mercoledì 7 agosto 2024

L’incontro tra Carini e Khelif ha qualcosa da dirci sul pugilato femminile?



 Società | CR 1859



di Fabio Fuiano, 7 Agosto 2024 

Lo scorso primo agosto si è disputato, in occasione delle Olimpiadi di Parigi, un incontro di pugilato tra Angela Carini e Imane Khelif che ha suscitato un acceso dibattito sulla disparità biologica tra i contendenti. Un dibattito che, purtroppo, è rimasto su un piano superficiale e opinabile, anche a causa di elementi di informazione insufficienti per poter prendere una posizione equilibrata. Con questo articolo si tralascerà volutamente la questione relativa all’identità sessuale di Imane Khelif, o la valutazione sull’opportunità che un tale personaggio possa essere adatto a partecipare ad un incontro di boxe in tale o tal altra categoria. Queste sono questioni particolari che, molto opportunamente, vanno lasciate alla scienza medica, perfettamente in grado, alla luce dei progressi della genetica, di stabilire il genotipo di qualsiasi essere umano. Lo sforzo da fare è quello di ricondurre l’intera vicenda a principi generali che, in quanto tali, non possono essere messi in discussione.

Anzitutto, è fondamentale ribadire l’esistenza di una natura umana, oggettiva e immutabile, con una conseguente legge morale naturale che ingiunge all’uomo di agire conformemente a tale natura se vuol conseguire il proprio fine ultimo. Secondariamente, bisogna domandarsi se, tra gli sport esistenti, la boxe sia o meno conforme alla natura umana e, particolarmente, a quella femminile. Ecco il nocciolo della questione: se la risposta a tali interrogativi è negativa, allora si possono tranquillamente tralasciare tutte le discussioni conseguenti.

La Dottrina della Chiesa in merito al tema dello “sport” ha avuto il suo sviluppo con i pontificati di San Pio X e i successivi. In particolare, papa Sarto, pur rilevando gli aspetti positivi dello sport, rivolgeva ai partecipanti al Concorso Internazionale di Ginnastica del 27 settembre 1908 l’invito a «non passare i confini della prudenza, non esporsi a pericoli» recando danno alla propria salute.

Nel suo Discorso agli sportivi romani del 20 maggio 1945, Pio XII parlava positivamente di uno sport che «concorre ad elevare il valore spirituale dell’uomo e, quel ch’è più, lo orienta verso una nobile esaltazione della dignità, del vigore e della efficienza di una vita pienamente e fortemente cristiana». Al tempo stesso, il Papa ricordava come questa concezione cristiana fosse lontana da quel materialismo «per il quale il corpo è tutto l’uomo! Ma come è anche aliena da quella follia di orgoglio, che non si rattiene dal rovinare con uno strapazzo insano le forze e la salute dello sportivo, per conquistare la palma in una gara di pugilato o di velocità, e lo espone talvolta temerariamente anche alla morte! Lo “sport” degno di questo nome rende l’uomo coraggioso di fronte al pericolo presente, ma non lo autorizza a sfidare senza una ragione proporzionata un grave rischio; il che sarebbe moralmente illecito».

Per quel che attiene alla boxe, la Chiesa ha spesso espresso la sua condanna per due principali ragioni: (1) perché richiede, per poter essere svolta, un confronto violento con l’avversario, mettendone in pericolo l’incolumità, se non la vita stessa; (2) a causa del clima di eccitazione violenta che esso provoca tra gli spettatori, analogo ai giochi gladiatori già condannati da sant’Agostino. Basti ricordare, a questo proposito, un articolo dell’“Osservatore Romano”del 15 febbraio 1933 in cui si descrive «quel popolo che invade, assiepa, riempie sino all’impossibile gli stadi […] pronto a dirsi truffato se la rissa coi guantoni non ha spaccato sopracciglia, infranto nasi, slogato mascelle, rotto costole, pesto almeno un occhio, regalata una emorragia […] quel popolo che s’erge dal suo posto allo stadio come su un piedistallo e si innalza a simbolo della civiltà odierna. La quale è fiera di premiare i “pugili” che con la forza, la violenza, la brutalità proiettate nello stadio, nella arena del mondo, ne esalta e diffonde la fama. Questa nostra civiltà! […] Quella che ha tanto camminato in venti secoli da ritrovarsi seduta ancora nell’anfiteatro».

Numerosi sono stati gli interventi di questa natura, soprattutto dopo le ingenti morti seguite alla diffusione di questa disciplina sportiva a partire dagli anni ’60. “La Civiltà Cattolica”, in una documentata analisi del problema, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, affermava che «la maggior parte dei moralisti, confortata dal giudizio ancora più severo dei medici, non ha dubbi nel ritenere il pugilato professionistico, così come è attualmente, di fatto, esercitato, uno sport oggettivamente immorale» (Il pugilato professionistico e la morale, in “La Civiltà Cattolica”, 1962, II, p. 160); «in verità – proseguiva l’organo ufficioso della Santa Sede– non c’è ancora su tale problema una dichiarazione ufficiale della Chiesa; ma occorre notare che, per giudicare della moralità di un fatto o di un problema, non si richiede sempre un intervento ufficiale della Chiesa; basta applicare ai casi concreti i principi generali della morale naturale, elevata e perfezionata dal cristianesimo» (ivi).

Dopo la morte in diretta televisiva, del pugile Davey Moore il 21 marzo 1963, in un incontro con Sugar Ramos, “L’Osservatore Romano”ribadiva a sua volta «il giudizio intrinseco sulla immoralità di uno sport che attenta all’integrità della persona fisica degli atleti gratuitamente e stoltamente e nella triste cornice della passionalità scatenata del pubblico». Nell’articolo si concludeva: «Non si dica che anche gli altri sport, auto, ciclismo, alpinismo, calcio, possono provocare tragedie e costare vittime. In quegli sport la disgrazia non può essere che accidentale e, del resto, anche per essi vale l’obbligo del limite ragionevole e della prudenza cristiana. Ma nel pugilato l’essenza è l’offesa fisica contro l’avversario. Fissare un punto limite o stabilire una sicurezza certa nell’impetuoso gioco, alla luce dell’esperienza sembra pura illusione. E la persona umana va salvaguardata, non distrutta. Va educata non abbruttita» (Ribalta dei fatti: Lo stadio o il circo? in “Osservatore Romano”, 27 marzo 1963, p. 2).

Ma, a questo punto, se già per lottatori di sesso maschile si pongono remore morali, che pensare quando a combattere sul ring sono delle donne? È davvero conforme alla natura femminile? La Chiesa non avrebbe esitazioni: la natura della donna è fatta per ben altro. Il pianto prorompente della pugile Angela Carini a seguito dell’incontro è una palpabile testimonianza della cocente sconfitta, certo, ma anche dello sfogo inconsapevole dovuto all’innaturalità di questo sport per una donna.

In una riflessione, pubblicata su CR, dedicata alle donne c.d. “childfree”, si sono riportati ampi stralci delle parole di papa Pio XII sulla naturale vocazione della donna alla maternità, alla sua spiccata sensibilità e delicatezza, che la rendono regina del focolare, atta a diffondervi gentilezza e dolcezza. L’antitesi della intrinseca violenza della boxe. Già il predecessore, Pio XI, metteva in guardia da una pretesa emancipazione femminile che mira ad assegnare alla donna i medesimi ruoli che ricopre l’uomo. Nella sua enciclica Casti Connubii, del 1930, il pontefice rilevava che in tal modo si mira alla corruzione dell’indole muliebre e della dignità materna, nonché alla perversione di tutta la famiglia. Anzi, «questa falsa libertà e innaturale eguaglianza con l’uomo tornano a danno della stessa donna; giacché se la donna scende dalla sede veramente regale, a cui, tra le domestiche pareti, fu dal Vangelo innalzata, presto ricadrà nella vecchia servitù (se non di apparenza, certo di fatto) e ridiventerà, come nel paganesimo, un mero strumento dell’uomo».

Per curare questa piaga materialistica e individualista, affermava Pio XII nella sua Allocuzione alle delegate delle Leghe Femminili Cattoliche il 14 aprile 1939, «non c’è che un balsamo efficace: il ritorno dello spirito e del cuore umano alla conoscenza e all’amore di Dio, il Padre comune, e di Colui che Egli ha inviato per salvare il mondo: Gesù Cristo. Ora, per versare l’unzione di questo balsamo sulle carni vive dell’umanità straziata da tanti urti, le mani delle donne sembrano provvidenzialmente preparate, rese più docili dalla sensibilità più affinata e dalla tenerezza più delicata del cuore». Ecco l’alta vocazione cui sono destinate le mani di una donna, lasciando da parte i guantoni del pugile.






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