Dalla finestra del tempo: Il dejà-vu di una Chiesa che di ripete
11 lug 2025
don Mario Proietti,
Era lo stesso spirito che avrebbe poi germogliato nei tardi anni Sessanta e nei Settanta: quelli del Sessantotto, della contestazione, della “fantasia al potere”, delle liberazioni da ogni vincolo, dei fiori nei cannoni. La morale sessuale veniva irrisa, la figura del sacerdote messa sotto accusa, le strutture ecclesiali decostruite, la liturgia reinterpretata, l’autorità rovesciata. Tutto ciò che veniva da prima era sospetto, tutto ciò che nasceva dal basso era sacro. Era il tempo delle lotte contro i tabù, della teologia che si faceva sociologia, della comunità che si faceva laboratorio. Un grido di liberazione inseguito, ma mai davvero compiuto. Una rincorsa utopica che lasciava dietro di sé molte fratture.
Rileggo i nomi di quei confratelli, ormai tutti morti, e mi tornano alla mente certi tentativi, neppure troppo velati, di indottrinarmi. Ricordo bene gli sforzi di alcuni per trascinarmi nelle loro visioni, per farmi aderire alle nuove parole d’ordine, per coinvolgermi in quel cantiere perenne che chiamavano rinnovamento. Ma, grazie a Dio, fui schermato. Forse perché non avevo accesso alle “stanze dei bottoni”, forse perché non mi si considerava “abbastanza aggiornato”. Eppure, col tempo, ho compreso che proprio quell’essere rimasto alla finestra, silenzioso, discreto, osservatore, mi ha salvato. Non essendo coinvolto nella macchina ideologica, non ho dovuto giustificare nulla. E ho potuto, con gli anni, mantenere intatta una certa lucidità critica, che oggi mi permette di giudicare con serenità.
Ripensando a tutto questo, mi è tornato alla mente un episodio che ha fatto notizia proprio in questi giorni: nel centro storico di Perugia, nei pressi della chiesa di San Domenico, sono apparse nella notte scritte offensive e minacciose, tracciate a vernice verde, con frasi come: «Fuori la Chiesa dalle mie mutande» e «Le chiese si chiudono col fuoco… ma coi preti dentro se no è troppo poco». Parole che, sebbene volgari, non sono nuove. Ricordo bene che negli anni Settanta, nel mio piccolo paese, qualcuno aveva scritto fuori dalla chiesa: «Se vedi un punto nero spara a vista: o è un prete o un fascista». Sono slogan che appartengono a una mentalità, a una cultura, a un impasto ideologico che non è mai stato veramente elaborato. Anzi, a volte sembra essere stato solo ripulito nella forma, ma non nella sostanza.
Ho riletto anche, alla luce di questi fatti, alcune pagine del recente documento del Sinodo, e soprattutto alcune eco della celebrazione eucaristica di ieri presieduta dal Pontefice. Tra queste, mi ha colpito una dichiarazione di una religiosa oggi molto influente nei dicasteri vaticani: «Il Borgo Laudato Si’ vuole essere un laboratorio nel quale vivere quell’armonia con il creato che è per noi guarigione e riconciliazione. L’Eucaristia dà senso e sostiene il nostro lavoro». Ecco, proprio quella parola: laboratorio. Come un déjà-vu, una musica già sentita, una formula che riappare, immutata, con la pretesa di essere nuova. E invece è antica. Antica come l’illusione di rifondare il Vangelo sulla prassi invece che sulla rivelazione, sulla relazione invece che sulla verità, sull’esperienza invece che sulla grazia.
Viviamo in una Chiesa dove tutto è “in fase sperimentale”. Ogni proposta è un “percorso”, ogni itinerario è “da verificare”, ogni linguaggio è “da co-costruire”. Ma mai che si arrivi a un punto. Mai che si valuti con onestà se quel laboratorio ha prodotto fede viva o solo sociologia pastorale. E questa impostazione non nasce oggi, ma è l’eredità di una generazione che oggi è al potere e che continua ad applicare con ostinazione le stesse categorie che in passato hanno già mostrato la loro sterilità.
Quella generazione, formata nella contestazione e nell’antidogmatismo, ha raggiunto i vertici. Le loro convinzioni, una volta sperimentali, sono ora proclamate come indiscutibili. Le prassi diventano dogmi operativi. E guai a metterle in discussione. Mai una seria verifica sulla ricezione reale della proposta. Mai una riflessione onesta sui frutti. Se l’evangelizzazione non prende il largo, la colpa non è mai del metodo. È degli altri. Del clero che non collabora, dei fedeli che non capiscono, dei giovani che non si lasciano formare. Il laboratorio è infallibile. Chi non si converte ad esso è fuori.
Ed è proprio questo che più ferisce: l’impossibilità di dialogare. Ho parlato con molti promotori di questi “processi pastorali”. Mai che uno abbia detto: “Forse abbiamo sbagliato qualcosa”. La colpa è sempre dell’altro. Del vescovo che frena, del parroco che resiste, del fedele che non recepisce. Nessuno che dica: verifichiamo insieme, con umiltà. Nessuno che si lasci interrogare seriamente. La mentalità è divenuta sistema. E il sistema, ormai, si difende da sé.
Eppure, la realtà è sotto gli occhi: i linguaggi si sono fatti incomprensibili, le prassi stancano, le celebrazioni confondono, le comunità si svuotano. I giovani cercano altro, la gente ha sete di Dio e non di gruppi di lavoro. Ma si continua a rilanciare: un altro documento, un altro convegno, un’altra piattaforma, un’altra équipe. Si vive come in una distopia ecclesiale, dove la pastorale non serve a trasmettere la fede, ma a giustificare se stessa.
La Chiesa non è un laboratorio. Non è un centro studi pastorale. È la Sposa di Cristo, chiamata ad annunciare la verità, a trasmettere la fede, a salvare le anime. E quando dimentica questo, non è più evangelizzatrice ma autoreferenziale. Non è più sacramento di salvezza, ma macchina comunicativa.
Chi oggi prova a richiamare questa verità viene spesso accusato di essere nostalgico. Ma la vera nostalgia è per la fede che si toccava. Per la verità che si confessava. Per la liturgia che si adorava. Per il Vangelo che si predicava. Non servono altri laboratori. Serve una Chiesa che torni a inginocchiarsi davanti a Cristo, prima di sedersi a tavoli pastorali. Che si lasci giudicare dalla Tradizione, prima di giudicare la storia. Che si converta, prima di convocare. Solo così la fede tornerà a respirare. E il laboratorio potrà finalmente chiudere.
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