mercoledì 31 luglio 2024

Beata la nazione di cui Dio è il Signore


Re David, Jusepe de Ribera






Dalla Rete 31 Lug 2024


Antony Esolen

“Beata la nazione il cui Dio è il Signore”, dice il Salmista (33:12). Cosa può significare questo versetto per noi negli Stati Uniti, o in qualsiasi nazione occidentale le cui leggi si basano sulla neutralità religiosa o sull’irreligione?

Non servirebbe dire al Salmista: “Ogni nazione ha i suoi dèi, proprio come tu hai i tuoi”. Lui lo sa già. Infatti, difficilmente potrebbe immaginare una nazione senza un dio. Sarebbe un errore, penso, attribuirlo al suo tempo e al suo luogo.

Ogni nazione avrà un dio o degli dei, ciò che la gente apprezza più di ogni altra cosa, ciò a cui in effetti si inchinano in adorazione. “Alcuni si vantano di carri, e alcuni di cavalli”, dice altrove il Salmista, “ma noi ci vantiamo del nome del Signore nostro Dio”. (Salmo 20:7)

Alcune persone confidano nei potenti politici, ma, dice Isaia, “la protezione del faraone [si trasformerà] in vergogna”. (Isaia 30:3) Ed Ezechiele vide le donne d’Israele, al tempio, “piangere per Tammuz”, l’Adone sumero, dio della fertilità, che moriva ogni anno per rinascere di nuovo. (Ezechiele 8:14)

Così anche gli uomini di Giuda seguirono il culto disumano della fertilità di Moloch, quando perfino il re Manasse “bruciò suo figlio come offerta” (2 Re 21:8), e quando istituirono prostitute sacre, sia donne che ragazzi, come parte del culto dei Baalim e dell’Asherah, divinità cananee della fertilità (vedere 2 Re 23 per la campagna del buon Giosia per distruggere i loro boschi e le loro case per banchetti).

Gli orpelli dell’adorazione dell’uomo possono cambiare, ma il suo cuore non cambia. Quando volta le spalle al Signore, torna agli stessi vecchi falsi dei, rivestiti di nuove vesti: forza militare, potere politico, ricchezza, sesso.

La gente adorerà. Si inchinerà in omaggio a una persona o a una cosa; forse a qualche idolo di se stessa. Ubbidirà, e sarà tanto più vilmente obbediente, tanto più adulatrice e adulatrice, quanto più falso e stolto sarà il suo dio.

L’uomo non è mai libero dall’obbedienza, prestando attenzione solo alla propria volontà; questo significa solo che l’uomo non crea se stesso. La questione è se adorerà Dio, il Creatore che lo ha creato libero come è libero un figlio obbediente, elevandosi con l’obbedienza a una maggiore responsabilità e a una maggiore capacità di azione; o un falso dio, uno che promette libertà ma gli mette le catene nella mente e nel cuore, e abbastanza spesso anche nelle mani.

“Forse”, dice qualcuno che pensa soprattutto alle scelte individuali, “ma dove c’entra la nazione?”

Ecco: non può esserci nazione senza culto comune, perché la nazionalità deve essere nutrita nel terreno della cultura, e la cultura senza religione è un’assurdità.

Le persone non possono essere unite dalle scelte che gli individui fanno come individui, per essere apprezzate perché sono gli individui a farle. Siamo resi uno da ciò a cui ci rivolgiamo con soggezione e gratitudine, accantonando, in quello spazio sacro, le innumerevoli cose che ci vorrebbero alla gola l’uno dell’altro.

Sono ben consapevole che gli uomini possono combattere per la religione, come combattono per ogni altra cosa. La questione non è se combattano, ma cosa può spingerli a deporre le armi e cantare insieme.

Il liberalismo può al massimo garantire una tregua, se una nazione è ricca e se esiste una comunanza di fatto nel culto religioso, nella pratica regolare della maggior parte delle persone nei piccoli luoghi in cui vivono.

Il liberalismo non può di per sé portare la pace, e non può costituire una nazione. E noi vogliamo nazioni, non agglomerati di individui, come vogliamo quartieri e città reali, non finzioni geopolitiche. Le vogliamo come vogliamo aria fresca, acqua pulita e buon cibo. Non possiamo prosperare senza di loro.

Una nazione in cui tutti sono dei Ciclopi liberali, che inseguono la “felicità” come se questa potesse essere ottenuta separatamente dal bene comune e dal divino, che solo può stabilire nei nostri cuori un amore per le persone che altrimenti e con molta autogiustificazione potremmo ignorare, disprezzare o odiare, non è affatto una nazione, indipendentemente dalle costituzioni, dai meccanismi elettorali, dagli enti governativi e dalle abitudini dell’uomo di massa, che consuma intrattenimento, politica, sport e popcorn.

“Beata la nazione il cui Dio è il Signore”. Ci crediamo? Se ci crediamo, non vedo come giustificare il fatto di fare dell’indifferenza religiosa la pietra angolare del nostro edificio nazionale. È la pietra che Dio ha rigettato, e “se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori”. (Salmo 127:1)

Una politica di neutralità governativa benigna, amica della fede in Dio, può essere di utilità pratica per un popolo che è già un popolo, che possiede una cultura fiorente e che riconosce l’auto-rivelazione di Dio nella Scrittura; includo il popolo ebraico nella mia considerazione qui. Ma può anche cessare di essere utile. Se viene trasformata in un principio fondamentale della vita, fa male.

Perché l’uomo è uno e non due. Non abbiamo qui l’uomo politico e là l’uomo religioso. Non puoi separare il mondo dal suo Creatore. Così non puoi separare l’uomo nei suoi doveri quotidiani dall’uomo creato da Dio per la vita eterna.

Ogni tentativo in tal senso gli troncherà l’anima o lo lascerà in un caos nervoso. Le sue arti appassiranno, le sue famiglie si sfileranno, i suoi vicini svaniranno dalla vista. Leggerà la Bibbia? Non leggerà nemmeno Emerson.

“Beata la nazione il cui Dio è il Signore”. Non credo che possiamo ridurre quel versetto a un vago sentimento di gentilezza e di disponibilità, con un pizzico di incenso, o a varie prescrizioni politiche condite con un piccolo versetto del Sermone sul Monte.

Come incarnare la sua verità nei costumi e nelle leggi di una nazione: questo è il problema attuale.



[The Caholic Thing]

(Foto: Jusepe de ribera, Re David, Wikipedia, Di Saiko)







martedì 30 luglio 2024

Mons. Joseph Strickland / Tradimento!



Joseph Strickland, il vescovo  emerito di Tyler continua a denunciare i mali che minacciano la Chiesa in questi momenti confusi e bui che la Chiesa sta soffrendo. Riprendiamo di seguito l'ultima lettera pubblicata dal vescovo Strickland. 




30 luglio 2024


Il tradimento è la strada del codardo: nasce da una debolezza, da una mancanza di carattere, dal desiderio di una strada più facile. In sostanza, il tradimento è svendersi: scambiare consapevolmente e volontariamente qualcosa di valore maggiore con qualcosa di valore minore per il proprio vantaggio personale; per esempio, scambiando il Figlio di Dio con 30 pezzi d'argento. Il tradimento è una partecipazione al male, che si trasforma da un amore disinteressato e ordinato per il bene degli altri a un desiderio egoistico che disprezza gli altri ed eleva sopra ogni cosa il traditore. Il tradimento disprezza il bene.

Nell'Inferno di Dante, l'autore colloca il tradimento nel gelido centro dell'inferno. Invece del fuoco, immagina il tradimento come il ghiaccio, un luogo dove c’è una completa mancanza di fedeltà, amore e calore, con il diavolo seduto al centro come il più grande traditore della storia.

Giuda, allo stesso modo, è il massimo traditore umano. Ha tradito Nostro Signore e lo ha fatto con un bacio. Che dolore questo deve aver causato a Cristo Gesù che tanto lo amava! Il consenso schiacciante negli ultimi due millenni è che Giuda è stato, è e sarà sempre tra i dannati a causa del suo tradimento e quindi della sua incapacità di pentirsi di quel tradimento prima di togliersi la vita. Gesù pronunciò contro di lui una sentenza: “Ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'Uomo sarà tradito! "Sarebbe meglio se quell'uomo non fosse nato." (Matteo 26:24 KJV). Giuda era uno dei dodici; Aveva un rapporto intimo con Nostro Signore Gesù Cristo. Ma il succo del suo tradimento è proprio questo: ha tradito Colui che lo conosceva più intimamente e lo amava più profondamente di chiunque altro. Giuda rifiutò l’amore fedele, altruista e vivificante di Cristo per una piccola ricompensa finanziaria. E purtroppo questo tradimento di Nostro Signore continua anche oggi. Da nessuna parte ciò si vede più chiaramente che nel tradimento di tanti membri della gerarchia della Chiesa di Nostro Signore.

Nel corso dell’ultimo secolo, la Chiesa cattolica è stata infiltrata silenziosamente ma metodicamente, e questo attacco ha prodotto decenni di clero debole, compromesso e silenzioso: traditori. Hai notato che siamo nell'epoca dei pastori silenziosi, perché non dicono mai una parola? Per molti, il tradimento si presenta sotto forma di silenziosa apatia, poiché sembra che non ci sia nulla che amino abbastanza da spingerli ad agire, o niente che amino abbastanza da farli urlare o cercare di fermare il tradimento.

Possiamo vedere chiaramente le impronte di Satana nel massiccio tradimento del Signore e della Sua Chiesa nella crisi degli abusi sessuali che ha così scosso la Chiesa almeno dai primi anni 2000. Forse in nessun altro luogo il tradimento sotto forma di protezione e promozione degli autori di abusi è stato più evidente che nel caso dell’ex cardinale Theodore McCarrick. La sua storia è un esempio di tradimento su una scala senza precedenti. Coloro che occupavano posizioni di potere nella gerarchia della Chiesa vivevano una vita alta, abusando dei seminaristi e pagando soldi per tenerli in silenzio. È ormai evidente che il Vaticano ha iniziato a ricevere segnalazioni su McCarrick e il suo insolito interesse per i seminaristi e il loro comportamento predatorio già negli anni ’90. Tuttavia, coloro che avrebbero potuto porre fine a questo male hanno chiuso un occhio e McCarrick ha continuato ad abusare vittime e allo stesso tempo assurgono a posizioni di crescente autorità nella Chiesa.

Sono passati decenni eppure poco è cambiato. In effetti, ora viviamo sotto un papato in cui i chierici violenti non solo prosperano, ma vengono spesso premiati e persino celebrati. Sono molti, infatti, i casi di sacerdoti che rimangono ancora nel ministero nonostante abbiano commesso atti gravemente immorali: sacerdoti come Marko Rupnik, gesuita espulso dall'ordine dopo decenni di abusi sessuali contro religiose. Rupnik è stato accusato di aver abusato sessualmente di circa 30 religiose. Tuttavia, attualmente rimane un sacerdote attivo (ora incardinato nella diocesi di Capodistria, in Slovenia, in seguito alla sua dimissione dai gesuiti), e vive e lavora a Roma come direttore artistico e decano di teologia presso il Centro Aletti.

Alcune delle accuse orribili e sacrileghe contro Rupnik includono episodi di abusi sessuali avvenuti presumibilmente mentre stava progettando e creando opere d'arte, eppure le sue opere d'arte adornano ancora alcuni dei luoghi più santi e riverenti dell'intera Chiesa, come la Basilica dell'Immacolata Concezione a Lourdes, in Francia: un luogo di guarigione e di fede che dovrebbe onorare la nostra Beata Madre. Quest'arte rimane anche se almeno cinque donne che affermano di aver subito abusi da parte di Rupnik, e le cui affermazioni governate dai gesuiti erano credibili, hanno inviato lettere ai vescovi cattolici di tutto il mondo chiedendo che le opere d'arte di Rupnik fossero rimosse dalle loro chiese e santuari. Invece, il massimo funzionario delle comunicazioni del Vaticano ha difeso l’uso delle immagini e ha insistito sul fatto che non hanno causato alcun danno alle vittime. È scoraggiante sapere che Rupnik è solo un esempio dei tanti “traditori” che continuano a ricevere la piena protezione del Vaticano mentre molti altri sacerdoti, vescovi e cardinali fedeli vengono messi a tacere, cancellati e destituiti.

E che dire del tradimento dell'eresia? C’è un tradimento diffuso nella Chiesa in questo momento poiché gli insegnamenti e la dottrina cattolica vengono messi da parte per fare spazio agli insegnamenti del mondo. Uno di questi tradimenti ha a che fare con l’omosessualità. L'omosessualità è diventata “l'elefante nella stanza” nella Chiesa di oggi. Mentre riconosciamo giustamente che come fedeli cattolici dobbiamo sempre amare il nostro prossimo (che ovviamente include coloro che hanno attrazioni per lo stesso sesso), la Chiesa cattolica insegna che gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati e sono sempre violazioni della legge divina e naturale. Pertanto, dobbiamo essere chiari sul fatto che impegnarsi in questi atti non è mai consentito, e il clero non deve mai ingannare il proprio gregge condonando tali atti o minimizzando la loro natura grave. Dovremmo invece sempre allontanare le persone dal peccato e avvicinarle a Cristo e al perdono che Egli offre attraverso il pentimento e la conversione. Tuttavia, ora ci troviamo in una situazione in cui molti in posizioni elevate nella Chiesa celebrano e addirittura glorificano questo stile di vita che allontana le anime da Cristo. Il direttore generale della rivista gesuita America, padre James Martin, difensore di questa perversione, è uno dei portavoce più in vista della Chiesa oggi ed è spesso richiesto come consulente del Vaticano. Il documento Fiducia Supplicans ha notevolmente aumentato la confusione aprendo la porta a possibili benedizioni delle relazioni omosessuali, un risultato impensabile anche 50 anni fa. Questo documento è stato un aperto invito al diavolo a perseguitare le anime confuse da una Chiesa in cui molti chierici non rimangono più ancorati al Sacro Deposito della Fede, ma cercano invece di modernizzare gli insegnamenti per placare le orecchie moderne.

E in mezzo a questo clima di tradimento, inizia a Indianapolis, Indiana, il 10° Congresso eucaristico nazionale, con una spesa di circa 28 milioni di dollari. Come cattolici, sappiamo che l'Eucaristia è il centro della vita cattolica perché l'Eucaristia non è altro che Gesù Cristo stesso. Nostro Signore è presente – in corpo e sangue, anima e divinità – nella Santa Eucaristia. Gesù non ha lasciato agli apostoli solo un libro o qualche vaga assicurazione del suo aiuto: ha lasciato loro e noi con sé stesso! Li ha riuniti e ha trasformato il pane comune e il vino comune nel suo corpo e sangue divino e glorificato, reso presente in ogni Santa Messa. Le sue parole: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue… Fate questo in memoria di me” furono la Sua conferma che ciò sarebbe continuato in perpetuo e che Egli sarebbe rimasto con loro per sempre. E così abbiamo la Sua certezza che l’Eucaristia che celebriamo oggi è lo stesso Gesù che spezzò il pane quella notte con i suoi apostoli, ed è ancora pienamente presente tra noi in ogni Santa Messa. La perdita della fede eucaristica nella Chiesa è stata epidemica e certamente devastante per la nostra fede cattolica; Quindi un Congresso Eucaristico è una buona cosa.

Ma ancora mi chiedo... quando ai sacerdoti colpevoli di gravi atti di immoralità è ancora permesso di celebrare la Messa e tenere la santa Eucaristia nelle loro mani... Cristo dice loro...? “Giuda, con un bacio consegni il Figlio dell’Uomo?” (Luca 22:47 KJV)

Forse ciò che mi preoccupa di più in questi giorni di confusione e tradimento è che temo che il tempo stia per scadere e che ci stiamo rapidamente avvicinando al momento in cui la corda della Misericordia potrà essere ritirata dal Cielo e al suo posto, la corda della Giustizia. scendere velocemente. È imperativo che in questo tempo ci prepariamo con confessioni frequenti, Messa frequente, ricezione della Santa Eucaristia e carità frequente verso gli altri, affinché possiamo trovarci a salutare Nostro Signore Gesù con un bacio d'amore, non con un bacio di tradimento.

“E diceva ai suoi discepoli: è impossibile che non avvengano scandali. Ma guai a colui per il quale vengono! “Sarebbe meglio per lui che gli fosse messa una macina da mulino al collo e fosse gettato in mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli”. (Luca 17:1-2)

Che Nostro Signore continui a benedirvi e che la Nostra Santissima Madre interceda sempre per voi e vi conduca sempre al suo Figlio Eterno.


Vescovo Joseph E. Strickland; Vescovo emerito di Tyler.






lunedì 29 luglio 2024

Finkielkraut: “L’Occidente ha mostrato la sua decadenza. Non rassegniamoci alla bruttezza e al degrado”




29 LUG 2024


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by Aldo Maria Valli

dopo gli articoli pubblicati qui, qui, qui e qui, vi propongo altre significative reazioni alla blasfema e oscena cerimonia inaugurale delle olimpiadi di Parigi.

*



Recitiamo la preghiera a san Michele Arcangelo per allontanare gli spiriti maligni che oggi si aggirano così apertamente nel mondo, e in riparazione ed espiazione delle bestemmie contro Dio onnipotente.

Così scrive [qui] il vescovo Joseph Strickland a proposito della blasfema cerimonia inaugurale delle olimpiadi di Parigi.



E una condanna durissima di ciò che è stato visto in mondovisione viene dal filosofo e opinionista francese Alain Finkielkraut: “In questa cerimonia di apertura delle olimpiadi il genio francese si è distinto per la sua assenza” [qui].

“Non pensavo fosse possibile fare qualcosa di peggio dell’Eurovisione, cioè qualcosa di più osceno e di più conformista” dice l’accademico francese, docente all’École polytechnique.

Nato a Parigi da una famiglia di ebrei polacchi scampati alla Shoah, Frinkielkraut non si nasconde: “Mettiamo le cose in chiaro: si è trattato di uno spettacolo grottesco che, dalle drag queen a Imagine, dalla celebrazione della sorellanza alla decapitazione di Maria Antonietta, ha riproposto pietosamente tutti gli stereotipi dell’epoca. Dov’erano il gusto, la grazia, la leggerezza, la delicatezza, l’eleganza, persino la bellezza?”.

“La bellezza non esiste più” prosegue Finkielkraut. “Abbiamo anche avuto un rapporto a tre. E perché la sfilata doveva essere così aggressivamente brutta? La parola che viene involontariamente in mente di fronte a questo grandioso fiasco è decadenza. Cosa resta della Francia in Francia e dell’Europa in Europa? Che fine ha fatto il Vecchio Continente? Il diluvio che si è abbattuto sulla Città dei Lumi non poteva che essere una punizione divina. Ogni nuvola ha un lato positivo: dopo quella serata apocalittica, sono diventato un credente. Come figlio di immigrati, non posso rassegnarmi alla bruttezza e al degrado di ciò che mi sta tanto a cuore”.





Brutta, blasfema, ideologica: l'apertura delle Olimpiadi è un flop



La cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici di Parigi è stata all'insegna del cattivo gusto e della provocazione, fino alla propaganda abortista e alla squallida parodia dell'Ultima Cena degna di un Gay Pride. Proteste dei vescovi francesi. E il Cielo risponde con un impressionante acquazzone e un misterioso black out che esalta la Basilica del Sacro Cuore.


 Tommaso Scandroglio, 29-07-2024

Brutta. Forse la peggiore di sempre. Questi i commenti più frequenti sui social riguardo la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici. Brutta non solo per il cattivo gusto. Per citare un paio di episodi: un tizio che impersonava un dio Dioniso tutto dipinto di blu stravaccato in una insalatiera; la guardia repubblicana che ha inscenato un balletto pop tra ballerine altrettanto pop.

Ma brutta anche perché nulla c’entrava con lo sport. Non solo per la location: sulla Senna e non in un stadio. Ma perché molti spettacoli, anzi molti spettacolini visti e le performance non avevano nessuna attinenza con le discipline olimpiche. Ad esempio c’era una discoteca su una chiatta sulla Senna, una sfilata di moda con abiti orrendi e con modelli spesso in abiti femminili, un pianoforte che andava a fuoco mentre veniva suonato da un coraggioso pianista, un cavallo meccanico che solcava le acque della Senna e molto altro. E gli atleti? Relegati su dei battelli, mera cornice di questo spettacolo circense a cui la regia televisiva ha dedicato la maggior parte delle inquadrature.

Fosse però solo una questione estetica si potrebbe chiudere un occhio. Ma oltre all’estetica anche l’etica è stata vilipesa. Si accennava prima alla sfilata di moda. Su un lato della passerella e al suo centro i creativi nonché cretini della cerimonia di apertura hanno pensato bene di realizzare una parodia dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci. Al posto di Nostro Signore una donna obesa, con un’aureola che ricordava la Santa Ostia e che gestiva davanti a sé una consolle per mixare la musica, e ai suoi lati, disposti come gli apostoli dell’Ultima cena, alcune drag queen, trans e una bambina che si è messa pure a ballare.

La Conferenza episcopale francese ha giustamente alzato la voce e in un comunicato così si è espressa: «Questa cerimonia purtroppo prevedeva scene di derisione e di scherno del cristianesimo, che deploriamo profondamente. […] Pensiamo a tutti i cristiani di tutti i continenti che sono rimasti feriti dall'eccesso e dalla provocazione di certe scene». Sulla stessa frequenza d’onda Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontifica Accademia per la Vita, il quale, in una intervista a Il Giornale, afferma che l’ideale di libertà incarnato dai Giochi «è stato infangato da una blasfema derisione di uno dei momenti più santi del cristianesimo».

Poi sono comparse le statue d’oro – il kitsch è la cifra stilistica dell’ideologia – di donne ritenute importanti. Una sfilata di figure femminili in cui necessariamente mancava, per fare solo un esempio, Santa Giovanna d’Arco. Però al suo posto c’era una certa Simone Veil (con la V e non con la W), ex presidente del Parlamento europeo. I suoi meriti? «Donna chiave nella legalizzazione dell'aborto», si poteva leggere sui teleschermi.

Insomma l’apertura dei Giochi è stata occasione nemmeno per far propaganda al gender, all’aborto e a buona parte degli ingredienti della sottocultura woke, ma per farne la reclame. Sì, perché in fondo l’esito di questa baracconata è stato scontato, sterile, raffazzonato. Tanto sguaiato quanto triste. C’era più voglia di provocazione che arte, tanto che l’ansia di essere originali a tutti costi è sfociata nello stereotipo.
Ma le blasfemie inscenate e la promozione dell’aborto rimangono intatte nel loro turpe significato tanto che hanno gridato vendetta al Cielo e il Cielo ha risposto con un acquazzone impressionante (vedi foto), e nella notte successiva con un misterioso black out che ha colpito moltissime zone della città, ma non ad esempio la Basilica del Sacro Cuore che è rimasta visibilissima come una cattedrale fatta di luce mentre tutta Parigi affogava nel buio, come attesta una impressionante foto che sta girando in internet.

In questa Olimpiade non poteva infine mancare Sua Maestà l’Ambientalismo. I letti degli alloggi degli atleti sono in cartone, così si possono riciclare. I materassi sono realizzati in plastica riciclata. Quindi ecosostenibili, ma scomodi. L’aria condizionata non c’è negli alloggi. Così ha ordinato il sindaco donna di Parigi, Anne Hidalgo, decisa a dimezzare la CO2 rispetto ai giochi di Londra 2012. Le camere vengono rinfrescate grazie ad impianti di raffreddamento sotto il pavimento. Il problema sta nel fatto che a detta dei diretti interessati non sono così efficaci. E allora Australia, Canada, Danimarca, Germania, Grecia, Italia, Norvegia e Regno Unito pensano di acquistare in loco dei condizionatori portatili. Solo che costano e quindi alle delegazioni più povere non rimarrà altro che sudare sotto il sole dell’inclusività.

Di fronte alle critiche il sindaco ha fatto spallucce: «Molto rispetto per il comfort degli atleti», ha dichiarato, ma «la sopravvivenza dell’intera umanità» le sta più a cuore. Resta un mistero come faccia l’umanità a sopravvivere grazie alla mancanza di condizionatori negli alloggi olimpici e di come, per converso, qualche grado in meno stermini il genere umano. E poi, per essere coerenti sino in fondo, perché allora non aboliamo le Olimpiadi dato che producono non montagne, ma intere catene alpine di CO2? Pensiamo solo a tutti i voli per portare atleti, delegazioni e spettatori a Parigi. E allora questo ci pare tanto un ambientalismo di facciata da perseguire fintanto che non intacca alcuni interessi, alcuni portafogli, tra cui quelli di chi ha organizzato questa Olimpiade parigina.











Cagnolini al posto dei figli… Già l’imperatore Augusto disse una cosa interessante






Che già la figura della dog-sitter sia di per sé ridicola, è un fatto. 

Ci è giunta voce che c’è chi simula celebrazioni di nozze fra cani. E che dire che in alcuni parchi ci sono anche trenini per cani per farli “divertire”? 

Ma meravigliamoci fino ad un certo punto: in tempi decadenza, questo e altro. 

Se proprio non siamo a livello di cavalli-senatori (vedi Caligola), siamo comunque a livello di riconoscimento della sofferenza perfino delle aragoste (clicca qui), il che non è poco. 

Da un po’ di tempo ci sono anche delle dog-sitter, anzi delle wedding dog-sitter, che addestrano cani perché portino gli anelli nuziali agli sposi. Insomma, prima gli anelli nuziali venivano portati dai testimoni, poi, con il matrimonio preceduto dalla libertà sessuale, è arrivato il tempo dei figli, adesso che non si fanno figli, è arrivato il tempo dei cani. 

Dicevamo: tempo di decadenza. Leggete questa interessante citazione, che, come si suol dire, cade come il cacio sui maccheroni: 

“Girando per Roma, l’Imperatore vide dei forestieri che tenevano in braccio dei cagnolini e altri animaletti, coprendoli di moine. Augusto allora si avvicinò e chiese se al loro paese le donne non mettevano al mondo bambini: ammonì così, quanti riversano sugli animali quell’istintivo bisogno d’affetto che è innato in noi, ma che dovremmo riservare ai nostri simili.” (Plutarco, Peric. 1,1-2)




domenica 28 luglio 2024

Liturgia e civiltà occidentale



Il grande storico cattolico Christopher Dawson nota che nel caos successivo alla caduta dell'Impero romano d'occidente, la liturgia ha mantenuto insieme la vita.




Credo che sia per questo che molti giovani oggi anelano ad una liturgia reverente e ultraterrena. Abbiamo lo stesso bisogno oggi.

"Qualsiasi altra cosa potesse andare perduta, e per quanto oscure potessero essere le prospettive della società occidentale, l'ordine sacro della liturgia rimase intatto e, in essa, tutto il mondo cristiano, romano, bizantino e barbaro, trovò un principio interiore di unità.

Inoltre, la liturgia non era solo il vincolo dell'unità cristiana. Era anche il mezzo con cui la mente dei gentili e dei barbari era in sintonia con una nuova visione della vita e un nuovo concetto di storia”.

 
Christopher Dawson, "La religione e l'ascesa della cultura occidentale" (Ch. 2) (1950).







Olimpiadi di Parigi. Cerimonia inaugurale? No, gay pride




27 LUG 2024

Massime di perfezione cristiana: Chi deride le cose spirituali e le persone religiose, dà segni di spirito diabolico.


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by Aldo Maria Valli

Lo sapevamo: dalla cerimonia inaugurale dei giochi olimpici parigini non ci sarebbe stato da aspettarsi niente di buono. Come abbiamo scritto qui, le premesse perché diventasse l’occasione di una promozione dell’omosessualismo e dell’anticristianesimo c’erano tutte. E così è stato.

Guardate l’immagine che vi propongo: un’ultima cena rivisitata in stile queer. Avrei preferito non pubblicare nulla in proposito, ma, al punto in cui siamo, tacere è complicità.

Che cosa c’entri la parodia dell’ultima cena con lo spirito olimpico è tutto da dimostrare, ma evidentemente agli organizzatori importava poco dello spirito olimpico. Quella che hanno voluto affermare è l’irrisione demoniaca verso la fede cristiana.

La cerimonia si è rivelata una lunghissima carnevalata in stile gay pride, pensata per esaltare da un lato la Francia della Rivoluzione e dall’altro gli stereotipi Lgbtq. E le reazioni non si sono fatte attendere.

“Pietà, basta così” è stato scritto sui social.

Le squadre nazionali partecipanti, trasportate lungo la Senna come derrate alimentari su battelli ondeggianti, hanno fatto la figura degli imbucati alla festa. I protagonisti sono diventate comparse e al centro è balzata la retorica dell’”inclusione” e dei “diritti”. In questo sabba da baraccone, nulla ci è stato risparmiato, compreso Dioniso. Mai una cerimonia inaugurale delle olimpiadi è stata così strumentalizzata a fini ideologici.

I Giochi, lo sport, gli atleti: tutti utilizzati per altri scopi, per altri fini, davanti a un Macron gongolante. E come tutte le operazioni ideologiche, anche questa si è rivelata di una noia mortale.

Ieri sera l’Occidente decadente, questo cadavere che cammina, ha celebrato sé stesso in un’orgia da fine impero. Ed era inevitabile che il tutto avvenisse a Parigi, la città dei presunti Lumi e della Révolution.

Miserere nobis, Domine.






sabato 27 luglio 2024

Zuppi, il cardinale queer



Al Giffoni Film Festival, dedicato a bambini e ragazzi, il presidente dei vescovi italiani esalta la famiglia queer alla Michela Murgia, una sorta di "comune" in cui vengono decostruiti tutti i ruoli familiari, con lo scopo dichiarato di distruggere la famiglia naturale. Affermazioni gravissime, ne tengano conto almeno i cardinali nel prossimo Conclave.

PRELATI FUORI CONTROLLO

EDITORIALI 


Luisella Scrosati, 25-07-2024

«Bisogna capire cosa significa “queer” a mio parere. A me lo spiegò una persona il cui nome era Michela ed il cognome era Murgia. Mi raccontava dei figli che aveva, con cui non aveva un legame di sangue. Si sposò con un uomo perché gli voleva bene e perché potesse continuare ad aver quel legame con questi figli. Credo che questo dovremmo impararlo tutti, che può esistere un legame senza che necessariamente ci sia un risvolto giuridico. Il punto è volersi bene». Così ha dichiarato un uomo, il cui nome è Matteo ed il cognome Zuppi, arcivescovo di Bologna, cardinale di Santa Romana Chiesa e presidente della Conferenza Episcopale Italiana.

Intervenuto al Giffoni Film festival (festival cinematografico per bambini e ragazzi), attualmente in svolgimento, il Cardinale ha mostrato ulteriori sviluppi del suo noto qualunquismo dottrinale. Che l'importante sia “volersi bene” è affermazione che si trova ormai su qualsiasi bocca e trova consenso in qualsiasi angolo del pianeta: basta non dare alcun contenuto all'espressione e lasciare che ognuno la riempia del contenuto che più gli aggrada: dalla donna che abortisce un figlio con malformazioni per evitargli sofferenze nella vita, a Cappato che aiuta gli altri a morire liberamente e senza dolore, al pedofilo che vive una relazione “consensuale” con un minore.

Ora, Zuppi ci spiega che anche la “famiglia queer” non è altro che una di queste varianti del “volersi bene” e lo ha capito grazie alla nota scrittrice perfettamente mainstream, deceduta un anno fa. Per capire la gravità delle affermazioni del Cardinale, occorre richiamare alla mente la “creatura” della Murgia. Sposata nel 2010 con Manuel Persico, un informatico bergamasco, si separò da lui quattro anni dopo, motivando così la sua decisione: «Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».

Quindi la nascita della “famiglia queer”: quattro “figli dell'anima”, come lei li chiamava, dei quali non si sa molto da dove sbuchino; unica certezza: non sono figli suoi. Il primo Raphael Louis, di cui si sa qualcosa in più, è un “figlio condiviso” con la vera madre, Claudia, con la quale la Murgia ha rivendicato di essere una coppia omogenitoriale: «Come è successo che siamo diventate madri insieme? Lo ha fatto succedere Raphael a nove anni, prendendomi la mano nella stessa sera in cui l’ho visto per la prima volta e dicendo: non voglio che te ne vai mai più (…). Nei successivi dodici anni io ho divorziato, lei si è sposata, abbiamo vissuto tante cose insieme, ma una cosa non è mai cambiata: siamo rimaste le madri di Raphael» (vedi qui). Poi la presenza di un uomo, l'attore e regista Lorenzo Terenzi, di sedici anni più giovane di lei, che la Murgia ha sposato civilmente «controvoglia» poco prima di morire, a causa della mancanza di altri strumenti giuridici per garantirsi diritti vicendevoli.

La “queerness famigliare” della Murgia è in sostanza una comune, nella quale non ci sono ruoli, disprezzati come maschere che rovinerebbero «l'elezione amorosa». «Nella queer family che vivo non c'è nessuno che non si sia sentito rivolgere il termine sposo/sposa in questi anni», aveva spiegato la scrittrice. Figlio, sposo, madre, padre: termini totalmente liquefatti, che non stanno ad indicare più nulla: «Dentro questa famiglia tutto è cambiato, i ruoli ruotano. Nella famiglia tradizionale questo non avviene, perché è il sangue che li determina. Un padre è un padre sempre. E a volte questa cosa è un ergastolo. Sia per il padre che per i figli» (vedi qui).

Dunque, di fronte a questa completa sovversione dell'ordine che Dio ha posto nella realtà familiare, il cardinale Zuppi non ha altro da dire se non che «il punto è volersi bene». Così come l'importante era volersi bene nel caso della coppia gay benedetta ufficialmente nel giugno 2022, ben prima di Fiducia supplicans, da don Gabrielle Davalli, direttore dell'Ufficio Pastorale della Famiglia della diocesi di Zuppi, che della benedizione era stato informato (vedi qui), raffazzonando poi delle giustificazioni che erano delle balle belle e buone (qui).

Per volersi bene, c'è bisogno di credere? «No – risponde il cardinale –. C'è tanta gente che dà forme di altruismo e attenzione al prossimo, forme di generosità, senza credere». E aggiunge: «Aiuta credere? Sì. Ti aiuta a non usare gli altri, a volergli bene per davvero, ma le religioni non hanno l'esclusiva del voler bene». Nulla da eccepire che ci possa essere altruismo e generosità anche al di fuori della fede, ma ci si domanda se un vescovo abbia ricevuto l'episcopato per chiacchierare sull'altruismo degli atei. E soprattutto se l'ordine sacro sia stato conferito per tacere di Gesù Cristo e citare la Murgia. Perché Zuppi fa sempre così: per lui il mondo ha bisogno della Costituzione, della non violenza, della generosità, dell'inclusività, ma mai una volta che ricordasse – e si ricordasse – che il problema dell'uomo è il peccato, che ci rende schiavi del maligno e destinati alla condanna eterna. Ed è precisamente da questo che Nostro Signore – lui e solo lui – è venuto a liberarci. E la famiglia vissuta secondo il piano di Dio è parte costitutiva di questa liberazione degli affetti dalle passioni, dalle ideologie, dal falso amore di sé e del prossimo, di cui la “famiglia queer” è esempio lampante.

La “quereness familiare” della Murgia, che tanto piace a Zuppi, altro non è che la decostruzione sistematica di ogni relazione che ha fondamento nella creazione: la figliolanza, la paternità, la maternità, la sponsalità. Relazioni che Dio ha voluto nella loro piena verità, che include anche la tanto disprezzata e incompresa corporeità, perché potessero essere segni tangibili e visibili della relazione tra noi e Dio. Perché la Murgia – tanto per ricordarlo a Zuppi – ha costituito la “queer familiy” esplicitamente per decostruire e liquefare la famiglia: non “tradizionale”, termine che può essere equivocato con una precisa forma storica, ma naturale.

Le esternazioni del Cardinale Zuppi sono di una gravità estrema, e dovrebbero richiamare l'attenzione del Dicastero per la Dottrina della Fede, ma, visto chi lo presiede, non ci sono speranze umane. Auspichiamo che almeno i cardinali ne tengano conto per il prossimo conclave. Non abbiamo dubbi che ne terrà conto il Signore, a cui sale la supplica affinché ci liberi dai lupi in veste d'agnello.







Mons. Strickland: I cattolici hanno il dovere di "smascherare il tradimento" dei prelati che "portano le anime all'inferno".



Traduzione di Chiesa e postconcilio da LifeSitenews l'ennesima esortazione pastorale di Mons. Strickland.




Il vescovo emerito Joseph Strickland ha ampliato le osservazioni, fatte questa srttimana dal diacono Nick Donnelly su X, sul dovere di smascherare il clero eretico che "uccide le anime e le manda all'inferno".

Strickland è il noto ex vescovo di Tyler, in Texas. Dopo il sua brusca rimozione da parte di Papa Francesco all'inizio di quest'anno, Sua Eccellenza ha raddoppiato, sia on line che di persona, la difesa del retto insegnamento cattolico.
 
Gli scorsi lunedì e martedì Strickland ha condiviso due messaggi di Donnelly.
Donnelly, che vive nel Regno Unito, rimprovera spesso su X Papa Francesco e i prelati liberali che promuovono la sua agenda di sinistra.
Anche l'arcivescovo Carlo Maria Vigano condivide spesso i contenuti di Donnelly sul proprio account X.
Strickland dice a chi lo segue che Donnelly "dice la verità" quando afferma che è più scandaloso non denunciare la corruzione nella Chiesa che denunciare. Ha affermato: "Il silenzio dei pastori di fronte al male e gli sforzi per coprire la verità invece di ripristinarla sono di scandalo per i fedeli".

Il post di Donnelly aveva accusato "l'istituzione che si presenta come Chiesa cattolica" di non essere un "luogo sicuro" negli ultimi 60 anni perché è "piena di eretici che sono cattivi al pari degli abusatori sessuali". Ha anche paragonato gli eretici agli "assassini di anime" perché "uccidono le anime e le mandano all'inferno a soffrire per l'eternità". Donnelly ha inoltre sostenuto che "è dovere primario dei vescovi rendere la Chiesa un luogo sicuro per le anime, proteggendo il loro gregge dagli eretici".




Dopo che, all'inzio di questo mese, il Dicastero per la Dottrina della Fede ha annunciato che l'arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, incorre nella pena della scomunica, Strickland sottolinea l'ipocrisia della decisione.

"Ci troviamo in uno strano momento della storia della Chiesa in cui l'arcivescovo Viganò viene scomunicato sollecitamente mentre Theodore McCarrick rimane non scomunicato dopo che sono venuti alla luce anni di crimini contro la Chiesa".

"Dovremmo guardare con attenzione a un Vaticano che opera in questo modo. Piuttosto che affrontare le gravi questioni e le accuse che l'arcivescovo Viganò solleva, egli viene sommariamente scisso dalla Chiesa per metterlo a tacere. Nel frattempo McCarrick e una lunga lista di altri hanno promosso una cultura che ignora o intende cambiare gli insegnamenti della Chiesa e le loro voci sono permesse e persino apertamente sostenute".
 
Strickland ha condiviso un altro post pubblicato da Donnelly martedì mattina che accusa "la stragrande maggioranza dei vescovi" di essere "sordi, muti e silenziosi".

Ha anche detto che "gli uomini che pretendono di essere successori degli Apostoli... proteggono gli abusi sessuali, proteggono gli eretici, accettano la sodomia, accettano l'adulterio, la fornicazione, la contraccezione, persino l'aborto e l'eutanasia. Celebrano abortisti, eugenisti, comunisti, blasfemi". Donnelly li ha anche accusati di incoraggiare "atti sacrileghi da parte di adulteri e omosessuali contro il sacramento dell'Eucaristia, il sacramento della penitenza e il sacramento del matrimonio, e cercano instancabilmente di profanare il sacramento dell'Ordine sacro". Per questo, ha concluso, "alcuni vescovi non fanno altro che attuare l'agenda del diavolo e cercano la vittoria delle porte dell'inferno sulla Chiesa".

"Il diacono Donnelly dice una verità importante", ha osservato Strickland. "Molti lo attaccheranno dicendo: "Come osi dire queste cose?". Altri esprimeranno disagio e accuseranno di essere divisivo chiunque denunci questi mali". Ma "la missione della Chiesa è la salvezza delle anime" e "se invece i prelati di alto rango stanno conducendo le anime all'inferno, dobbiamo smascherare il loro tradimento e salvare quante più anime possibile".

Sul suo blog Substack, il vescovo Strickland ha pubblicato un saggio che riprende molte delle osservazioni fatte su X questa settimana.
In un post intitolato "Tradimenti", Sua Eccellenza ha sostenuto che "in questo momento nella Chiesa è diffuso il tradimento, in quanto gli insegnamenti e la dottrina cattolici vengono messi da parte per fare spazio agli insegnamenti del mondo" e che uno di questi tradimenti è la normalizzazione dell'omosessualità.





venerdì 26 luglio 2024

Sant’Anna secondo la tradizione della Chiesa




 CHIESA CATTOLICA | CR 1857



di Cristina Siccardi,24 Luglio 2024

Il 26 luglio ricorre la festività di sant’Anna, la madre di Maria Vergine. Di lei nulla si dice nei Vangeli canonici, mentre alcune notizie sono riportate nei Vangeli apocrifi. Grazie alla tradizione della Chiesa ci sono diverse cose da raccontare.

Tratti agiografici vengono riportati per la prima volta negli apocrifi Protovangelo di Giacomo e Vangelo dello pseudo-Matteo e ulteriori arricchimenti sono stati aggiunti nel corso dei secoli, fino ad arrivare alla Legenda Aurea dell’arcivescovo domenicano Jacopo da Varazze (1230 ca.-1298). Da rilevare che diversi santi orientali hanno predicato sul tema della madre della Madonna, come san Giovanni Damasceno (670/680-749), sant’Epifanio di Salamina (310 ca.-403), san Sofronio di Gerusalemme (560 ca.-638). Le vicende della santa furono poi raccolte nel De Laudibus Sanctissime Matris Annae tractatus del 1494 e nel 1584 papa Gregorio XIII (1501/1502-1585) estese la festività di sant’Anna a tutta la Chiesa cattolica.

Il suo sposo Gioacchino, uomo virtuoso e molto ricco della tribù del Regno di Giuda e della stirpe di Davide, era sterile e, umiliato pubblicamente, in quanto si vedeva rifiutare le offerte al Tempio per non aver dato figli ad Israele, mentre la serva di Anna lo ingiuriava, egli decise di ritirarsi nel deserto, dove digiunò e pregò. La tradizione racconta che, mentre erano separati, un angelo apparve sia ad Anna che a Gioacchino per annunciare loro l’imminente concepimento di una creatura e, quindi, si incontrarono alla Porta Aurea di Gerusalemme. A questo riguardo, è celeberrima la rappresentazione pittorica di Giotto con il suo Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d’Oro, che si trova nella Cappella degli Scrovegni a Padova, in cui viene riprodotto un casto bacio fra gli sposi, considerato come l’immacolato concepimento di Maria.

Il prodigio della nascita di un figlio ricordava numerose nascite insperate dell’Antico Testamento: virgulti della grazia divina e non della carne. Come Samuele, anche Maria Vergine sarà presentata e consacrata al Tempio di Gerusalemme.

Sempre secondo la tradizione Anna e Gioacchino con Maria Bambina abitavano a Gerusalemme nei pressi dell’attuale Porta dei Leoni, nella parte nord-orientale della città vecchia, laddove si trovano i resti della piscina di Betzaeta. Oggi nel luogo dove abitarono Gioacchino, Anna e Maria sorge la chiesa di Sant’Anna, costruita dai crociati nel XII secolo.

Ancora secondo la tradizione della Chiesa la salma di sant’Anna venne portata in Provenza dai santi Lazzaro, Marta e Maria o, secondo altre fonti, da sant’Auspicio, primo vescovo di Apt (regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra) – qui inviato alla fine del I secolo e morto martire nell’anno 102 – luogo in cui le reliquie della madre di Maria Santissima furono poi sotterrate in profondità, per paura delle invasioni arabe, sotto la cattedrale. Carlo Magno (742-814), dopo aver vinto sui saraceni, andò a pregare nella Cathédrale Sainte-Anne d’Apt la domenica di Pasqua del 792. Su indicazione di un ragazzo cieco, sordo e muto dalla nascita, si scavò in un punto preciso della stessa cattedrale e venne alla luce una cripta illuminata da una lampada, che non aveva mai cessato di ardere davanti alla tomba di sant’Anna, nonostante l’assenza d’aria. Il giovane guarì subito dalle sue infermità e il santuario divenne una popolarissima meta di pellegrinaggi, nonché sacro luogo legato a numerose indulgenze concesse da papa Adriano I.

Secondo un’altra tradizione le reliquie di sant’Anna furono salvate dalla distruzione dal centurione Longino. I resti vennero conservati in Terra Santa finché alcuni monaci li traslarono in Francia. A causa delle incursioni arabe, l’intero corpo fu chiuso in una bara di cipresso e murato per precauzione in una cappella scavata sotto la nascente cattedrale di Apt. Molti anni dopo avvenne il ritrovamento, preceduto e seguito, secondo le narrazioni, da diversi miracoli che portarono all’identificazione del corpo, grazie soprattutto ad una scritta in greco. In seguito ne avvenne la smembratura e divisione fra aristocratici e clero. Attualmente il cranio di sant’Anna è custodito all’interno della Cappella Palatina del castello dei Ventimiglia a Castelbuono, in provincia di Palermo. Nella chiesa della Santissima Trinità di Castelbuono si trovano invece due statue settecentesche di ottima fattura, con paramenti in tessuto, che raffigurano sant’Anna e san Gioacchino, e fra loro due Maria Bambina, la Corredentrice, che, non a caso, ricorda molto Gesù Bambino con la corona sul capo, ma in aggiunta dodici stelle e ai suoi piedi la luna.

Il pellegrinaggio a Sainte-Anne d’Auray, in Bretagna, secondo luogo di pellegrinaggio in Francia dopo il santuario di Lourdes, ha un’origine diversa. Fra il 1623 e il 1625 un contadino bretone, che non sapeva né leggere, né scrivere, ma era molto pio e molto considerato dalla sua comunità, Yves Nicolazic (1591-1645), ebbe delle apparizioni di sant’Anna. Una notte, con suo cognato, videro una dama bianca con una candela in mano al campo del Bocenno. Il 25 luglio 1624, alla vigilia della festa di sant’Anna, la dama gli apparve di nuovo: era notte e lo accompagnò a casa con una torcia in mano. Gli disse con chiarezza: «Yves Nicolazic, non aver paura. Sono Anna, madre di Maria. Dì al tuo sacerdote che nel pezzo di terra chiamato Bocenno, c’era una volta una cappella a mio nome. Voglio che venga ricostruita il più presto possibile e che tu ne abbia cura perché Dio desidera che io sia onorata lì» (cfr. Storia del Santuario di Sainte Anne d’Auray, https://www.sainteanne-sanctuaire.com/?mode=histoire&langue=en). Sant’Anna chiese dunque che venisse riscostruita una cappella a lei consacrata, laddove già era esistita, ma che era stata distrutta intorno al 700. La storia di Yves Nicolazic e delle apparizioni di sant’Anna sono ben note e ben attestate, soprattutto con la dichiarazione da lui stesso sostenuta davanti a Sir Jacques Bullion il 12 marzo 1625 nel presbiterio di Pluneret (diocesi di Gwened), dove Yves era nato.

Nella notte fra il 7 e l’8 marzo 1625, sant’Anna si presentò nuovamente e raccomandò al veggente di prendere con sé i suoi vicini e di seguire la luce di una fiaccola; fu allora che egli trovò un’antica statua di sant’Anna in legno. Tre giorni dopo, i pellegrini iniziarono ad arrivare per pregare davanti al simulacro. Nonostante le riserve del parroco, la prima messa ufficiale fu celebrata per decisione del vescovo di Gwened (Vannes) il 26 luglio 1625 e vinte le prime resistenze del clero, nel 1627 fu eretto un santuario. Il servo di Dio Yves Nicolazic (il 27 novembre 1937 venne aperta un’inchiesta diocesana preliminare per la sua beatificazione) era dai suoi contemporanei chiamato «il Costruttore», in quanto lui stesso diresse i lavori e prestò la sua forza alla costruzione della basilica, che venne affidata ai Carmelitani e fu arricchita di numerose indulgenze dai Pontefici. Ma durante la Rivoluzione francese, nel 1792, in pieno sabba giacobino, la statua fu fatta a pezzi e bruciata. Tuttavia, una mano pietosa salvò il volto, ancora oggi incassato nel piedistallo della statua attuale.

Sant’Anna è la patrona e il modello delle madri di famiglia e di tutte le attività legate alla dimensione della domesticità: tessitori, sarte, merlettaie, rigattieri… ma è anche patrona dei marinai e a migliaia sono gli ex-voto che si trovano a Sainte-Anne-d’Auray. Lei che partorì senza dolore, come narra ancora la tradizione, l’Immacolata figlia, concepita senza peccato, è patrona delle donne incinte, delle puerpere e delle nutrici. A Roma si benedicevano i ceri di sant’Anna, che le donne accendevano durante i loro parti. Ma è anche patrona delle istitutrici, infatti è spesso ritratta nell’atto di insegnare a leggere a Maria Bambina. Le attività di moglie, madre, governante della casa, istruttrice che sant’Anna esplicò perfettamente, sono quelle di cui molte donne del nostro tempo si vergognano o difettano, avendo sottomesso se stesse alle idee femministe e anticristiane. E poi, ma non certo per ultimo, anzi, è il vertice dei suoi meriti, secondo una lettura profondamente teologica, sant’Anna è anche patrona dei falegnami e degli ebanisti, avendo realizzato e modellato in sua figlia il primo Tabernacolo che custodì Nostro Signore Gesù Cristo.






Amore senza verità: Zuppi non ha letto la Caritas in veritate







Di 26 LUG 2024

Le sconvolgenti affermazioni del cardinale Matteo Zuppi, presidente dei vescovi italiani, al Giffoni Film Festival [QUI] propongono l’amore senza verità secondo il principio da lui enunciato “basta volersi bene”. Un testo dal magistero che, invece, ha insegnato che l’amore va sempre considerato dentro la verità è l’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009). Riportiamo alcuni passi della Introduzione con delle nostre sottolineature in neretto.

“La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore — «caritas» — è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfrGv 8,32). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, « si compiace della verità » (1 Cor 13,6). Tutti gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell’amore e della verità e ci svela in pienezza l’iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfrGv 14,6).

[…] Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della « veritas in caritate » (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della « caritas in veritate ». La verità va cercata, trovata ed espressa nell’«economia » della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non poco conto oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di essa incurante e ad essa restio.

Per questo stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme « Agápe » e « Lógos »: Carità e Verità, Amore e Parola.

4. Perché piena di verità, la carità può essere dall’uomo compresa nella sua ricchezza di valori, condivisa e comunicata. La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose. La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos dell’amore: è, questo, l’annuncio e la testimonianza cristiana della carità. Nell’attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l’adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale. Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività”.







giovedì 25 luglio 2024

La vera filosofia cristiana non può accettare l’esistenzialismo. Ecco perché





di Corrado Gnerre

Il secolo XX si aprì con un grande ottimismo. I grandi miglioramenti nella vita quotidiana del secolo XIX avevano ubriacato di un grande ottimismo: forse, chissà, un giorno si sarebbe riusciti anche a sconfiggere la morte. Poi la catastrofe della Grande Guerra, la quale, proprio utilizzando i grandi progressi tecnologici, fece morti su morti. E allora la disillusione e l’avvilimento pessimista. Fu in questo contesto che nacque l’esistenzialismo come segno di un’angoscia diffusa.

I maggiori rappresentanti furono i tedeschi Heidegger e Jaspers e i francesi Sartre, Camus, Marleau-Ponty.

L’esistenzialismo può essere sintetizzato in questi punti fondamentali:

Il metodo fenomenologico che vuol dire capire la vita non alla luce di princìpi metafisici (verità, Dio, vita eterna…) ma attraverso l’esperienza della vita stessa.

Il punto di vista antropologico. Lo studio deve partire dall’uomo e deve concentrarsi solo sull’uomo.

I valori sono frutto del divenire del tempo e della storia. Non esistono valori eterni e assoluti, ma questi sarebbero l’esito di ciò che accade nella vita singola e generale degli uomini.

Già questi tre punti basterebbero a capire quanto sia inconciliabile l’esistenzialismo con una visione cristiana della vita. C’è però un quarto punto che è più difficile da capire, ma che ancora di più dimostra questa inconciliabilità. Vediamolo.

La subordinazione dell’essenza all’esistenza. Esiste solo l’esistenza e non l’essenza. La vita non può essere limitata dalla natura che definisce ogni realtà singola.

Il buon san Tommaso d’Aquino affermava che tutto ciò che esiste è ente, cioè realtà che esiste. Ma egli faceva un ulteriore precisazione: mentre Dio è l’essere in cui l’esistenza coincide con l’essenza, la realtà creata ha sì l’essere ma in essa esistenza ed essenza non coincidono. 

Più semplicemente. L’essenza di una cosa è la sua natura, é ciò che fa sì che una cosa sia quello che é, é ciò che fa sì che un cane sia un cane o una sedia una sedia. Ma l’essenza da sola non basta a formare l’essere di un ente, questo ha bisogno di esistere (dell’atto di essere). L’essenza di una sedia, senza l’esistenza, è solo una sedia astratta che non esiste. Per esistere ha bisogno che all’essenza si accompagni l’esistenza. L’atto di essere necessario é solo di Dio. Mentre la sedia, il cane…possono non esistere, Dio non può non esistere.

Questa premessa per dire che cosa? Che l’esistenzialismo deve essere capito proprio nella prospettiva di rifiuto alle convinzioni tomiste. Per l’esistenzialismo esiste solo il singolo ente e non l’essenza e questo comporta che ogni cosa, proprio perché non limitata alla sua natura (essenza), può divenire “possibilità infinita”, tutto e il contrario di tutto. La natura (l’essenza) è un orizzonte definito delle scelte che l’uomo può compiere nella sua vita.

L’essenza fa capire che la libertà dell’uomo non è fare quello che si vuole ma scegliere ciò che realizza davvero la sua natura e quindi liberarsi da tutto ciò che compromette il suo essere. Ma quando non si è più consapevoli della propria natura (essenza) ma solo del proprio essere, allora la vita diventa la possibilità di realizzare ogni cosa, di passare dal bene al male, dal giusto all’ingiusto, dalla verità all’errore. Anzi, gli stessi concetti di bene e di male, di giusto e d’ingiusto, di verità e di errore vengono meno.

Da qui l’idolatria della libertà che contraddistingue l’esistenzialismo. Ma da qui anche l’esito fallimentare. La vita di per sé definisce e riconduce l’uomo al suo limite, e allora, per chi ha scelto la libertà come fine, essa diventa insopportabile, diventa quella “marmellata appiccicaticcia e insopportabile” di cui Sartre stesso parlò.








L'”accoglienza” e l'”accompagnamento” nella Bibbia e nella pastorale di oggi


San Giovanni Battista





Di John Grondelski, 25 Luglio 2024

Un altro esempio di quello che dovrebbe essere il messaggio di “benvenuto” della Chiesa
Il Vangelo di domenica racconta che Gesù invia i suoi apostoli, a due a due, per il loro primo mandato missionario. Essi vengono inviati nei villaggi vicini di Israele e della Giudea, un luogo abbastanza circoscritto, considerando che alla fine saranno inviati “a tutte le nazioni” (Mt 28,19).
Questo Vangelo è istruttivo su come la Chiesa deve accompagnare le persone. Il motivo che attraversa tutto il Vangelo è il “pentimento”.

Gli apostoli sono inviati con “autorità sugli spiriti immondi”. Essi “partirono e predicarono il pentimento”. Gli Apostoli “scacciarono molti demoni”, unsero i malati e “li guarirono”.

[Questo nesso tra l’unzione e la lotta contro il male merita attenzione in questo mese, quando l’intenzione di preghiera di Papa Francesco ci chiede di apprezzare maggiormente il Sacramento dell’Infermo].
Gli Apostoli fanno la stessa cosa che fece Gesù (Mc 1,15b), cioè la stessa cosa che fece Giovanni Battista. Giovanni iniziò predicando “il pentimento per il perdono dei peccati” (Mc 1,4). Il pentimento è il tema comune dell’annuncio del Regno.

Gli apostoli sono inviati esplicitamente con l’incarico e l’autorità di affrontare il male – non il male come una teoria o una forza o una nozione, ma come diabolico, personale e maligno, bisognoso di esorcismo. Gesù è venuto per guarire gli uomini che erano distrutti, non per farli sentire bene. Se si sentivano bene, era una conseguenza della guarigione, non un prerequisito per essa. In effetti, il problema di iniziare a far sentire bene le persone (anche se esse stesse, nel profondo del cuore, spesso sanno che qualcosa non va) è che tende a favorire la compiacenza piuttosto che il pentimento.

Infatti, vale la pena notare che Gesù non istruisce gli apostoli su come “accogliere” i potenziali ascoltatori.

I suoi commenti si concentrano piuttosto sul modo in cui i potenziali uditori “accolgono” – o non accolgono – il messaggio apostolico. La reazione degli ascoltatori sarà infatti il criterio per la “testimonianza contro di loro”. Marco è netto; il testo parallelo di Matteo (10) aggiunge che “In verità vi dico che il giorno del giudizio sarà più sopportabile per Sodoma e Gomorra che per quella città” (v. 15).
Faccio queste osservazioni – come ho scritto regolarmente nell’ultimo anno – in risposta alla mentalità di “accompagnamento” promossa dal Vaticano che sembra, in pratica se non in teoria, dare poco spazio al tema del pentimento. I papi precedenti hanno lamentato una “perdita del senso del peccato”, ma c’è da chiedersi se questo lamento non si applichi anche all’impatto pratico degli attuali approcci romani.
Come mostra il Vangelo di domenica, non è così che Gesù ha affrontato le cose.

Vale anche la pena di leggere il Vangelo in relazione al testo della prima lettura, in cui il profeta di Dio, Amos, viene rimproverato da Amazia, “sacerdote di Betel”, forse qualcosa come il rettore del santuario. Amos, inoltre, non era un profeta particolarmente “accogliente”: tendeva ad esaltare i privilegiati che commettevano gravi ingiustizie sociali.

Ma ciò che merita la nostra attenzione in questo passaggio è l’interazione. Amazia fa chiaramente parte dell’establishment ecclesiastico, ben sintonizzato con lo Zeitgeist dell’Israele dell’VIII secolo a.C.. P. David Whitestone ha fatto una grande osservazione: si noti che Amazia dice ad Amos di andarsene da Betel perché “è il santuario del re e un tempio reale”. Si sarebbe potuto pensare che fosse di Dio.
Amazia aggiunge che Amos dovrebbe dividersi per Giuda e “guadagnarsi il pane profetizzando”. Con questa osservazione, sottolinea un aspetto fondamentale dei profeti nell’antico Israele e Giuda. C’erano veri e falsi profeti. I veri profeti – quelli che pronunciavano la Parola di Yahweh – non diventavano profeti di propria iniziativa e certamente non prosperavano di conseguenza. Basta chiedere a Geremia.
I falsi profeti – come i pastori pagati che scappano dai lupi (un riferimento che si trova nel racconto matteano dell’invio degli apostoli, ma non in quello di Marco) – tendevano a cantare piacevoli melodie contemporanee, in genere la musica di facile ascolto che il loro pubblico voleva ascoltare.
Amos non fa parte di questa compagnia. Dice: “Non ero un profeta” e non ha la tessera dell’unione dei profeti. Tutto quello che ha è ciò che “il Signore mi ha detto”, una parola che, come dice Geremia (20,9), non può essere repressa perché “la sua parola è nel mio cuore come un fuoco”.

Sbagliamo se pensiamo ai profeti di Israele come a una sorta di predittori del futuro. Non lo erano. Il loro obiettivo principale non era il futuro, ma il presente. Essi cercavano di “leggere i segni dei tempi” alla luce dell’alleanza di Dio con Israele (che comprendeva i Dieci Comandamenti) e di evidenziare le carenze della pratica attuale. Erano quindi insegnanti morali che criticavano il modo in cui Israele viveva alla luce di come Israele avrebbe dovuto vivere, e non davano premi di partecipazione all’alleanza solo per il fatto di presentarsi. Se parlavano del futuro, era incidentale: a seconda di come si rispondeva (o non si rispondeva) alla Parola di Dio, le cose potevano andare bene o Sodoma e Gomorra potevano avere giorni migliori.

Il Vangelo di domenica è seguito immediatamente dal racconto del martirio di Giovanni Battista. Anche il Battista probabilmente non riceverebbe il premio “Accompagnamento dell’anno” di oggi. Fu martirizzato per quella che oggi alcuni chiamerebbero una “guerra culturale” o una questione “pelvica”: rimproverò Erode Antipa ed Erodiade perché fingevano di essere sposati dopo che il primo aveva preso la moglie del fratello, in violazione della Torah. Giovanni non cercò di trovare “ciò che si poteva fare” o di trovare “un accomodamento pastorale” per il tetrarca. Non stava “discernendo” come Erode si sentisse in coscienza riguardo all’ex moglie di Filippo. Pretendeva che Erode mettesse in prigione Erodiade, e per questo Giovanni fu messo in prigione (e decapitato).

Si può imparare molto sull'”accompagnamento” dalla Bibbia.





mercoledì 24 luglio 2024

Communauté Saint-Martin, troppe vocazioni infastidiscono Roma



"Accompagnamento" coatto per la comunità francese, con un boom di seminaristi in controtendenza rispetto al deserto generale. Numeri preoccupanti per la Santa Sede: troppi preti e troppo conservatori che rischierebbero di contagiare mezza Francia.


NELL'OCCHIO DEL CICLONE

ECCLESIA


Nico Spuntoni,  24-07-2024

Sarà un caso, ma ancora una volta a finire sotto la lente di ingrandimento di Roma è una comunità d'orientamento conservatore. Lo scorso 4 luglio, il Dicastero per il Clero ha nominato due assistenti apostolici, il vescovo di Laval monsignor Matthieu Dupont e padre François-Marie Humann, incaricati di "accompagnare" la Comunità di San Martino (Communauté Saint-Martin) nei prossimi tre anni.

Una realtà francese nata nel 1976 e che trovò ospitalità nell'arcidiocesi di Genova sotto la protezione del cardinale Giuseppe Siri, stabilendosi nel convento cappuccino di Voltri. L'eminente porporato genovese spiegò che la Comunità di San Martino nacque «per la formazione di seminaristi francesi che vogliono il sacerdozio ma non accettano la confusione di certi seminari moderni». Dopo 17 anni, l'istituto tornò nella diocesi di Blois nel 1993. Se 31 anni fa i seminaristi erano 30, oggi sono più di 100, segnando un'eccezione importante nel deserto vocazionale che coinvolge l'ormai ex "cattolicissima" Francia.

La Comunità di San Martino è diventata nel corso negli anni una fonte a cui attingere per le diocesi alle prese con le crisi vocazionali, potendo contare su 175 tra preti e diaconi. Eppure, nonostante ciò, la Santa Sede ha ritenuto necessario mettere sotto "indagine" questa realtà. Anzi, sembra proprio che sia stata la fecondità vocazionale a far scattare il campanello d'allarme in Vaticano.

La nomina di due assistenti apostolici segue la visita pastorale decisa dal Dicastero per il Clero e svoltasi tra il luglio 2022 e il gennaio 2023 sotto la responsabilità di monsignor Benoît Bertrand, vescovo di Pontoise. Le conclusioni della visita hanno fatto emergere ombre sulla figura di padre Jean-François Guérin, il fondatore morto nel 2005 e contro il quale sarebbero state mosse accuse di «clima abusivo nell’esercizio dell’autorità e nell’accompagnamento spirituale» ed anche di «baci forzati» da parte di alcuni intervistati maggiorenni all'epoca dei fatti. Per questo, in una lettera, monsignor Matthieu Dupont e padre François-Marie Humann hanno spiegato che «si tratterà di portare verità e chiarezza sul periodo fondativo della Comunità di Saint-Martin, sulla personalità del fondatore morto nel 2005 e sui fatti di cui è accusato da diversi ex membri della comunità».

Purtroppo è un copione già visto in situazioni analoghe. Questa specie di "commissariamento" triennale, però, punta anche ad altri obiettivi. I due assistenti apostolici, infatti, hanno chiarito che «bisognerà lavorare anche sul tema della pastorale vocazionale e della loro accoglienza, soprattutto dei più giovani, per garantire un miglior discernimento e una certa prudenza nell'ingresso nella formazione. Si tratterà anche di sostenere il processo di rinnovamento della formazione iniziale e continua alla luce delle norme romane e nazionali». Parole che lasciano trapelare l'insofferenza romana per le troppe vocazioni in questa Comunità di tendenza conservatrice e che rifornendo di sacerdoti trenta diocesi rischia di "contagiare" mezza Francia.

I preti della San Martino, che accettano pienamente gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, sono molto attenti alla solennità della liturgia, celebrano anche in latino ma secondo il Messale Romano del 1969, amano il canto gregoriano e preferiscono indossare sempre la talare. In questo caso, quindi, non c'è di mezzo l'usus antiquior, ma sembra pesare, in ogni caso, una sensibilità ecclesiale troppo tradizionale. Difficile non pensarlo di fronte alla menzione dell'«opera di riforma che il Dicastero ha ritenuto necessaria dopo aver letto le conclusioni dei Visitatori» fatta nella lettera dei due neonominati assistenti apostolici.






Ma come agisce questa Agesci?




24 LUG 2024

Lettera

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by Aldo Maria Valli


Caro Valli,

la formazione religiosa dei giovani è un tema assai delicato che, mai come ai nostri tempi, deve fare i conti con lo tsunami provocato dagli sconvolgimenti tellurici che stanno travagliando il mondo cattolico. La nuova chiesa targata Bergoglio sta infatti ulteriormente aggravando un quadro già da tempo sconfortante sul chi ha la missione di curare la crescita cristiana di bambini e ragazzi e sul come viene realizzato tale compito. Ecco a riguardo una significativa perla offerta dall’Agesci, l’Associazione guide e scout cattolici (!) italiani, storico movimento che oggi “educa e accompagna alla fede” circa 180 mila virgulti dell’italico stivale.

A fine agosto si terrà a Verona l’incontro nazionale delle Comunità Capi (la famosa Route); l’occasione è anche quella del cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Agesci che, nel 1974, venne creata dalla fusione delle due anime del movimento: quella maschile (Asci) e quella femminile (Agi).

È molto “edificante”, rispetto al tema posto all’inizio, quanto scrive il giornale dei vescovi a proposito di questo evento. Eccone un breve estratto.

A fare da collante alla quattro giorni della Route (18 mila partecipanti) sarà il tema della felicità, che ritorna anche nel titolo di questo appuntamento: Generazioni di felicità.

Otto sono le “prospettive” da cui si guarderà alla felicità, ciascuna con un proprio percorso specifico: Felici di accogliere, Felici di vivere una vita giusta, Felici di prendersi cura e custodire, Felici di generare speranza, Felici di fare esperienza di Dio, Felici di essere appassionati, Felici di lavorare per la pace, Felici di essere profeti di un mondo nuovo.

Un programma veramente interessante, non c’è che dire, totalmente coerente con i dettami della nuova chiesa universale di stampo bergogliesco. Sugli otto temi proposti, infatti, solo in uno di essi appare la parola Dio. Ma c’è veramente da chiedersi di quale dio si tratterà. Probabilmente sarà il risultato di un melting pot sincretistico in cui mescolare di tutto, dalla pachamama al divino Zoroastro, dal dio della dichiarazione di Abu Dhabi a Buddha, passando forse per il Golgota. Gli altri sette temi sono invece altamente potabili per qualsiasi tipo di associazione, setta, gruppo o organizzazione che sta al cattolicesimo come un bradipo sta ad un giaguaro e che si ispira al meglio dell’attuale universo politically correct: accoglienza indiscriminata, multietnicità, eco-ambientalismo talebano, pacifismo a senso unico, mondialismo unificante, neo-new age, diritti arcobaleno eccetera.

A governare come meglio non si potrebbe questa assise, due pezzi da novanta: colui che celebrerà la messa conclusiva del 25 agosto, l’onnipresente Zuppi – che se non incontra almeno due volte la settimana un esponente politico della sinistra si sente male – e uno dei due presidenti del Comitato centrale Agesci, Francesco Scoppola. Per chi non lo sapesse egli è stato per anni capo ufficio dello staff e del cerimoniale dell’ex presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Niente di male, ci mancherebbe altro. Si vuole solo sottolineare l’ennesima saldatura di certo cattolicesimo laico (e non solo) con la sinistra italiana. Un legame solidissimo, ostentato senza alcuna reticenza anche nella recente settimana sociale svoltasi a Trieste. D’altra parte la presenza nello scenario Agesci, dal 1974 in poi, di esponenti più o meno legati alle varie sigle politiche generatesi dalla dissoluzione del Pci è sempre stata una costante del movimento. In tale contesto anche l’annunciata presenza di don Ciotti risulta pienamente in linea con lo “spirito” della kermesse veronese.

A dimostrazione che quanto sinora affermato non è frutto di malevoli interpretazioni di noi sparuti dissenzienti, ecco una dichiarazione virgolettata del presidente Scoppola, così come riportata nel già citato quotidiano Cei:

[L’incontro di Verona] non è semplicemente il ricordare un importante anniversario, ma il ribadire come la nostra associazione in questo momento è al servizio del Paese, della Chiesa e della società. Non un evento a sé stante, ma un’occasione per collocare l’associazione per i prossimi cinquant’anni in campo non solo educativo, ma soprattutto politico, intendendo la politica come la cura del proprio territorio», un momento per «fermarsi a ragionare su domande e risposte da offrire ai propri ragazzi nel contesto storico attuale.

Inutile dire – visto il contesto e i personaggi coinvolti – di quale campo educativo e politico, di quale cura del territorio e (soprattutto) di quali risposte offrire ai malcapitati lupetti e coccinelle si sta parlando. Pure significativo è il collocare il movimento prima di tutto a servizio del Paese e solo secondariamente della Chiesa. Terrificante infine, per tutti coloro che non si identificano con questo mondo, è anche la prospettiva temporale del progetto scoutistico proposto da Scoppola: mezzo secolo di presenza, azione e indottrinamento. Una studiata, preordinata e pianificata strategia di manipolazione di giovani menti in formazione, realizzata con la poderosa fanteria di 18 mila educatori (o commissari politici, fate voi). Forse solo Lenin e Stalin, nel passato, riuscirono a far meglio. Lo zio Adolf, per fortuna, durò molto meno.

Ma alla fine perché sorprendersi? In fondo ciò che da decenni identifica l’Agesci come uno dei più solidi bracci politici progressisti della Chiesa è la medesima realtà che accomuna diverse stelle della galassia laico-cattolica italiana: dal Movimento cristiano dei lavoratori alle Acli, dalla comunità di Sant’Egidio a Pax Christi. E la lista potrebbe continuare. È il “popolo di Dio” di quest’inizio di ventunesimo secolo le cui istanze, tutte immanentiste, riempiono da anni i diktat dell’agenda bergogliana. È con questo triste scenario che come cattolici contro-rivoluzionari dobbiamo confrontarci, quello contro cui dobbiamo combattere.

Ed ora ecco a voi una piccola storiella di chiusura.

Mamma 1: “Ciao Stefania, dove vai così di corsa?”

Mamma 2: “Ciao Giulia, sto andando in parrocchia per partecipare alla prima riunione dei genitori con i capi del gruppo dei lupetti. Sai, ho iscritto Gianluca agli scout”.

Mamma 1: “Hai fatto proprio bene. La parrocchia è uno dei pochi posti sicuri rimasti per i nostri figli”.

Mamma 2: “Già, e vedessi Gianluca com’è contento. A casa ormai ci dà lezioni sulla raccolta differenziata e il mangiare vegano per salvare l’ambiente. E ci ha anche insegnato delle nuove preghiere che prima non esistevano. Alcune però sono proprio strane!”

Lettera firmata






martedì 23 luglio 2024

Bergoglio salva la messa in latino, ma continua la faida tra "falchi" e "colombe"



Andrea Grillo lo aveva detto [qui risposta Alcuin Reid] e si sapeva che non fossero chiacchiere. Ora anche i giornali lo riportano. Dall'articolo de Il Giornale ripreso di seguito la conferma di gruppi di pressione in Vaticano che agiscono sul Papa per l'abolizione definitiva della Messa dei secoli che, secondo quanto autorevolmente decretò San Pio V, non si può nè modificare nella struttura nè a maggior ragione abolire. Ci sono prelati che in odio alla Verità vogliono spingere il Papa a rendere ulteriormente restrittivo un atto che non solo rappresenta sconfessione e disprezzo dell'opera del suo predecessore Benedetto XVI, ma aumenterebbe lo scalpore già ampiamente diffuso e conseguenti reazioni dei fedeli legati alla Messa antica, assestando un ulteriore colpo a questo Pontificato ed il rischio se non la certezza di aprire nuove e dolorose divisioni nella Chiesa. Qui l'indice dei precedenti


23 luglio 2024

Pericolo scampato, almeno per il momento. I cosiddetti tradizionalisti hanno tirato un sospiro di sollievo alla mezzanotte e un minuto di mercoledì scorso, quando hanno avuto la certezza che la Santa Sede non avrebbe pubblicato il documento con cui vietare drasticamente le celebrazioni in rito antico. Il 16 luglio, infatti, veniva considerato il giorno X per l'uscita delle nuove restrizioni alla cosiddetta messa in latino. Non un giorno a caso: esattamente tre anni prima Francesco aveva firmato Traditionis custodes, il motu proprio che ha abrogato la liberalizzazione concessa nel 2007 da Benedetto XVI con Summorum Pontificum.


I nemici della messa in latino
 
Dall'uscita di Traditionis custodes si è aperta una stagione di ulteriore divisione nella Chiesa che dovrebbe vedere, secondo molti rumors, un nuovo capitolo con l'entrata in vigore di una stretta ancora più drastica. A guidare l'offensiva è il dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti guidato dal cardinale britannico Arthur Roche, supportato dal segretario monsignor Vittorio Francesco Viola. Fonti vaticane riferiscono che sono loro due - in questa fase più il secondo del primo - ad insistere per estendere il divieto alle celebrazioni in Vetus Ordo. Traditionis custodes, d'altro lato, arrivò poco più di un mese dopo il pensionamento del cardinale guineano Robert Sarah dal ruolo di prefetto. La promozione di Roche, già ostile alla cosiddetta messa in latino sin dai tempi del suo mandato nella diocesi di Leeds durante il quale diede un'interpretazione piuttosto limitante del Summorum Pontificum, ha aperto le porte ad una serie di documenti diretti - persino contraddittoriamente - a rendere più difficile la celebrazione in forma straordinaria.

Dopo Traditionis custodes, sono arrivati i Responsa ad dubia e un Rescriptum, oltre ai numerosi "no" partiti dal dicastero alle richieste di autorizzare messe tradizionali in giro per il mondo. Tutto ciò, però, non deve essere sembrato sufficiente ai sostenitori della causa anti-tradizionalista ora intenti a convincere il Papa a mettere la firma su un documento restrittivo che, secondo più fonti vaticane, già esiste.


Falchi e colombe

In Curia, però, non c'è solo chi spinge Francesco a firmare il divieto definitivo al rito antico. Come spesso accade, su Santa Marta non volano solo "falchi" ma anche "colombe". A storcere il naso per l'offensiva di Roche e Viola non ci sono solo quei porporati che celebrano senza problemi in forma straordinaria e che Benedetto XVI nel 2014 definì "grandi cardinali", ma anche chi per amore del Papa vuole evitargli di provocare inutili divisioni con un provvedimento destinato ad essere fortemente contestato. Secondo quanto si apprende, l'opera di persuasione di diversi cardinali moderati avrebbe avuto un qualche effetto su Francesco che per il momento avrebbe preferito lasciare il documento presumibilmente prodotto dal dicastero per il culto divino in un cassetto. "Padre Santo, ma le conviene?", questo il senso della moral suasion che, dietro le quinte, hanno cercato di esercitare alcuni cardinali.

Secondo quanto si apprende, altri avrebbero provato invece a parlare privatamente con monsignor Viola per convincerlo dell'inopportunità di far uscire un simile documento. C'è anche chi ha preso una posizione pubblica, prendendo carta e penna e scrivendo al Papa per implorarlo a "non lasciare che ciò accada". Lo ha fatto il cardinale messicano Juan Sandoval Íñiguez, arcivescovo emerito di Guadalajara e già firmatario degli ultimi Dubia, che nella lettera ha fatto riferimento alle “voci secondo cui si vorrebbe vietare definitivamente la Messa latina di San Pio V” ed ha sostenuto che "ciò che la Chiesa celebra da quattro secoli, la Messa di san Pio V in latino, con una liturgia ricca, pia, che invita essa stessa a penetrare nel Mistero di Dio, non può essere un male”.

Nel frattempo, la petizione lanciata su Change.org dal compositore britannico Sir James MacMillan a difesa della messa in latino ha raggiunto le 15 mila adesioni. Non sono in pochi a pensare che la mobilitazione a favore di questa causa arrivata non solo da cattolici possa aver contribuito allo stop temporaneo di un documento che veniva considerato di imminente uscita per il 16 luglio. La partita, però, non è finita.




lunedì 22 luglio 2024

Quando il Giudizio Universale fu rimosso dalla liturgia cattolica



Nella traduzione a cura di Chiesa e post-concilio da Infovaticana l'ennesima testimonianza di uno dei tanti tagli e annacquamenti subiti dalla Sacra Liturgia per effetto del prevalere della gerarchia modernista in chiave conciliarista.




Conoscete Dies Irae ? Sul sito della RAE si legge che l'espressione latina “ dies irae” si traduce come “il giorno dell'ira”: sono le prime parole di una sequenza che veniva recitata nelle messe per i defunti. Sì, è stata recitata (e pregata), in modo che qualcuno di voi l'abbia ascoltata in qualche Messa funebre celebrata secondo il Messale di Paolo VI? L'ho sentita solo una volta, precisamente in una Messa da Requiem celebrata secondo il rito tradizionale, cantata in gregoriano qui a più voci dal coro tra il tratto e il Vangelo.
Vediamo cosa dice il testo di questa sequenza, della sua storia, quando è stata recitata e perché non viene più cantata dove si era soliti, e se in qualche modo è sopravvissuta alla riforma liturgica postconciliare.Vale la pena riprodurre il testo integrale, per la sua bellezza e forza:


Dies iræ, dies illa
solvet sæclum in favílla,
teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
quando iudex est ventúrus
cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
per sepúlcra regiónum,
coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
cum resúrget creatúra
iudicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
in quo totum continétur
unde mundus iudicétur.

Iudex ergo cum sedébit,
quicquid latet apparébit;
nil inúltum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus,
quem patrónum rogatúrus,
cum vix iustus sit secúrus?

Rex treméndæ maiestátis,
qui salvándos salvas gratis,
salva me, fons pietátis.

Recordáre, Iesu pie,
quod sum causa tuæ viæ,
ne me perdas illa die.

Quærens me sedísti lassus,
redemísti crucem passus;
tantus labor non sit cassus.

Iuste iudex ultiónis,
donum fac remissiónis
ante diem ratiónis.

Ingemísco tamquam reus,
culpa rubet vultus meus;
supplicánti parce, Deus.

Qui Mariam absolvísti
et latrónem exaudísti,
mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ,
sed tu, bonus, fac benígne
ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta
et ab hædis me sequéstra,
státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
flammis ácribus addíctis,
voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
cor contrítum quasi cinis,
gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
qua resúrget ex favílla
iudicándus homo reus:
huic ergo parce, Deus.

Pie Iesu, Domine,
done eis requiem.
Amen. Giorno d'ira quel giorno,
il mondo diverrà cenere,
[come] testimone è Davide con la Sibilla.

Quanto spavento ci sarà,
quando verrà il Giudice
a discutere ogni cosa con rigore.

La tromba che diffonde un meraviglioso squillo
attraverso tutte le tombe
raccoglie tutti dinanzi al trono.

Si stupirà la Morte così anche la Natura
quando ogni uomo risorgerà
per presentarsi in giudizio dinanzi al Giudice.

Verrà presentato il libro
nel quale è contenuta ogni cosa
donde il mondo verrà giudicato.

Quando dunque il Giudice si assiderà
ogni cosa che è celata sarà svelata;
nulla rimarrà impunito.

In quel momento che dirò -- [me] misero-,
quale difensore inviterò [in mia difesa],
quando a stento è salvo il giusto?

O re di terribile maestà,
che per tuo dono salvi coloro che vanno salvati,
salva me, fonte d'amore.

O amorevole Gesù, ricorda
che sono la ragione della tua via [dolorosa],
fa' che in quel giorno non mi perda.

Stanco ti sei seduto per cercarmi,
mi hai salvato patendo la croce;
che una tale sofferenza non sia vana.

O Giudice giusto nel punire,
fammi dono del perdono,
prima del giorno del giudizio.

Tremo, come un imputato,
la colpa rende il mio viso rosso;
o Dio, perdona chi ti supplica.

Tu che hai perdonato Maria Maddalena
e hai esaudito il buon ladrone,
hai dato speranza anche a me.

Le mie preghiere non sono degne,
ma tu, buono, concedi benevolmente
che io non bruci nel fuoco eterno.

Assicurami un posto fra le pecore,
e separami dai capri,
ponendomi nella parte destra.

Condannati i maledetti,
destinati alle aspre fiamme,
chiama me con i benedetti.

Ti prego supplice e prostrato,
[il mio] cuore è contrito, quasi cenere,
prenditi cura della mia fine.

[Sarà giorno] di pianto quel giorno,
nel quale risorgerà dalla cenere
il peccatore per essere giudicato.
Perdonalo, dunque, o Dio.

O pietoso Signore Gesù,
dona a loro la pace.
Amen


Prima della riforma liturgica scaturita dal Concilio Vaticano II, la Messa per i defunti, detta anche Requiem (termine che in latino significa riposo, per la prima parola del suo introito: "Requiem aeternam dona eis Domine"), faceva parte della liturgia fin dai primi tempi. Esistono prove della sua celebrazione già nel II secolo, anche se potrebbe benissimo esserci già prima. I testi e le loro diverse parti potevano variare da una diocesi o anche da una chiesa all'altra. Al Concilio di Trento ne furono stabilite le parti e i testi: il messale di Papa Pio V prescriveva le sezioni ordinarie e proprie come segue: – Introito: Requiem aeternam – Kyrie: Proprio della messa per i defunti – Graduale: Requiem aeternam – Tratto: Assolvere Domine – Sequenza: Dies irae – Offertorio: Domine Iesu Christe – Sanctus: Proprio della messa per i defunti – Agnus Dei: Proprio della messa per i defunti – Comunione: Lux aeterna. In precedenza, almeno fino al IX secolo, vi era incluso l'Alleluia; la sequenza Dies irae, invece, non fece parte della messa fino al XIV secolo: la sua composizione è attribuita al frate minore della prima metà del XIII secolo, Tommaso da Celano, che fu anche uno dei primi biografi di San Francesco d'Assisi.

Ma la riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II ha eliminato la sequenza Dies irae e l'ha spostata alla fine dell'anno liturgico come inno della settimana precedente la prima domenica di Avvento. La riforma introdusse anche, ancora, l'Alleluia e sostituì, nell'Agnus Dei, la frase “dona eis requiem” con “miserere nobis” e “dona eis requiem sempiternam” con “dona nobis pacem”. Siamo (sorpresa!) di fronte a un nuovo caso di perdita di un elemento secolare della Messa con la riforma liturgica scaturita dal Concilio Vaticano II. Il famigerato Annibale Bugnini, segretario della commissione che lavorò alla riforma della liturgia dopo il Concilio Vaticano II e suo vero artefice, così spiegò il ragionamento dei riformatori nella sua opera “La Riforma della Liturgia”: «Essi si sbarazzarono dei testi che sapevano di una spiritualità negativa ereditata dal Medioevo. Eliminarono così testi familiari e perfino amati come Libera me, Domine, Dies irae e altri che enfatizzavano eccessivamente il giudizio, la paura e la disperazione. Li hanno sostituiti con testi che sollecitano la speranza cristiana e danno espressione più efficace alla fede nella risurrezione».


L’idea che i testi in questione “enfatizzino eccessivamente” la “disperazione” è una descrizione grossolana. I testi dell'antica Messa per i defunti parlano della misericordia di Dio e del dono della salvezza, nel contesto della colpa umana e della giustizia di Dio, effondendo il conforto e la speranza autenticamente cristiani. Lo possiamo leggere nel testo della sequenza stessa. Peter Kwasniewski, che nella seconda delle tre parti del documentario Mass of the Ages spiega perplesso come mai nella storia si sia assistito ad una revisione così esaustiva riga per riga dei riti liturgici al fine di eliminarli o “adattarli”, in un articolo sul portale del New Liturgical Movement si compiaceva che uno dei risultati del Summorum Pontificum, con la celebrazione delle Messe da Requiem vetus ordo, sia stato il riconoscimento sempre più diffuso che qualcosa è andato drasticamente storto nel modo in cui i cattolici affrontano la preghiera per i defunti.

Il Dies Irae, come il resto dei canti della Messa per i defunti tradizionale, comprende alcuni dei canti più antichi, solenni e commoventi della Chiesa. Essi esprimono la serietà e la gravità della morte e desiderano la misericordia di Dio per coloro che sono morti. Per molti è stato scioccante che il Dies Irae e altri canti siano stati eliminati dalla Messa per i defunti nella riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II. Tra questi, e come triste aneddoto (cito la fonte per chi pensa che si tratti di leggende metropolitane come quella della cerimonia di Paolo VI), il celebre vaticanista Sandro Magister spiega come il 3 giugno 1971, dopo la messa commemorativa della morte di Giovanni XXIII, il papa ha commentato: «Come è possibile che nella liturgia dei morti non si parli più di peccato e di espiazione? Manca totalmente l'implorazione della misericordia del Signore. Anche questa mattina, per la messa celebrata nelle Grotte, nonostante avessero dei testi molto belli, mancava il senso del peccato e il senso della misericordia. Ma di questo abbiamo bisogno! E quando arriverà la mia ultima ora, chiedi misericordia al Signore per me, perché ne ho bisogno! E nel 1975, dopo un'altra messa in memoria di Giovanni XXIII: "Certamente in questa liturgia mancano i grandi temi della morte, del giudizio..." . Magister precisa inoltre che, senza che il riferimento sia esplicito, «Paolo VI lamentava, tra l'altro, l'esclusione dalla liturgia dei defunti della grandiosa sequenza Dies irae che, infatti, non viene recitata né cantata in epoca moderna» nelle messe, ed è sopravvissuta solo nei concerti, con musiche di Mozart, Verdi e altri compositori.

La presenza del Dies Irae nella messa da requiem non è una questione del passato o del presente, ma in definitiva della dottrina cattolica. Non è nemmeno una questione di estetica, di magnificenza del canto polifonico o di stili musicali barocchi, classici o romantici. Restando fedeli al testo, non si può dire che manchi di richiami alla misericordia di Dio; Ma è verissimo che fa riferimento al giudizio finale, alla terribile maestà di Dio e alla responsabilità. Temi che brillano per la loro assenza nelle nuove messe funebri, ma che sono il momento opportuno per ricordare a chi partecipa a un funerale che ci sarà un giudizio; uno personale e uno finale, e che dovremo tutti rendere conto a Gesù Cristo. Ecco, ci sarà chi penserà che di questo si “parla” già in tutte le messe e solennità domenicali, quando si prega il Credo, quando si dice che Gesù Cristo verrà a giudicare i vivi e i morti. Ed è vero. Ma chissà perché, dico, la Chiesa ha stabilito che il Dies Irae venga cantato anche nelle messe da Requiem, ricordando che esiste per tutti un destino eterno, sia di salvezza che di dannazione.


È vero che non tutte le Messe funebri secondo il Messale di Paolo VI sono uguali (questo è uno dei grandi problemi di questo Messale); nella Messa Novus Ordo, il tono e la predicazione di ciascuna Messa funebre dipendono dal sacerdote e dai fedeli presenti. Il sacerdote può scegliere di mandare direttamente il defunto in cielo oppure parlare del purgatorio e della speranza cristiana nella vita eterna (come se fosse sempre beata); e i fedeli, se hanno una formazione cattolica conservatrice, possono ascoltare l’insegnamento cattolico sul purgatorio oppure possono, se si trovano in ambienti progressisti o rurali tipo quelli che tutti conosciamo, rifiutarlo e scandalizzarsi che si parli non solo sull'inferno, ma anche sul purgatorio. Siamo realisti: potete immaginare questo testo recitato o cantato nelle vostre parrocchie, con i fedeli che ne comprendono il significato? Cosa direbbero del “fuoco eterno” e delle “terribili fiamme”? Come penseranno di doversi inginocchiare “pentiti e con cuore contrito” davanti a Gesù Cristo Giudice, quando l’opinione personale dello stesso Santo Padre è che l’inferno è vuoto e quando la gerarchia cattolica parla solo della misericordia di Dio, ma non della sua Giustizia?

Per il dottor Kwasniewski il rito latino tradizionale e il rito secondo il Messale di Paolo VI rappresentano due offerte per i defunti radicalmente diverse: l'una, che prendeva la morte con mortale serietà, che si preoccupava della sorte dell'anima del defunto e l'altra ci permetteva di soffrire; l'altra, il novus ordo, che lasciava da parte la morte con banalità e promesse vuote. Il contrasto tra i paramenti neri del venerdì, il Dies irae e i suffragi sussurrati, e la casula bianca con tanto di stola del sabato e i sentimenti amplificati di buona volontà universale sembravano incarnare l'abisso che separa la fede dei santi dal modernismo prematuramente invecchiato. Notevole la riflessione finale di Kwasniewski sull'argomento qui: «Mi sono ritrovato a pensare: il più grande miracolo dei nostri tempi è che la fede cattolica è sopravvissuta alla riforma liturgica ». Al che aggiungerei che è anche un miracolo che la liturgia tradizionale sia sopravvissuta a tanti tentativi di proibirla, di distruggerla.