di Sabino Paciolla,6 luglio 2025
Ho partecipato per la prima volta alla messa in latino, come usualmente viene chiamata (vetus ordo, secondo l’ultima riforma del rito avvenuta nel 1962 sotto Papa San Giovanni XXIII), circa sei anni fa. All’inizio, pur riscontrando qualche difficoltà dovuta alla lingua, ho provato subito una “strana” emozione, come una scossa che mi ha reso immediatamente chiaro ciò che confusamente percepivo e ricercavo nella messa secondo la forma ordinaria (per semplicità “in italiano”, cioè novus ordo, introdotto nel 1970): il senso del sacro.
La messa in latino mi pareva, grazie alle frequenti pause in cui si rimane in silenzio, ai momenti di raccoglimento, alla essenzialità e solennità del rito, che mi aiutasse meglio di quella “in italiano” a capire di essere alla presenza Signore, a percepire il senso del sacro, a spingere verso un naturale atteggiamento di adorazione dell’Altissimo, che si rende appunto presente durante la messa, ogni messa.
Di conseguenza, la messa in latino mi ha reso immediatamente palese l’assurdità di certi abusi liturgici che vengono perpetrati durante la messa “in italiano”, quelle manifestazioni stravaganti ad opera di sacerdoti che a volte rasentano il carnevalesco ed il cattivo gusto. Tutte queste “stravaganze” sono espressioni, a mio parere, di autoreferenzialità da parte del clero, di appropriazione indebita di ciò che in definitiva appartiene alla Chiesa, di dimenticanza del principio basilare che il sacerdote è un ministro e non il proprietario del rito. Tali manifestazioni sono l’espressione della perdita del senso del bello e, contestualmente, segno dell’assorbimento del brutto che ha invaso la società moderna, ampiamente scristianizzata. Pare, tristemente, che il nichilismo che pervade il tempo presente sia entrato anche nella Chiesa.
Preciso subito, a scanso di equivoci, che io partecipo normalmente alla messa “in italiano” e, quando mi è possibile, con piacere, anche a quella in latino, visto che tale rito non è presente nel luogo ove io risiedo. Ritengo ambedue le forme valide e, se partecipate senza una posizione ideologica nei confronti dell’una o dell’altra forma, utili alla crescita spirituale delle persone. Dirò di più, l’aver partecipato alla messa in latino mi ha fatto capire di più e meglio quella in italiano ed a parteciparvi con più consapevolezza.
Dato il beneficio spirituale che personalmente ho ricevuto dalla partecipazione alla messa in latino, sono rimasto scioccato nell’apprendere, il 16 luglio 2021, che Papa Francesco aveva emesso il motu proprio Traditionis custodes che riformava il motu proprio Summorum Pontificum che Benedetto XVI aveva promulgato il 7 luglio 2007.
In poche parole, Papa Benedetto, con il motu proprio Summorum Pontificum, aveva voluto liberalizzare e regolamentare l’uso della liturgia tradizionale della Messa in latino, secondo il Messale Romano del 1962 (la cosiddetta “Messa Tridentina” o “Forma Straordinaria”), con la duplice finalità di facilitare l’accesso alla liturgia tradizionale e promuovere la riconciliazione ecclesiale (sanare cioè le divisioni con gruppi cattolici tradizionalisti, come la Fraternità Sacerdotale San Pio X). Papa Francesco, al contrario, con il suo motu proprio, limitava fortemente l’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, quella “in latino”. Ad aggravare la situazione vi era il fatto che il suo predecessore, Papa Benedetto XIV, l’autore del Summorum Pontificum, era ancora in vita, configurando così il suo atto come un vero e proprio sgarbo.
Non riuscivo a capacitarmi che Papa Francesco potesse limitare fortemente una cosa così bella, così grande, così preziosa, così appartenente alla Chiesa da circa 1.500 anni, un rito a cui avevano messo mano grandi teologi e persino santi importantissimi nella storia della Chiesa. Possibile, mi chiedevo, che teologi odierni possano arrivare a dire che non è bene seguire una forma della messa che il popolo cristiano, santi e teologi hanno seguito per circa 1.500 anni? Lo stesso Benedetto XVI scriveva:
Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto (Summorum Pontificum 10).e inoltre:
Il Messale romano promulgato da Paolo VI è l’espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale romano promulgato da san Pio V e nuovamente edito da Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano.Mi pareva quindi tutto assurdo. Cosa era successo?
Papa Francesco, nel 2020 fece inviare all’episcopato mondiale, a mezzo della Congregazione per la Dottrina della fede, un questionario consultivo mirante a fare il punto, dopo 13 anni, sull’applicazione del Summorum Pontificum. Si chiedeva, sulla base di 9 domande, come fosse stato accolto ed applicato il Summorum Pontificum.
Chiusa la consultazione, Papa Francesco, nella lettera che accompagnava il motu proprio Traditionis Custodes, affermava perentoriamente che «le risposte pervenute hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire». In sintesi, il Papa spiegava che era dovuto intervenire per porre rimedio alla situazione critica manifestata dai vescovi di tutto il mondo causata dai cattivi esiti prodotti dall’applicazione del Summorum Pontificum di Papa Benedetto XIV.
La cosa strana, però, era che i risultati della consultazione venivano tenuti segreti a tutti i vescovi e persino a Benedetto XVI. Il che era inspiegabile…e non convincente. I dubbi, poi, crebbero a dismisura quando abbiamo letto, nella autobiografia “Spera” del gennaio 2025, espressioni al limite dell’insulto come:
«È sociologicamente interessante il fenomeno del tradizionalismo, questo “indietrismo” che in ogni secolo regolarmente ritorna, questo riferimento a una presunta età perfetta che è però ogni volta un’altra».e poi in maniera pesantissima:
“Perché non è sano che la liturgia si faccia ideologia. È curioso questo fascino per ciò che non si comprende, che appare un po’ occulto, e che a volte sembra interessare anche le generazioni più giovani. Spesso questa rigidità si accompagna alle sartorie ricercate e costose, ai pizzi, ai merletti, ai rocchetti. Non gusto della tradizione, ma ostentazione di clericalismo, che poi altro non è che la versione ecclesiale dell’individualismo. Non ritorno al sacro, tutt’altro, ma mondanità settaria. A volte questi travestimenti celano squilibri, deviazioni affettive, difficoltà comportamentali, un disagio personale che può venire strumentalizzato”.Questi toni forti e la segretezza dei risultati della consultazione mostravano, direi chiaramente, che la ragione ultima della quasi abolizione del Summorum Pontificum, della cosiddetta messa in latino, non fosse tanto l’esito del sondaggio dei vescovi quanto una posizione preconcetta di ostilità ideologica nei confronti della messa in latino maturata nel circolo di teologi e chierici che circondavano Papa Francesco o, se vogliamo, di cui Papa Francesco si circondava. Una posizione ideologica che però veniva da lontano, da oltre 60 anni, come dirò più oltre.
Di tutto questo abbiamo ampiamente riferito su questo blog con vari articoli.
E’ in questo contesto che si inserisce lo scoop del primo luglio scorso della giornalista Diane Montagna, di cui abbiamo parlato qui, la quale ha pubblicato per la prima volta il giudizio complessivo della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) basato sulla consultazione dei vescovi del 2020 riguardo al Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Il documento che, come abbiamo detto, era rimasto segreto per 4 anni, rivela sorprendentemente tutta un’altra storia, e cioè che la maggioranza dei vescovi riteneva che modificare il Summorum Pontificum avrebbe causato più danni che benefici, contraddicendo la motivazione ufficiale di Traditionis Custodes e sollevando dubbi sulla sua credibilità.
I documenti resi pubblici dalla giornalista Montagna frantumano le parole che papa Francesco aveva scritto in una lettera di accompagnamento indirizzata ai vescovi di tutto il mondo. Egli infatti aveva scritto: «Purtroppo, l’obiettivo pastorale dei miei Predecessori […] è stato spesso gravemente disatteso. L’opportunità offerta da San Giovanni Paolo II e, con ancora maggiore magnanimità, da Benedetto XVI […] è stata sfruttata per ampliare le divisioni, rafforzare le divergenze e incoraggiare i dissensi che feriscono la Chiesa, le ostacolano il cammino e la espongono al pericolo della divisione».
La realtà, dopo quello che è venuto fuori, è invece totalmente diversa.
Nel corso di una conferenza stampa tenutasi in Vaticano il 3 luglio scorso, è stato chiesto all’arcivescovo Vittorio Francesco Viola, segretario del Dicastero per il Culto Divino, di commentare il documento pubblicato il 1° luglio da Diane Montagna. Mentre l’arcivescovo Vittorio Francesco Viola si apprestava a rispondere, è intervenuto subito, togliendogli la possibilità di rispondere, il direttore della sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, il quale ha obiettato che la conferenza stampa era dedicata alla presentazione del nuovo formulario della Messa per la cura del creato, che verrà aggiunto alle Messe per diverse necessità e circostanze del Messale Romano. Bruni ha successivamente affermato che non stava “confermando l’autenticità dei testi pubblicati”, aggiungendo anche che «si tratta presumibilmente di parte di uno dei documenti su cui si è basata la decisione [di pubblicare Traditionis custodes,ndr], e costituisce un contributo a una ricostruzione molto parziale e incompleta del processo decisionale».
Ora, se è vero che Bruni non ha confermato l’autenticità del documento portato alla luce da Montagna, cosa ancora più importante, non ne ne ha smentito esplicitamente il contenuto. E questo, da un punto di vista giornalistico, è importantissimo.
Purtroppo per Bruni e per fortuna per noi, ad avvalorare la veridicità del documento della Montagna, giunge in soccorso il prezioso volume, pubblicato il 2 luglio scorso per i tipi di Fede & Cultura, intitolato: “La liturgia non è uno spettacolo”, con sottotitolo “Il questionario ai vescovi sul rito antico – Arma di distruzione di messa?”, scritto da mons. Nicola Bux e Saverio Gaeta.
Mons. Nicola Bux è un teologo e liturgista italiano. Ha studiato teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. È stato professore di teologia sacramentale a Bari e consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice Benedetto XVI. Esperto di liturgia, ha scritto numerosi libri, tra cui La riforma di Benedetto XVI. Saverio Gaeta è un giornalista, scrittore e saggista italiano, vaticanista di Famiglia Cristiana.
Il volume è prezioso perché spiega in maniera chiara, semplice e concisa il senso e la storia della liturgia, il sacramento della messa, l’ideologia conciliarista che ha avvelenato i frutti del Concilio Vaticano II, l’odierna crisi ecclesiale che dipende in gran parte dal crollo della liturgia, e tanto altro. Spiega la genesi del Summorum Pontificum e le puntuali ragioni che Papa Benedetto XVI ha portato a sostegno del suo motu proprio.
Il volume è però soprattutto importante perché illustra in maniera approfondita i risultati del famoso “questionario ai vescovi sul rito antico” fatto inviare da Papa Francesco ai vescovi di tutto il mondo che hanno portato poi a Traditionis Custodes e che, come detto, sono stati tenuti segreti ma che ora sono trapelati.
“A curare lo studio delle risposte,” si legge nel volume “l’elaborazione dei dati e il riepilogo conclusivo fu la Quarta sezione (già pontificia commissione Ecclesia Dei). Ovviamente, la parte più interessante del dossier è il giudizio complessivo, tracciato dai responsabili della congregazione per utilità di papa Francesco, il quale però non ne tenne sufficiente conto. Quel che viene immediatamente sottolineato nella sintesi è che:
dall’importante mole di documenti inviati e trattati si evince che il motu proprio Summorum Pontificum svolge oggi un ruolo significativo, seppur relativamente esiguo, nella vita della Chiesa. Concepito da papa Benedetto XVI dopo anni di scontri talvolta aspri tra i sostenitori della liturgia riformata del 1970 e quelli del Missale romanum nella sua versione del 1962, il motu proprio Summorum Pontificum ha saputo affermare l’uguale dignità delle due Forme del medesimo Rito romano, creando le condizioni favorevoli a una vera pace liturgica, in vista anche di una eventuale unità delle due Forme nel futuro.[…]
Una valutazione globale indica che la diffusione del Rito romano antico, dopo il motu proprio Summorum Pontificum, si era all’epoca attestata intorno al 20% circa delle diocesi latine nel mondo. La sua applicazione «è certamente più serena e pacificata, anche se non dappertutto».
[…]
la maggioranza dei vescovi coinvolti dal questionario, che hanno generosamente e intelligentemente applicato il motu proprio Summorum Pontificum, si dichiara alla fine soddisfatto di esso,..[…]
Di particolare interesse una costante che i vescovi fanno notare:
Quella secondo cui sono i giovani a scoprire e a scegliere questa liturgia antica. La maggior parte dei gruppi stabili presenti nell’orbe cattolico è composta di giovani e di giovani convertiti alla fede cattolica o che vi ritornano dopo un tempo di lontananza dalla Chiesa e dai sacramenti. Essi sono ammirati della sacralità, serietà, solennità della liturgia. Quello che più notano, anche a causa di una società eccessivamente rumorosa e parolaia, è la riscoperta del silenzio nella azione sacra, le parole contenute ed essenziali, una predicazione fedele alla dottrina della Chiesa, la bellezza del canto liturgico, la dignità celebrativa: un tutt’uno che attrae non poco.Riguardo al problema della fuoriuscita di cattolici che si dirigono verso altre realtà, nel giudizio complessivo si può leggere:
alcuni vescovi fanno notare che è necessario tutelare i gruppi stabili [che seguono il Summorum Pontificum, ndr] per evitare fuoriuscite dalla Chiesa verso realtà scismatiche o verso la fraternità sacerdotale San Pio X (FSSPX).[…]
Quel che nei questionari è stato segnalato da diversi vescovi è che «là dove questa dimensione ecclesiologica è stata recepita e applicata sta portando frutti visibili, in particolare nella liturgia». Tant’è che viene posto in risalto «il bene apportato dal motu proprio Summorum Pontificum anche per la Forma ordinaria della liturgia e per un recupero di sacralità nella azione liturgica e per un processo di riconciliazione intra-ecclesiale».”
Quello che è importante è che la maggioranza dei vescovi riconosce è che:
Qualsiasi intervento esplicito può causare più danni che vantaggiInoltre, i vescovi riconoscono ulteriori rischi:
un eventuale cambiamento favorirebbe la fuoriuscita di fedeli dalla Chiesa, di fedeli delusi, verso la FSSPX o altri gruppi scismatici, e questo darebbe forza a chi sostiene l’idea che non si deve mai avere fiducia in una Roma che dà con una mano e riprende con l’altra. Cambiare la normativa provocherebbe dunque una ripresa delle guerre liturgiche. Potrebbe anche favorire la nascita di un nuovo scisma. Inoltre delegittimerebbe due pontefici, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che si erano impegnati per non abbandonare questi fedeli.Quello che ho riportato è solo una piccola parte di quanto riportato nel volume circa il “giudizio conclusivo” del questionario e, nonostante ciò, si capisce subito che, pur in presenza di pareri critici, la maggioranza dei vescovi di tutto il mondo si è espressa chiaramente a favore della permanenza, senza alcuna variazione legislativa, del Summorum Pontificum.
“Di estremo interesse risulta il florilegio di citazioni, tratte dalle risposte pervenute dalle diocesi, che i curatori del Dossier proposero a conclusione della sintesi sui risultati della consultazione. La scelta appare molto indicativa, soprattutto in quanto fu ritenuta rappresentativa della posizione complessiva dell’episcopato mondiale e venne perciò offerta a papa Francesco affinché potesse trarre consapevolmente le sue conclusioni e le conseguenti decisioni in merito al motu proprio Summorum Pontificum.”
Invito i lettori di questo blog a leggere direttamente dal volume, a cui rimando, il “florilegio di citazioni” per rendersi chiaramente conto di cosa è venuto fuori. Il volume può essere acquistato qui.
Da quello che sommariamente ho delineato sulla base della lettura del libro di mons. Nicola Bux e Saverio Gaeta, si capisce come la motivazione data da Papa Francesco per sostenere il suo motu proprio Traditionis Custodes sia del tutto falsa perché i vescovi NON volevano che si ponesse mano a variazioni legislative, in senso restrittivo, del Summorum Pontificum. Inoltre, che la decisione di portare alla restrizione, e addirittura alla soppressione, poi quest’ultima fase non attuata (forse per la levata di scudi espressa da blog e semplici fedeli), sia nata da circoli di teologi che hanno un pregiudizio ideologico contro un rito, quello in latino, che è tesoro e patrimonio della Chiesa.
Dicevo all’inizio di questo articolo che questo astio, questo autentico veleno, nei confronti del vetus ordo, e questo favore pregiudiziale nei confronti del rito in vernacolo nasce da molto lontano. Per dimostrarlo riporto un episodio. Si ricorderà che l’artefice della riforma della liturgia che portò alla messa “in italiano”, con tutti i suoi punti critici che hanno poi aperto alla “creatività” di cattivo gusto cui oggi assistiamo e le distorsioni di natura protestante, fu padre Annibale Bugnini. Egli fu segretario della Commissione per la riforma liturgica istituita da Papa Pio XII. Morto Pio XII il 9 ottobre del 1958, egli continuò il suo lavoro sotto Giovanni XXIII. Ebbene, egli, l’11 ottobre 1961, introdusse i lavori della commissione preparatoria sulla sacra liturgia con queste sconcertanti affermazioni che riprendo dal volume di Bux-Gaeta:
La cosa più sconveniente per gli articoli della nostra costituzione sarebbe se venissero respinti dalla commissione centrale o dallo stesso concilio. Pertanto, dobbiamo procedere cautamente e con discrezione. Cautamente, in modo da proporre le cose in modo accettabile, cioè, nella mia opinione, in parole tali che dicano molto e sembri che nulla sia detto: che molto venga detto in embrione e si lasci così la porta aperta a legittime e possibili deduzioni e applicazioni postconciliari: che nulla sia detto che abbia un sapore straordinariamente nuovo; che possa, per quanto ingenuo e innocente, indebolire tutto il resto.In conclusione, ringrazio sia la giornalista Diane Montagna che mons. Nicola Bux e Saverio Gaeta per l’ottimo lavoro che hanno svolto a beneficio della verità. Esso risulterà sicuramente gradito a tutti i vescovi del mondo in quanto, dopo ben quattro anni, hanno potuto apprendere il risultato di una consultazione che li ha interessati in prima persona ma di cui sono stati tenuti all’oscuro.
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