martedì 13 agosto 2024

Giorgio Agamben / Requiem per l’Occidente



Messe da Requiem in relazione ad uno dei tanti tagli e annacquamenti subiti dalla Sacra Liturgia per effetto del prevalere della gerarchia modernista in chiave conciliarista qui




Giorgio Agamben, 13 agosto 2024

Verso la fine del XIX secolo, Moritz Steinschneider, uno dei fondatori della scienza del giudaismo, dichiarò, non senza scandalo di molti benpensanti, che la sola cosa che si poteva fare per il giudaismo era assicurargli un degno funerale. È possibile che da allora il suo giudizio si applichi anche alla Chiesa e alla cultura occidentale nel suo complesso. Quel che di fatto è, tuttavia, avvenuto è che il degno funerale di cui parlava Steinschneider non è stato celebrato, né allora per il giudaismo né ora per l’Occidente.

Parte essenziale del funerale nella tradizione della chiesa cattolica è la messa detta di Requiem, che nell’Introito si apre appunto con le parole: Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. Fino al 1970, il missale romano prescriveva inoltre per la messa di requiem la recitazione nella sequenza del dies irae. Questa scelta era perfettamente conseguente col fatto che il termine stesso che definiva la messa per i defunti proveniva da un testo apocalittico, l’Apocalisse di Esdra, che evocava insieme la pace e la fine del mondo: requiem aeternitatis dabit vobis, quoniam in proximo est ille, qui in finem saeculi adveniet, «vi darà la pace eterna, perché è vicino colui che viene alla fine del tempo». L’abolizione del dies irae nel 1970 va insieme all’abbandono di ogni istanza escatologica da parte della Chiesa, che si è in questo modo del tutto conformata all’idea di un progresso infinito che definisce la modernità.

Ciò che viene lasciato cadere senza il coraggio di esplicitarne le ragioni – il giorno dell’ira, l’ultimo giorno – può essere raccolto come un’arma da usare contro le viltà e le contraddizioni del potere al momento della sua fine. È quanto intendiamo qui fare, provandoci a celebrare senza intenzione parodica, ma al di fuori della Chiesa, che appartiene al numero dei defunti, una sorta di funerale abbreviato per l’occidente.
Dies irae, dies illa
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sybilla.

Giorno d'ira, quel giorno
distruggerà il mondo nella cenere,
come testimoniano Davide e la Sibilla.

Di che giorno si tratta? Certamente del presente, del tempo che stiamo vivendo. Ogni giorno è il giorno dell’ira, l’ultimo giorno. Oggi il secolo, il mondo sta bruciando, e con esso anche la nostra casa. Di questo dobbiamo essere testimoni, come Davide e come la Sibilla. Chi tace e non testimonia, non avrà pace né ora né domani, perché è appunto la pace che l’occidente non può né vuole vedere né pensare.

Quantus tremor est futurus
quando iudex est venturus
cuncta stricte discussurus.

Quanto terrore ci sarà,
quando verrà il giudice,
per giudicare rigorosamente ogni cosa.

Il terrore non è futuro, è qui e ora. E quel giudice siamo noi, chiamati a pronunciare il giudizio, la krisis sul nostro tempo. Alla parola «crisi», di cui non si fa che parlare per giustificare lo stato d’eccezione, noi restituiamo il suo significato originale di giudizio. Nel vocabolario della medicina ippocratica, krisis designava il momento in cui il medico deve giudicare se il paziente morirà o sopravviverà. Allo stesso modo noi discerniamo ciò che dell’occidente muore e ciò che è ancora vivo. E il giudizio sarà severo, non si lascerà sfuggire nulla.

Tuba mirum spargens sonum
per sepulchra regionum,
coget omnes ante thronum.

Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura,
iudicanti responsura.

Una tromba che diffonde un suono meraviglioso
nei sepolcri di tutto il mondo,
chiamerà tutti davanti al trono.

La morte e la natura stupiranno,
quando la creatura risorgerà,
per rispondere al giudice.

Non possiamo far risorgere i morti, ma possiamo almeno preparare con ogni cura lo strumento meraviglioso del nostro pensiero e del nostro giudizio e, facendolo poi risuonare senza timore, liberare la natura e la morte dalle mani del potere che con esse ci governa. Sentire stupire in noi la natura e la morte, presagire qui e ora un’altra vita possibile e un’altra morte, è la sola resurrezione che c’interessa.

Liber scriptus proferetur,
in quo totum continetur,
unde mundus iudicetur.

Iudex ergo cum sedebit,
quidquid latet apparebit,
nil inultum remanebit.

Verrà aperto il libro,
nel quale tutto è contenuto,
e da quello il mondo sarà giudicato.
Non appena il giudice sarà seduto,
apparirà ciò che è nascosto,
nulla resterà invendicato.

Il libro scritto è la storia, che è sempre storia della menzogna e dell’ingiustizia. Della verità e della giustizia non vi è storia, ma apparizione istantanea nella krisis decisiva di ogni menzogna e ogni ingiustizia. In quel punto la menzogna non potrà più coprire la realtà. La giustizia e la verità manifestano infatti se stesse, manifestando la falsità e l’ingiustizia. E nulla sfuggirà alla forza alla loro vendetta, a condizione di restituire al questa parola il significato etimologico che ha nel processo romano, in cui il vindex è colui che vim dicit, che mostra al giudice la violenza che è stata fatta a colui che solo in questo senso egli “vendica” [In ebraico il termine vendetta significa "ristabilimento della giustizia" -ndr].

Quid sum miser tunc dicturus,
quem patronum rogaturus,
cum vix iustus sit securus.

E io che sono misero che dirò,
chi chiamerò in mia difesa,
se a mala pena il giusto è sicuro?

Il giusto che presta la sua voce al giudizio è in qualche modo coinvolto nel giudizio e non può chiamare altri in sua difesa. Nessuno può testimoniare per il testimone, egli è solo con la sua testimonianza -in questo senso non è sicuro, è dentro la crisi del suo tempo -e nondimeno pronuncia la sua testimonianza.

Confutatis maledictis,
flammis acribus addictis,
voca me cum benedictis…

Lacrimosa dies illa,
qua resurget ex favilla
iudicandus homo reus

Condannati i maledetti,
gettati nelle vive fiamme,
chiama me tra i benedetti…

Giorno di lacrime quel giorno,
quando risorgerà dalla cenere
l'uomo reo per essere giudicato.

Benché l’inno sul giorno dell’ira faccia parte di una messa che chiede pace e pietà per i morti, il discrimine fra i maledetti e i benedetti, fra i carnefici e le vittime è mantenuto. Nell’ultimo giorno, i carnefici, come stanno ora facendo senza forse avvedersene, si confutano infatti da soli, lasciano cadere le maschere che coprivano la loro ingiustizia e la loro menzogna e si gettano nelle fiamme che hanno essi stessi acceso. L’ultimo giorno, il giorno dell’ira, ogni giorno è per essi un giorno di lacrime, ed è forse proprio perché ne sono consapevoli che si fingono così sorridenti. Solo il consenso e la paura dei molti tiene in sospeso quel giorno.

Per questo, anche se ci sappiamo senza potere di fronte al potere, tanto più implacabile deve essere il nostro giudizio, che non possiamo separare dal requiem che stiamo celebrando. Signore, non dare loro la pace, perché essi non sanno che cosa essa sia.





 su Quodlibet 11 luglio 2024





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