Corrado Gnerre
Partiamo da una domanda: Il Cristianesimo è una religione dei semplici o degli intellettuali? Ovviamente la risposta è scontata: “Ti ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto” (Matteo 11,25-26). Il Cristianesimo è tutt’altro che una religione “gnostica”, cioè basata sulla conoscenza e basta, per cui questa (la conoscenza) sarebbe l’unico criterio di salvezza. No, il Cristianesimo è fondata sulla centralità della volontà e dell’esercizio della virtù. Non a caso nel Pater non diciamo “Signore, sia pensato il tuo pensiero”, bensì “Signore, sia fatta la tua volontà”. Ed ecco perché per il Cristianesimo un analfabeta e un teologo stanno sulla stessa griglia di partenza nella “gara” per la salvezza: tutti e due possono farcela in egual misura e a tutte due viene richiesto prima di tutto l’amore a Dio (si sarà giudicati sull’amore). Ovviamente questo non significa che la conoscenza non abbia importanza, tutt’altro. Essa svolge una funzione insostituibile, ma ausiliare; insostituibile perché non si può amare ciò che non si conosce, ma tale conoscenza ha bisogno di tradursi e di completarsi nell’amore, cioè non può rimanere da sola.
Il cattolicesimo contemporaneo, che pur inflaziona concetti come: partecipazione attiva del popolo, centralità del sentimento e dell’esperienza della fede e chi più ne ha più ne metta, è caduto di fatto in un impietoso intellettualismo, molto peggiore di quello che avrebbe voluto combattere. E ci è caduto proprio perché ha voluto far fuori la dottrina a vantaggio di una fumosa pastoralità.
Un esempio? Prendiamo la dimenticanza del Magistero. Dimenticanza che è su due versanti: da una parte una dimenticanza-dimenticanza, nel senso che il Magistero sembra essere divenuto un optional perché alla fine il criterio definitivo finisce con l’essere il proprio pensiero; dall’altra una dimenticanza che si esprime con un magistero che è sempre meno Magistero, cioè di un insegnamento che è sempre meno insegnamento, di pronunciamenti che hanno abbandonato un linguaggio preciso, chiaro, definitorio a favore di un linguaggio pastorale, fluido, che molto spesso si ferma in mezzo al guado, che dice e non dice. Insomma al posto dello stile papale-papale, lo stile pastorale-pastorale.
Ebbene, questa dimenticanza del Magistero, da intendersi secondo le due prospettive di cui sopra, ha favorito gli intellettuali e non i semplici. Mentre i primi (gli intellettuali) possono “trafficare” sui documenti e sui pronunciamenti, interpretando e contro-interpretando, glossando a proprio piacimento, forti di una presunta (solo presunta) preparazione culturale; i secondi (i semplici) non sanno più che pesci prendere, non hanno più la grazia di ascoltare direttive precise e fanno la classica figura degli asini in mezzo ai suoni; anche se sarebbe meglio affermare degli asini in mezzo agli asini, perché poi, smarrita la verità oggettiva, tutti sono destinati …a ragliare.
L’allora cardinale Ratzinger, ancora Prefetto della Congregazione della Fede, in una intervista rilasciata negli anni ’80 del secolo scorso, parlò del Magistero della Chiesa come elemento capace di assicurare una vera “democrazia” della Chiesa, cioè una democrazia nella salvezza. Dovendo accettare una verità insegnata e non da interpretare soggettivamente, tutti partono con le stesse chances: non solo il teologo ma anche la vecchina di campagna; anzi molto spesso quest’ultima parte avvantaggiata perché più umile e più capace di ascolto.
Se volessimo continuare su questa falsa riga avremmo l’imbarazzo della scelta per indicare esempi. Ma un ultimo lo facciamo. Si pensò di togliere il latino dalla liturgia per renderla più “comprensibile” (come se il Mistero andasse compreso piuttosto che vissuto), dicevamo: si pensò di togliere il latino dalla liturgia per renderla più comprensibile e poi che si è fatto? Si è aperto lo show di prediche che si sono riempite di parole come: kerigma, koinonia, agape, esegesi...
In Don Camillo e i giovani d’oggi il pretone della Bassa difende la richiesta di un suo parrocchiano, il Pinetti, che vuole che sua figlia si sposi con il rito con cui anche lui e sua moglie si erano sposati. Ma il modernista pretino don Chihì è irremovibile. “La Chiesa deve rinnovarsi!” gridò il pretino. “Lei, dunque, non sa niente di ciò che è stato detto al Concilio?” “Sì, ho letto,” rispose don Camillo “ma roba troppo difficile per me. Io non posso andare più in là di Cristo: Cristo parlava in modo semplice, chiaro. Cristo non era un intellettuale, non usava parole difficili, ma solo le umili e facili parole che tutti conoscono. Se Cristo avesse partecipato al Concilio, i suoi discorsi avrebbero fatto ridere i dottissimi padri conciliari.”
Proprio così. Per molti teologi oggi il Vangelo e la Dottrina di Cristo sono troppo semplici, occorre complicarli con redazioni e contro-redazioni, con analisi storico-critiche, esegetiche e diavolerie varie. E alla fine che rimane? La prosopopea del biblista e del teologo di turno.
Dice bene don Camillo: “Io non posso andare più in là di Cristo: Cristo parlava in modo semplice, chiaro. Cristo non era un intellettuale!”
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