Il riferimento al sensus fidei è emerso di frequente durante il lungo percorso di questo Sinodo sulla Famiglia. E’ emerso nelle richieste di “ascoltare” le varie situazioni della vita in ordine ai temi in discussione. E’ emerso dalle risposte ai questionari diffusi nelle diocesi e non sempre impostati in modo corretto. E’ emerso dalle raccolte di firme a proposito di questa o di quest’altra richiesta. Si ha però l’impressione che non sempre sia stato adoperato nel senso teologicamente corretto.
Quella del “senso della fede” o, meglio “senso soprannaturale della fede”, propria di “tutti i fedeli” e che non può errare è una nozione teologica di grande importanza. Il Catechismo della Chiesa cattolica la definisce più volte. I paragrafi 91, 92 e 93 dicono, tra l’altro che «La totalità dei fedeli non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà mediante il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo quando, dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi». I paragrafi 785 e 889 ne ribadiscono il contenuto di inerranza e il paragrafo 250 afferma che i Primi concili definirono le verità della fede cattolica «aiutati dalla ricerca teologica dei Padri della Chiesa e sostenuti dal senso della fede del popolo cristiano». Il Concilio ne aveva parlato nel paragrafo 10 e 12 della Lumen gentium.
L’argomento è di quelli “sottili”, che è facile intendere malamente se si dimentica che qui si parla della fede come virtù teologale soprannaturale, se si intendono i fedeli come singoli individui e non come membra del Corpo di Cristo, se lo si associa ad una visione sociologica del “popolo di Dio” e se si identificano i fedeli con le persone numericamente esigue che partecipano attivamente alle attività ecclesiali e frequentano abitualmente le curie e gli uffici pastorali. Se chiedessimo il parere ai presidenti di tutti i consigli pastorali della Chiesa italiana circa la comunione ai divorziati risposati o sulla liceità morale dei metodi contraccettivi non otterremmo granché che abbia un qualche collegamento con il sensus fidei.
L’Istruzione Donum veritatis della Congregazione per la Dottrina della fede del 24 maggio 1990 dice che «le opinioni dei fedeli non possono essere puramente e semplicemente identificate con il sensus fidei. Quest’ultimo è una proprietà della fede teologale la quale, essendo un dono di Dio che fa aderire personalmente alla Verità, non può ingannarsi. Questa fede personale è anche fede della Chiesa, poiché Dio ha affidato alla Chiesa la custodia della parola e, di conseguenza, ciò che il fedele crede è ciò che crede la Chiesa. Il sensus fidei implica pertanto, di sua natura, l’accordo profondo dello spirito e del cuore con la Chiesa, il sentire cum Ecclesia».
In parole più semplici, il sensus fidei non ha niente a che vedere con le inchieste, i questionari, le interviste, le indagini sociologiche, le rilevazioni statistiche su come la pensano i fedeli della Chiesa cattolica su questo o quest’altro tema teologico o di costume. Tra l’altro sarebbe piuttosto difficile identificarli, dato che la fede di cui si cerca il senso è un dono soprannaturale che di solito i fedeli non hanno stampato sulla fronte. I primi Concili ecumenici, le cui conclusioni, come dice il Catechismo, sono state sostenute «dal senso della fede del popolo cristiano», non avevano fatto ricerche demoscopiche sulle opinioni dei fedeli cattolici, né lo hanno fatto i Pontefici proclamando lungo la storia i vari dogmi della nostra fede, espressione di quanto la Chiesa aveva da sempre creduto e, quindi, anche del sensus fidei.
L’appello al sensus fidei di solito si accompagna all’idea di una Chiesa “dal basso”. Dal basso o dall’alto sono espressioni anche queste sociologiche. Una cosa mi sembra sicura, che la Chiesa è stata costituita da Gesù Cristo ed è animata dal Suo spirito secondo la volontà del Padre. Non sono i fedeli a fare la Chiesa, piuttosto è la Chiesa a fare i fedeli. Prima c’è la Chiesa e poi i fedeli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, e vi ho costituiti». La Chiesa non nasce dall’assemblaggio di elementi di base ad essa preesistenti. Quando si pensa a questo, si corre sempre il pericolo di pensare che la rivelazione di Dio passi prima di tutto nel “popolo” oppure nei “poveri”, oppure negli “ultimi” intesi però in una accezione sociologica. Se non dentro la Chiesa e per la Chiesa tutte queste categorie non hanno significato teologico ma solo materiale, un puro fatto empirico, altro che sensus fidei.
Si capisce che collegato con questo discorso è la tendenza ormai diventata una specie di dogma, di partire sempre non dalla parola di Dio, ma dalla situazione, come in una perpetua inchiesta “dal basso”. La priorità assegnata alle scienze sociali ci sta portando fuori strada. Sarebbe ora di rivedere questo metodo “induttivo” ormai pedissequamente seguito. Se non illuminato dalla luce di Cristo ogni fatto empirico è solo un fatto empirico.
http://www.lanuovabq.it/ 24 ott 2015
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