venerdì 16 agosto 2024

Come il cattolico deve giudicare la Modernità?







di Corrado Gnerre

Prima di rispondere a questa domanda, bisogna fare una precisazione, cioè distinguere tra modernità cronologica e modernità ideologica. Differenza importante, perché la modernità cronologica è una condizione temporale, quella ideologica è una condizione culturale. Se non si tiene in considerazione tale differenza, si finirà col prendere (come si suol dire) lucciole per lanterne arrivando a confondersi le idee e a non capire come stanno davvero le cose.

Spesso, in ambito cattolico, si ascoltano frasi di questo tipo: la modernità avrebbe espresso domande giuste dando però risposte sbagliate. E’ davvero così? Che forse anche in questo caso non dobbiamo tenere in considerazione la differenza di cui sopra, ovvero che la modernità cronologica non è quella culturale?

E allora prima di tutto chiediamoci: quali sono le domande che ha posto la modernità? Interrogativo a cui – diciamolo francamente – non è difficile rispondere. La modernità come categoria filosofica (cioè culturale) ha posto fondamentalmente due comande, da intendersi come aspirazioni: la centralità dell’uomo e lo sviluppo del suo pensiero sia culturale sia scientifico. Ora, queste domande sono esclusivamente moderne? Solo la modernità le possiede? Nella societas christiana (come si dovrebbe chiamare il Medioevo) vi era tanto una centralità dell’uomo (potremmo definirlo “antropocentrismo teocentrico”) quanto un adeguato sviluppo scientifico-tecnologico. Tanto è vero che sono state proprio la cultura e l’antropologia cristiane a determinare la traduzione della conoscenza scientifica del mondo antico in sviluppo tecnologico e quindi a far sì che il bacino del Mediterraneo “planetarizzasse” il mondo.

Dal secolo XI al XIII vi fu un periodo d’intensissima attività tecnologica, addirittura tra i più fecondi della storia per quanto riguarda le innovazioni. C’è chi ha parlato di “prima rivoluzione industriale”. Lo ha fatto il francese Jean Gimpel (uno dei più famosi storici della scienza) per il quale le tecnologie dei secoli medievali costituirono le fondamenta da cui si sarebbe originata la rivoluzione industriale del XVIII secolo. Egli ha scritto: “La prima rivoluzione industriale risale al Medioevo. I secoli XI, XII, XIII hanno creato una tecnologia sulla quale la rivoluzione industriale del secolo XVIII si è appoggiata per il suo sviluppo. Le scoperte del Rinascimento hanno avuto solamente un ruolo limitato nell’espansione dell’industria (…). (Molti) sono oggi concordi nel riconoscere l’idea che ci fu effettivamente una rivoluzione industriale nel Medioevo.”

Certo, le domande giuste e peculiari della modernità ci sono, ma riguardano problemi che ha posto e ha causato la modernità stessa, tanto è vero che essa ha dovuto necessariamente attingere a ciò che l’ha preceduta. Pensiamo – per esempio – a quelle encicliche sociali che hanno cercato di rispondere ai guasti di un certo tipo di industrialismo e liberismo.

Dunque, cosa significa che la modernità ha posto domande giuste dando però risposte sbagliate? Lo ripetiamo: le cosiddette domande che ha posto la modernità sono domande perennemente presenti nell’ordine naturale che solo (o se si vuole: soprattutto) il Cristianesimo può adeguatamente promuovere grazie al suo non conflittuale ma armonico rapporto con la ragione e con la legge naturale.

Affermare questo non significa passatismo né rinuncia al valore del progresso. Il vero progresso è acquisizione di esperienza, è utile uso della storia; guarda caso il contrario della modernità che ha fatto della storia non un mezzo ma un fine: si pensi allo storicismo, non a caso corrente filosofica determinante nella modernità.

Prendere le distanze dalla modernità non vuol dire avversare qualsiasi sano sviluppo né tantomeno credere ingenuamente che l’uomo non sia collocato nel divenire storico, piuttosto tener presente che la storia è anche applicazione di una mentalità all’azione umana e che ogni epoca va valutata per questo giudizio di fondo. Il giudizio di fondo della modernità è sì la promozione dell’uomo, ma volendo trasformare l’antropocentrismo teocentrico del medioevo in un antropocentrismo radicale; e lo sviluppo del pensiero scientifico–tecnologico in una deriva tecnocratica della stessa. Tutto questo per due motivi che non possono essere trascurati nello studio della modernità: la dimenticanza della creaturalità dell’uomo e la negazione del peccato originale.

Pio XI definì il socialismo intrinsecamente perverso per far capire come le dottrine socialiste non possono essere separate da un immanentismo di fondo, dando così un colpo notevole a chi – alla Maritain – voleva considerare il socialismo come una sorta di “eresia cristiana”: tolto l’ateismo, potrebbe essere recuperato. Lo stesso va fatto per la modernità. Lo studio della sua essenza ne palesa l’intrinseco errore e ne impedisce qualsiasi recupero.

Altra cosa è il valore del progresso.






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