Di Andrea Mondinelli, 15 MAR 2024
“Dignità della persona” è una delle espressioni più inflazionate e sconosciute nel loro significato. In bioetica tutti la utilizzano e la invocano: sia coloro che combattono contro l’eutanasia, sia coloro che la sostengono. Dignità della persona, infatti, è espressione anfibologica, ossia un’espressione contenente un’ambiguità sintattica o semantica e dunque interpretabile in modi diversi a seconda del modo di leggerla. La nozione di dignità non è univoca, se così non fosse non accadrebbe che alcuni, in nome della dignità, invocassero ad esempio l’eutanasia come diritto umano e altri, in nome della stessa dignità, all’opposto la considerassero un delitto. Non è questione di applicazione del termine, ma del suo significato. “Le parole sono la sola cosa per la quale valga la pena combattere”[1], come diceva Chesterton. Ne va del destino dell’uomo. Partiamo dalla definizione riportata dalla Garzanti: 1. nobiltà morale che deriva all’uomo dalla sua natura, dalle sue qualità, e insieme rispetto che egli ha di sé e suscita negli altri in virtù di questa sua condizione: comportarsi con dignità; una persona priva di dignità; difendere la propria dignità”.
La dignità, secondo tale definizione, deriva dalla natura stessa dell’uomo. Stessa cosa si legge nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “L’unico e sufficiente titolo necessario per il riconoscimento della dignità di un individuo è la sua partecipazione alla comune umanità”. Ma è veramente così? Tali definizioni ci dicono da dove la dignità deriva senza, però, dimostrarlo. Diventa significativo il terzo significato riportato dalla Garzanti: “3. (non com.) principio filosofico generale; postulato, assioma”.
La dignità è un postulato od un’assioma? La risposta a questa domanda è decisiva. Secondo la filosofia scolastica, la dignità è un’assioma, che è “verità, principio che per la sua evidenza non ammette discussioni (filos., mat.) verità di per sé evidente e indiscutibile, che sta alla base di ogni dimostrazione” . I medievali per significare il primato assoluto di questi principi usarono il temine dignitas, li chiamarono dignitates, ciò che per noi è “assioma” per i medievali era “dignitas”. “Dignità” vuol dire “non dipendere da nessuno”; un mezzo dipende da chi lo usa, se c’è qualcosa che non dipende da nessuno certo non è un mezzo; da qui deriva il fatto che la persona non può essere un mezzo ma deve essere sempre un fine.
Problema risolto? Per nulla! In che cosa consiste questa dignità? Bisogna trovare nell’uomo qualche cosa che lo renda a tal punto assoluto da non appoggiarsi solamente su se stesso. Allora diventa chiaro che la dignità della persona umana è strettamente, metafisicamente legata alla presenza intima di Dio nell’uomo. Paolo Pasqualucci, in un suo ottimo libro[2], cita padre Serafino Lanzetta: “La dignità umana deve esser rinvenuta nel momento iniziale della creazione, quando Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, elevandolo in tal modo alla condizione della giustizia originaria. Con il peccato, l’uomo ha perduto la giustizia e ha perduto la sua dignità, che gli sarà restituita da Cristo con la grazia santificante. Così l’uomo viene giustificato e ricreato grazie a Dio nella giustizia e nella verità, costituendo esse la radice della sua dignità”.
Continua Pasqualucci: “L’autentica concezione cristiana dell’uomo, in quanto natura creata, sulla quale fondare in modo corretto il concetto della dignità, è dunque così articolata: una natura pura, creata da Dio, cui si aggiunge la natura creata ed elevata da Dio, capace del bene come del male a causa della libertà di cui gode ma già orientata verso il fine sovrannaturale, costituito dalla vita eterna nella Visione Beatifica. Questa concezione è unitaria nonostante debba distinguere tra natura, preternaturale, sovrannaturale. Ecco, dunque, l’emergere della vera dignità dell’uomo. Era quella dell’uomo eletto ad essere “immagine e somiglianza di Dio” grazie ai doni preternaturali. Dopo il peccato di disobbedienza, l’immagine, significante la condizione della semplice natura creata, corpo e anima, è rimasta, sia pure con le limitazioni imposte dalle conseguenze della Caduta, mentre la somiglianza, nella quale si attuava lo stato di giustizia e santità originarie, è andata perduta. E con ciò la vera dignità dell’uomo è stata ferita. L’equilibrio tra uomo e Dio, quale si aveva nell’Eden, è scomparso. Questa è dunque la verità da ristabilire a proposito del concetto cattolico della dignità dell’uomo: non esiste una dignità dell’uomo in sé, in quanto uomo”.
Se si toglie di mezzo Dio la dignità scade a postulato, che è una “proposizione non dimostrata e non dimostrabile che viene ammessa come vera, in quanto necessaria per dimostrare un fatto, una teoria ecc.” . Questa accezione che tanto piace al mondo laico, perché toglie di mezzo Dio, allo stesso tempo depotenzia in maniera spaventosa il concetto di dignità, che, diventando una semplice convenzione umana, non è più un principio primo, non è più né verità, né virtù. Infatti, mentre l’assioma è verità indiscutibile, il postulato è solamente ammesso come vero, non è vero di per sé. Quel come è molto significativo, perché ci ricorda Gen. 3,4-5: “Ma il serpente disse alla donna: Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. La dignità come postulato è una moneta falsa, taroccata e manipolabile. Ora, si capisce il motivo della contraddizione da cui siamo partiti: la parola dignità è la stessa, ma il significato, il concetto che esprime è sottilmente diverso, è quasi uguale, ma come ci ricorda bene G.K. Chesterton: “La falsità mai è tanto falsa quanto più è vicina alla stessa verità. Quando il dardo colpisce vicino al nervo della verità, la coscienza cristiana grida alto per il dolore”[3].
Abbiamo eliminato l’equivoco: è l’uomo stesso che, normatore di se stesso (autonomos), dichiara chi ha o non ha dignità, in base ad una convenzione consensuale o meno. Per rendersene conto, basta cogliere il pensiero dei campioni bioeticisti della cultura della morte. T.H. Engelhardt dichiara che i diritti di non interferenza possono trovare attuazione anche in assenza di convergenze non puramente formali su una nozione di bene. Basta il riconoscimento che, quando ci incontriamo come stranieri morali, noi possiamo derivare una comune autorità morale dal consenso, anche se non riusciamo a metterci d’accordo su come derivarla da Dio o dalla ragione. Ed uno dei “consensi” riportati nel suo manuale di bioetica è il seguente: “Non tutti gli esseri umani sono persone. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane. Tali entità sono membri della specie umana, ma non persone autonome e quindi degne di tutela”[4]. Togliere di mezzo Dio, come fondamento della dignità umana, porta ad un vero e proprio delirio di onnipotenza laicista: “uccidere un neonato con malformazioni non è moralmente equivalente a uccidere una persona. E molto spesso non è per niente sbagliato”[5].
L’unico modo di contrastare questa vera e propria follia è quello di essere testimoni coraggiosi e senza cedimenti della verità tutta intera, usando bene quel grande dono di Dio che è la ragione umana, illuminata dalla fede.
In conclusione, un abisso separa la concezione cristiana della dignità dell’uomo da quella laica, oggi dominante. Ecco il punto fermo da tener presente: il fondamento della dignità della persona risiede in Dio e, di conseguenza, il concetto della nostra dignità è inseparabile dall’illustrata dialettica di peccato e redenzione.
[1] Cit. da M. De Corte ne “Della Prudenza. La più umana delle virtù”, Edizioni Piane.
[2] P. Pasqualucci, La falsa dignità. Una visione dell’uomo spesso fraintesa, ed. Fede & Cultura.
[3] G.K. Chesterton, San Tommaso d’Aquino.
[4] T.H. Engelhardt, Manuale di bioetica, p. 126.
[5] P. Singer. Etica pratica pag. 140, ed. italiana
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