martedì 15 aprile 2025

La Chiesa è uscita dal Seminario, boom di vocazioni "tradizionali"


 

L'analisi dei dati mostra un fenomeno ricorrente: dove c'è maggiore secolarizzazione pochi vogliono farsi prete. In controtendenza le istituzioni che celebrano il Vetus Ordo. Attesa per l'omelia del Giovedì Santo di Repole. Quaresima "medievale" a Vercelli.


SACRO & PROFANO

Sebbene la situazione vocazionale vari da un Paese all’altro, l’analisi dei dati diocesani mostra un fenomeno ricorrente in quelli con maggiore secolarizzazione dove il rapporto seminaristi per sacerdote è estremamente basso. In alcuni casi, il tasso di sostituzione generazionale non viene nemmeno raggiunto, il che mette a rischio la continuità del clero a medio e lungo termine: Spagna 0,057 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 17,5 sacerdoti); Francia 0,051 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 19,5 sacerdoti); Germania 0,029 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 34,5 sacerdoti); Italia 0,065 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 15,3 sacerdoti). A differenza dell’Europa occidentale, i Paesi in cui la Chiesa è perseguitata o in gravi difficoltà tendono ad avere tassi di vocazione più elevati, come si rileva in Africa – 0,122 per sacerdote (1 seminarista ogni 8 sacerdoti) e in India con 0,527 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 1,9 sacerdoti).


Il fenomeno più sorprendente – ma ben conosciuto e molto temuto dai progressisti di ogni obbedienza – è però il confronto tra i sacerdoti diocesani e le istituzioni che celebrano la liturgia tradizionale (Vetus Ordo) dove il rapporto seminaristi per sacerdote è tra 5 e 10 volte superiore a quello delle diocesi: Fraternità Sacerdotale San Pietro (FSSP) 0,56 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 1,8 sacerdoti); Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote (ICRSS) 0,83 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 1,2 sacerdoti); Istituto del Buon Pastore (IBP) 0,75 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 1,33 sacerdoti); Comunità di San Martino 0,65 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 1,54 sacerdoti). Per non parlare della Fraternità Sacerdotale San Pio X (lefebvriani) dove il rapporto è 0,42 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 2,35 sacerdoti). Le diocesi europee presentano quindi rapporti che non assicurano la sostituzione generazionale in quanto, affinché una diocesi mantenga stabile il numero dei sacerdoti, è necessario un rapporto minimo di 0,20 seminaristi per sacerdote (1 seminarista ogni 5 sacerdoti attivi) e ciò si basa sulla stima che un sacerdote eserciti il suo ministero per circa 55 anni prima di lasciare. La stragrande maggioranza dei seminari diocesani in Europa e in America è al di sotto di questa soglia.


Sono dati che dovrebbero interrogare le gerarchie sui «segni dei tempi» ma che solo i progressisti, avendo il monopolio dello Spirito Santo, sanno leggere correttamente. Il religioso domenicano brasiliano Frei Betto, teologo, attivista politico e grande amico di Fidel Castro e di Lula da Silva, ha scritto una lettera aperta ai vescovi brasiliani in cui, dall’alto dei suoi ottant’anni, manifesta una forte preoccupazione – quasi un terrore – per la forte presenza «di una nuova generazione di seminaristi che portano la talare e hanno un attaccamento ai simboli religiosi e alle immagini sacre». Essi non ascoltano Papa Francesco visto come il nuovo Giovanni Battista, che predica nel deserto e ha tanto in dispetto la veste talare da liberarsene appena può. In effetti, se la tendenza è quella descritta sopra, il vecchio guru brasiliano non ha tutti i torti.

Alcuni mesi fa, il rettore del seminario di Barcellona, monsignor Salvador Barcadit, ha dichiarato che «Papa Francesco e i vescovi sono preoccupati di una realtà dove nei seminari ci sono troppi seminaristi fondamentalisti, conservatori e reazionari» che devono essere espulsi o «reindirizzati». Quindi nessuna autocritica su aspetti formativi o dottrinali che possono aver indotto alcune «rigidità» e nessuna tolleranza per seminaristi che, una volta ordinati, arrivano nelle parrocchie e dicono quello che la Chiesa ha sempre detto e fatto, magari pure attirando i lontani e tornando a riempire le chiese. Piuttosto meglio vuote oppure con pochi ma «buoni».



Il gruppo di comando della diocesi di Torino sta faticando non poco per far quadrare il cerchio dei trasferimenti e delle nomine dei parroci e a far calare nella realtà lo schema che da tempo, in gran segreto, è stato elaborato e che dovrebbe prevedere anche l’epurazione (o meglio, l’estromissione) dalle parrocchie cittadine di qualche presenza non allineata al mainstream. Difficoltà stanno arrivando anche dai ben conosciuti esponenti del clero uxorato, ma anche da quello notoriamente “maritato”. Si attende l’omelia che l’arcivescovo Roberto Repole pronuncerà il Giovedì Santo in cattedrale alla Messa crismale per sapere se, oltre alla consueta meditazione sulla comunione sacerdotale, farà un richiamo all’obbedienza, che per i “boariniani”, come è noto, è sempre stata «dialogata». Oppure alla «diocesanità».



I primi frutti del «ripensamento» e cioè del fallimento della presenza cristiana sul territorio si stanno cogliendo nella Cuneo del vescovo “idraulico e muratore” monsignor Piero Delbosco. Con il 1° aprile le parrocchie del centro storico della città – la cattedrale di Santa Maria, Santa Maria della Pieve e Sant’Ambrogio – si sono estinte e incorporate nella parrocchia di San Michele. Stessa sorte hanno subito le parrocchie di Madonna delle Grazie, San Matteo e Beata Addolorata in Bombonina e San Grato in Tetti Pesio, incorporate nella parrocchia di San Francesco in Madonna delle Grazie. I toni sono trionfalistici in quanto non viene annunciato che di sei parrocchie se ne fanno due, ma che vengono «costituite due nuove parrocchie». La sindrome francese avanza inesorabile.


Nei locali del seminario di Vercelli, venerdì 11 aprile, anziché veder osservata la Quaresima nella preghiera e nell’astinenza dalle carni o con una serata di digiuno per i poveri, è andata in scena una «cena medievale», nell’ambito dell’iniziativa del Comune denominata Vercellae Hospitales, in collaborazione però con la stessa arcidiocesi retta da monsignor Marco Arnolfo, come si evince dal programma sul web: «Immergiti in un’atmosfera senza tempo con la Cena Medievale tra luci soffuse, musiche antiche e spettacoli di giullari e menestrelli, potrai gustare i piatti ispirati alle ricette medievali, preparati secondo le usanze dell’epoca. Tra brindisi in calici di terracotta e portate servite come nei fasti delle corti nobiliari».


Nel salone San Carlo del seminario i partecipanti hanno quindi potuto deliziarsi, oltre a polli, dolciumi e giullari, anche di un «rotolino allardellato con pancristiano» (almeno il pane...) e di «porco in salsa di mele all’agresto». Quanto allo sparuto gruppo di seminaristi, accudito part-time dal rettore e vicario generalissimo, don Stefano Bedello, e dal prorettore (di cosa?), don Maurizio Galazzo, sebbene sparpagliato alla maniera delle foglie in autunno tra i seminari di Torino e Novara (più alcuni in casa propria more nobilium) si spera che, nell’occasione, abbiano avuto modo di imparare ciò che in un seminario non si dovrebbe fare, soprattutto in Quaresima. Sull'iniziativa nulla da dire: il mondo – nell’accezione giovannea – ha le sue dinamiche. Sul fatto che nel medioevo si mangiasse pollame, porco e dolci in un venerdì di Quaresima (e in spazi ecclesiastici), ci sarebbe qualcosa da dire e da obiettare e non vale ricordare che i nostri nonni prendevano sul serio il magro e le altre pratiche religiose, oggi disprezzate e derise come «indietriste».







La Chiesa «in uscita», quando si tratta di compiacere il mondo, non guarda in faccia né a Dio, né alle sue leggi, né ai tempi liturgici, né ai poveri, né alla coerenza. E più che indietreggiare «in uscita», si protende mondanamente verso le proprie entrate, con o senza fattura.

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