vincerla. Può arrivare la tempesta, possiamo noi naufragare, ma non la Verità a cui la Gianna, la Mari, hanno servito e vinto. La Spagna non può esser perduta alla fede, né l’Italia, con quelle intercessioni. Pregate per noi, pregate per l’Europa, per la Chiesa. E noi, cattolici, coraggio.
http://www.maurizioblondet.it
Questo è la condizione di buoni cattolici d’oggi, probabilmente anche buoni cattolici se vanno a messe feriali: aver paura di una preghiera. Che era un presidio. Papa Leone la scrisse di suo pugno dopo essere stato visitato da una visione, il 13 ottobre 1884, in cui una potente voce cavernosa chiedeva cento anni per distruggere la Chiesa: appunto per evocare la protezione del primo arcangelo contro Lucifero. Bisognava spaventarsi quando la protezione fu tolta, magari. Ma non è colpa nostra. “Nei testi conciliari l’inferno non si trova menzionato mai col termine proprio, e solo una volta per obliquo con la perifrasi ‘fuoco eterno’. Alla dottrina stessa dell’inferno non si trova dedicata alcuna pericope”, scrive Romano Amerio (Iota Unum, capitolo Escatologia). L’inferno è stato espulso dalle gerarchie, la sua eternità negata dai teologi. I vescovi di Francia rigettarono il dogma, nel 1978, comunicando ai fedeli che “l’inferno è semplicemente un modo di parlare del Cristo a uomini poco evoluti religiosamente: noi, da allora, ci siamo evoluti…”.
Si è visto come siamo religiosamente evoluti, se essere cattolici significa aver paura di una preghiera. Si noti che, dai sondaggi, almeno metà di quelli che ancor si dicono cattolici non crede all’inferno, né al paradiso; e poi, questi spiriti forti “si spaventano” a sentir nominare “Satanas”, superstiziosamente. O è la ripugnanza invincibile di gente tutta votata all’aldiquà alla sola idea che la nostra vita si adempia nell’aldilà? A tal punto è persa la nozione della tragicità inerente all’esistenza umana? In credenti? Credenti in che cosa, c’è da chiedersi.
L’immagine che diamo noi pochi cattolici rimasti, di timorose pecorelle che in fondo si raccomandano a Gesù e Maria perché ci risparmino i mali di questo mondo; il pacifismo che dà nell’imbelle e confina con la pusillanimità (non escludo me stesso dal gregge) è increscioso, nei tempi che corrono e in quelli che verranno; ed è contrario alla fede, che ci dovrebbe rendere – una volta confessati e comunicati – pronti anche alla morte. Mi domando se non ci sia mancata una pedagogia del coraggio; perché se è vero che la fortezza (la costanza nelle avversità e nelle persecuzioni) è un “dono dello Spirito Santo”, esso è una virtù: e alle virtù ci si allena, essendo esse “buone abitudini” da acquistare.
Scusate se lo cito troppo, ma devo ad Amerio anche questa intuizione: che l’ultima cena, lungi dall’essere un allegro banchetto di Pasqua, fu un evento tragico: nella coscienza che i potenti quella notte stavano braccando il Maestro per “farlo morire”; cala l’ombra del tradimento, e quando il Maestro dice “uno di voi mi tradirà”, tutti Gli domandano: “Sono forse io?”, perché – dice Amerio “nessuno dei discepoli è certo di non tradire…tragica incertezza del proprio volere morale”.
La nostra fortezza, dovremmo strapparla da questo stesso dubbio sulla nostra tempra, sulla costanza della nostra volontà – che chiediamo a Dio, sapendo di non averla. Lo stesso Gesù nella notte del Getsemani, qualche ora dopo, avrà paura, e pregherà nel buio dell’anima. E’ Dio ma anche uomo, ed ha paura – paura del dolore della carne – tanto che il volto gli si copre del sudore di sangue. “Padre, se possibile, passi da me questo calice..”.
Anche Lui, non è un superuomo. Ci ha indicato la via della croce, tremando Lui per primo – e vincendosi. Non indurendosi, ma abbandonandosi alla Volontà del Padre.
L’altro giorno, per un amico che s’è scoperto una grave malattia oculare, ho cominciato una novena a Gianna Beretta Molla, nata nel 1922 e morta nel 1962 dando alla luce il quarto figlio. Feci in tempo ad intervistare suo marito, l’ingegner Pietro Molla, che era il direttore della SAFFA di Magenta (la fabbrica di fiammiferi) e un uomo di una bontà e santità commovente, quando Giovanni Paolo II la dichiarò “venerabile” nel 1991. La signora Gianna è piuttosto popolare anche nei paesi di lingua inglese perché, essendo lei stata medico, ha fama di procurare guarigioni dall’aldilà. Soprattutto di risolvere casi di parti pericolosi.
Fidanzata innamoratissima (come si vede dalle sue lettere al futuro marito), moglie ideale, attivissima amante degli sport, tre gravidanze senza mai cessare l’attività di medico (specie dei bambini e dei vecchi soli), una persona vitale e lieta. Alla quarta gravidanza, si manifestò un fibroma dell’utero, una situazione che – per essere curata – avrebbe comportato la perdita del feto. Non volle la cura.
Facile a dirsi. Possiamo immaginare la lotta interiore? Aveva tre bambini da crescere, una buona scusa umana per l’aborto terapeutico – una tentazione. Dubitò della costanza del proprio volere morale? Anche lei, come tutti noi, sarà stata incerta di non tradire. Ne parlò col marito? Dubitò della sua fermezza, di padre che sarebbe stato lasciato solo coi tre bambini? L’ingegner Molla ha ricordato “lo sguardo profondo” con cui, prima d’essere ricoverata, gli disse: “Se dovete scegliere tra me e il bambino, salvate lui. Lo esigo”. Anche lei non era una superdonna. Non voleva morire; come medico sapeva che c’era una possibilità, e si affidò a Dio. Accettò il tentativo di provocare il parto per vie naturali, che avrebbe forse risolto il problema. Il tentativo fallì; all’ospedale d Monza, il 21 aprile ’62, la quarta bambina – Gianna Emanuela – nacque da taglio cesareo: la ferita da cui venne l’infezione. In poche ore, febbre altissima e dolori atroci rivelarono la peritonite, presto diventata setticemia puerperale. La signora Gianna salì sul suo Calvario tremando, aggrappandosi al Crocifisso. E’ morta a casa sua, dove la riportarono, alle otto del mattino del 28 aprile 1962, a 39 anni. Ora, sono molti convinti che la dottoressa continui ad esercitare la medicina, più viva di prima.
Il mondo la chiamerà folle, ed anche noi saremmo tentati, noi figli dell’epoca che l’aborto lo ha legalizzato come normale mezzo anticoncezionale. E’ la sfida regolare della Casa regnante: “Noi predichiamo la croce, scandalo per i giudei e follia per i greci”, come disse Paolo di Tarso.
La bambina che vinse la guerra di Spagna
Un altro mio amico, da una vacanza a Marbella, mi ha portato la storia che non conoscevo di Mari del Carmen Gonzalez Valerio, nata a Madrid nel 1930 e morta nove anni dopo. Crebbe bambina precocemente intelligente, negli anni della dittatura atea repubblicana e della Guerra Civil. Una foto la mostra in braccio a suo padre con la sorellina maggiore; l’uomo ha l’aria di un buon gigante, una vaga somiglianza con Fernandel. S’era dimesso dall’esercito all’avvento al potere dei rossi; sua moglie, come parente dell’ex capo del governo Primo de Rivera, già suscitava i sospetti delle nuove autorità, che stavano instaurando il tipo di totalitarismo massonico che un decennio prima aveva insanguinato il Messico e provocato il martirio guerriero dei Cristeros. Era chiaro a tutti in famiglia che la persecuzione si avvicinava. Già dal ’31 il governo aveva avviato la “laicizzazione” forzata del paese, pochi mesi dopo sequestrava il patrimonio ecclesiastico, espelleva arcivescovi, introduceva il divorzio, vietava l’insegnamento ai religiosi. Cominciarono gli incendi di conventi e l’uccisione di suore e preti. La famiglia si ritirò nel suo paese paese d’origine, nobiliare, per scomparire da Madrid. Lì arrivò il nunzio apostolico, monsignor Todeschini, amico; gli chiesero di cresimare Mari. Aveva solo due anni, ma i tempi eccezionali facevano capire che , dopo, non sarebbe forse stato più possibile.La Cresima, ci era stato insegnato quando noi la ricevemmo, infonde lo Spirito e rende “soldati di Cristo”; un carattere indelebile ma potenziale, che possiamo lasciar inattuato. Mari del Carmen capì. Aveva due anni, ma già i discorsi dei grandi e gli spostamenti della famiglia le rendevano chiara la tragedia che incombeva su tutti; fu sballottata, affidata a zie. Ascoltò certo le orrende notizie del ’34, quando le Asturie in rivolta massacrarono preti e seminaristi. Il 15 agosto 1936 dei miliziani si presentarono ed arrestarono papà. Lui disse alla moglie: “Quando crescono, dì ai bambini che papà ha dato la vita per Dio e una Spagna cattolica”. Meno di un mese dopo, alla moglie che si presentò in carcere, dissero: ”Tuo marito? Cercalo all’obitorio”.
Ai bambini non dissero niente. Ma Mari del Carmen cominciò a pregare intensamente il Rosario delle piaghe di Gesù, indicato per le svolte dolorose. La mamma dovette rifugiarsi nell’ambasciata del Belgio per sfuggire alla morte, i bambini furono affidati a una zia; poi anch’essi ottennero asilo nell’ambasciata, perché si scoprì che erano in una lista che li destinava alla deportazione in Russia, per la loro rieducazione. I diplomatici belgi strapparono un salvacondotto per loro, perché raggiungessero la Francia; muniti di questo incerto permesso, nonna, mamma e figli viaggiarono in camion fino a Valencia, da lì si imbarcarono per Marsiglia dove abitarono presso le francescane; poi un nuovo spostamento, a San Sebastian.
La piccola Mari fu affidata a suore irlandesi che avevano un collegio scuola, separata di nuovo dalla famiglia. Lei era la sola alunna che seguiva la Messa delle suore, alle sette del mattino. La mamma le aveva insegnato a pregare “per i nostri nemici”. Quelli che le avevano ucciso il padre, per lei, si riducevano ad uno: il presidente Azana, massone. “Azana si salverà, mamma?”. “Si salverà se fai dei fioretti e preghi per lui”.
Solo dopo la sua morte, la piccola agenda che Mari del Carmen nascondeva ha rivelato la sua scelta. Tre pagine sono precedute dalla scritta: “Privatissimo”. Nella seguente: “29 agosto. Oggi hanno ucciso mio padre”. Nella seguente ancora: “Viva Espana, viva Cristo Rey!” – era il grido che, come aveva sentito dire, lanciavano i laici e i preti prima di essere fucilati o uccisi col colpo alla nuca.
Nell’ultima pagina, il suo segreto: “Mi sono offerta, parrocchia del Buon Pastore, 6 aprile 1939”.
Sua zia Sofia ha ricordato che un giorno, durante una Messa, la piccola le ha chiesto: “Me entrego?”. La zia aveva assentito, senza capire bene cosa intendesse la nipotina. La vide prendere la comunione e poi in ginocchio, concentrarsi coprendosi il viso con le mani. All’uscita, Mari del Carmen chiese alla zia che cosa volesse dire, esattamente, il verbo “entregarse”. Significa consegnarsi, ma nella pratica cattolica ha un significato più preciso: significa offrirsi a Dio per la salvezza di altre anime. Evidentemente, Qualcuno durante la Comunione le aveva suggerito quel verbo che non conosceva. Lei si era “consegnata” per il massone Azana, che aveva ucciso suo babbo.
Il suo calvario cominciò l’8 maggio 1939. I medici diagnosticarono scarlattina. Una forma di virulenza inaudita, che la fece orribilmente soffrire, la coprì di pustole e piaghe in suppurazione. Il 27 maggio ’39 la ricoverarono a Madri per tentare di asportarle una specie di tumore che s’era formato all’orecchio; le rasarono i capelli; le inflissero sieri (non si conoscevano ancora gli antibiotici) fino a 300 cc., che le venivano iniettati nelle vene delle mani, perché quelle del braccio erano ormai irrecuperabili. “Quando le facevamo le iniezioni”, ha ricordato un’infermiera, “ci chiedeva di pregare con lei, un Credo e un Padre Nostro. Recitava lentamente. Quando iniettavamo il siero, pregava forte forte…”. Teneva stretto in mano il libretto che aveva ricevuto alla prima Comunione, uno di quei libretti con la copertina di finta madreperla e con dentro le preghiere. Il suo aveva per titolo: Mi Jesùs. Era il nome che ripeteva nei momenti di sofferenza più difficili. Un medico famoso che fu chiamato per un consulto giudicò “straordinario ed eroico il comportamento della bambina, anche se a me non compete parlare di santità”. Disse che sarebbe morta, come desiderava, il 16 luglio, festa della Madonna del Carmine e suo compleanno. Le dissero che una zia si sposava quel giorno, e lei: “Morirò il giorno dopo”. E così fu. Il corpicino, il volto sfigurato dal male, aveva ripreso la bellezza infantile. Aveva nove anni, era il 17 luglio 1939.
A quel punto Azana, il presidente, fondatore del Frente Popular, non era più più presidente di nulla. La Barcellona repubblicana, in cui lui e il governo s’erano ritirati, era caduta sotto l’impeto delle truppe franchiste a gennaio; il 5 febbraio, Azana riparò in Francia, dove visse ancora un anno, quasi prigioniero, sotto la protezione dell’ambasciata del Messico comunista e massonico. Isolato anche dai suoi compagni di lotta, di cui aveva criticato le divisioni e discordie (comunisti, anarchici, repubblicani..) e lo giudicavano un traditore. Già doveva aver avuto un ripensamento quando, il 18 luglio 1938, davanti alle Cortes, dichiarò la necessità di una riconciliazione nazionale, invocando: Paz, Piedad, Perdón.
Sappiamo per certo che, prima di morire, chiese di confessarsi. Lo confessò, e gli impartì l’estrema unzione, il vescovo della diocesi di Montauban, monsignor Théa, che ha attestato che il suo trapasso, in piena lucidità, era avvenuto “nella speranza nell’amore di Dio”.
* * *
Il Concilio ha risparmiato ai fedeli molte ansie ed ha ritenuto suo compito nutrirci di un cristianesimo ad usum Delphini, edulcorato del tragico e del folle. Non si parla più di “mortificazioni”; almeno le avessimo ribattezzate “battaglie”, e le rinunce “vittorie”, avremmo fatto un passo avanti.Per cui temo che anche la storia della bambina Maria del Carmen susciterà paura in molti buoni cristiani: Dio è così crudele? E dietro, la domanda: Dio non chiederà qualcosa del genere anche a me? No, a voi e a me, no. É dogma che Egli non ci prova oltre le nostre forze, e noi – salvo una grazia – non ne abbiamo nemmeno un briciolo di quella che ha avuto la bambina María del Carmen González Valerio y Sáenz de Heredia, la piccola guerriera. E non è stato Dio crudele, è stata lei ad entregarse, liberamente. E’ una di quelle cose che restano incomprensibili ai sapienti, ma che i bambini capiscono ed accettano con eroismo immediato, quindi faremo bene a non intrometterci.
Che spreco però. Dare la propria vita per uno che non lo meritava. Non è nemmeno giusto, non c’è giustizia nel Paradiso. Sono perfettamente d’accordo. E a questa ingiustizia affido le mie personali speranze di salvezza, perché non sono mai stato migliore di Azana.
E poi: la Chiesa di oggi sarà anche devastata, sembrare in ritirata e in pericolo estremo, o al lumicino prossima a sparire. Ma Maria del Carmen, Gianna Molla, e chissà quanti altri ignoti, confermano che la Verità è quella, quella di Cristo, la cattolica; che niente può vincerla. Può arrivare la tempesta, possiamo noi naufragare, ma non la Verità a cui la Gianna, la Mari, hanno servito e vinto. La Spagna non può esser perduta alla fede, né l’Italia, con quelle intercessioni. Pregate per noi, pregate per l’Europa, per la Chiesa. E noi, cattolici, coraggio.
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