martedì 27 febbraio 2024

Il diritto alla vita non può essere graduale: o sussiste o non sussiste, ma va ben fondato






Il diritto alla vita per Böckenförde: un quadro appeso ad un chiodo molto fragile



Giovanni Formicola, 27 FEB 2024

«Il concetto di un diritto alla vita graduale, se preso sul serio, è atto a distruggere lo stesso diritto alla vita. Il diritto alla vita, se sussiste, spetta all’uomo per sua natura, in quanto uomo. […] Solamente così è un diritto umano. […] Esso non è legato alle condizioni dell’utilità, della salute, dell’autocoscienza sviluppata. Questo diritto non può essere graduale, non può sussistere solo a metà. O sussiste o non sussiste».

Ernst-Wolfgang Böckenförde (d’ora innanzi «B.») così risponde alla domanda se è possibile pensare ad «un diritto alla vita differenziato secondo gradi», in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung del 16 maggio 2001, pubblicata con il titolo La porta verso la selezione è aperta. Adesso possiamo leggerla in italiano nell’appendice (pp. 75-81) di un volumetto edito da Morcelliana nel 2010, Dignità umana e bioetica, che, con una prefazione di Sara Bignotti (Dignità umana: un a priori?, pp. 5-33), cui si deve anche la traduzione, contiene un altro testo di B., La dignità umana come principio normativo. Il diritto costituzionale nel dibattito bioetico (pp. 37-71), già comparso nel 2003 su una rivista giuridica, la Juristen Zeitung.

B., com’è noto, è un celeberrimo giurista tedesco, che ha insegnato in numerose università germaniche, è stato giudice del Tribunale Costituzionale Federale di Germania ed è autore prolifico, delle cui opere non mancano traduzioni nella nostra lingua.

La risposta sopra trascritta (pp. 80-81 del volumetto, cui va inteso ogni riferimento senza altra indicazione) in qualche modo sintetizza e conclude la sua opinione sui temi che animano l’odierno dibattito bioetico. Egli, assumendo come criterio lo statuto dell’embrione, affronta i quesiti concernenti la ricerca sulle cellule staminali embrionali, prodotte o importate allo scopo, la diagnostica preimpianto e la selezione embrionale, la clonazione terapeutica, che i vertiginosi progressi della biomedicina e delle biotecnologie prospettano all’uomo contemporaneo come autentiche tentazioni faustiane, mettendogli a disposizione, con l’inseminazione artificiale, l’origine della vita fuori dall’alveo protettivo del corpo umano e delle dinamiche «misteriose», perché non manipolabili, del concepimento naturale. Il Mondo nuovo di Aldous Huxley (1894-1963) che diviene realtà. Sicché, «chi vuole avere discendenti, si potrà scegliere i futuri figli quanto al loro colore di capelli o il loro quoziente intellettivo», come dichiarato (p. 40) da un’esponente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (l’OMS, quella degli allarmi sulle influenze aviarie e suine, che tanto hanno beneficato le industrie farmaceutiche quanto si sono rivelati autentiche propalazioni di notizie false e tendenziose). Ovvero, potrà usare la vita umana a scopi di ricerca scientifica (vera e propria vivisezione umana) e/o terapeutica (una sorta di «cannibalismo» medicinale).

Secondo B., tali prospettive sono contrarie alla fondamentale dignità dell’uomo – inteso sia come singolo individuo che come umanità (p. 51) –, che l’art. 1 della Grundgesetz (Legge Fondamentale della Repubblica Federale di Germania del 23 maggio 1949, «provvisoria» in attesa dell’unificazione tedesca) definisce «intangibile», prescrivendo ad «ogni potere statale [di] rispettarla e proteggerla», e dalla quale promana la titolarità di diritti tra i quali quello fondamentale di «ognuno […] alla vita e all’integrità fisica» (art. 2, par. 2). Tali dignità e diritti la giurisprudenza costituzionale germanica, dichiarando la nullità della legge federale che «legalizzava» l’aborto, ha stabilito essere propri anche del nascituro, riconoscendo che la «precedenza [della sua vita] vale fondamentalmente per l’intera durata della gravidanza e non può essere posta in discussione entro alcun termine» (sent. del 25-2-1975).

Solo incidentalmente è utile ricordare che tale sentenza – pur tenendo ferma la illiceità penale dell’aborto volontario – riconosceva la possibilità di non punirlo in presenza di «indicazioni» di carattere «medico», «eugenetico», «sociale» e «giuridico». L’interpretazione estensiva di tale principio di diritto, in una successiva legge federale del 1976 e nella giurisprudenza delle corti tedesche, ha tuttavia reso l’aborto volontario, pur definito un delitto e sanzionato con pena detentiva o pecuniaria, di fatto libero nelle prime dodici settimane se si allega una «situazione di necessità sociale» non meglio specificata.

Che l’assunzione della dignità umana come principio e fondamento dell’ordinamento giuridico tedesco sia conseguenza della traumatica esperienza nazionalsocialista, al fine di erigere un riparo da simili infamie, è evidente. Com’è evidente che solo la sua applicazione non frazionata, non graduale, in un certo senso «non interpretata» (p. 52), ad ogni uomo fin dall’inizio della sua esistenza ne garantisce l’effettività, impedendone lo svuotamento sostanziale. 

Il riconoscimento della dignità umana è un autentico «principio normativo vincolante per tutto l’operato statale e anche per la convivenza nella società» (p. 43). Sottoporlo a condizioni – quali che siano: l’utilità, lo sviluppo, la salute, il livello di autocoscienza, l’età e, mi permetto di aggiungere, le dimensioni dell’individuo concreto –, significa relativizzarlo e in fondo negarlo. Esso non sarebbe più un a priori, ma una creazione del diritto positivo, e quindi soggetto, come ha più volte insegnato Benedetto XVI, al mutevole e tendenzialmente immotivato gioco delle maggioranze parlamentari e del fluire della pubblica opinione, mai immune da condizionamenti interessati (p. 81). Una dignità umana che sia funzione di tali fattori già non è più tale, e con essa si perdono tutti i veri e legittimi diritti (da non confondere con i desideri) dell’uomo – ciò che per giustizia gli spetta in quanto tale e non per la sua concreta vicenda sociale –, a cominciare da quello fondamentale alla vita.

Le conclusioni cui perviene B., tutte contrarie ad ogni tipo di manipolazione e selezione embrionale, sono invero convincenti. Geometrico è il modo in cui dimostra (p. 69) l’inammissibilità della diagnosi preimpianto[1], e l’inevitabile deriva dall’eugenetica negativa (tenere solo il figlio sano) a quella positiva (ottenerlo secondo desiderio, trasformando il figlio in un prodotto da affidare alla realizzazione di un designer, e la procreazione in un intelligent design). Ritengo però più problematico il modo in cui le fonda, e mi sembra discutibile anche qualcuna delle sue argomentazioni.

Anzitutto, ma potrebbe dipendere dalla traduzione, è difficile la compatibilità delle sue conclusioni, con la definizione dell’embrione come «uomo in nuce» (pp. 62 e 67): l’embrione è uomo; in nuce è feto, neonato, bambino, adolescente, adulto, etc.. Così come appare debole la sua accettazione del concetto «oggettivo» di conflitto tra la gestante e suo figlio, che giustificherebbe l’aborto volontario (pp. 79 e 81). Una situazione conflittuale tra diritti, che funga da esimente di un atto in sé illecito rendendolo non punibile, come la legittima difesa, presuppone la volontarietà dell’altrui condotta o comunque un’azione positiva, non il mero fatto dell’esistenza, che è precisamente tutto ciò che può essere «imputato» al concepito durante la gravidanza.

Ma il problema maggiore è costituito dalla difficoltà di uscire dai confini dell’ordinamento costituzionale tedesco positivo (che comunque non ha impedito una sostanziale liberalizzazione dell’aborto), e dare universalità al principio secondo il quale «[…] il riconoscimento e il rispetto di ogni uomo in quanto soggetto, come titolare di diritti fondamentali […], sono prestabiliti e non sono beni di cui si possa disporre a piacimento. Il riconoscimento e il rispetto della dignità umana appaiono come il fondamento del diritto costituzionale, non da ultimo del diritto alla vita» (p. 43), e devono essere attribuiti ad ogni uomo «fin dal principio, dal primo inizio della sua vita […]. Ora questo primo inizio di una vita propria dell’uomo […] si trova allora nella fecondazione, non più tardi» (p. 55).

Al fine di identificare l’inizio della vita umana e della storia di ciascuno di noi – che dev’essere compresa integralmente alla luce di tale dignità, senza soluzione di continuità –, oltre l’intuizione fondamentale che induce ciascuno a parlare di sé in prima persona fin dal momento del concepimento, «diventano […] rilevanti le conoscenze e i dati della scienza naturale» (ibid.), che non forniscono elementi contro-intuitivi rispetto alla certezza primaria del proprio esistere dal momento del concepimento, anzi la convalidano in modo inconfutabile. Ma questa conoscenza è il sostrato, non il fondamento del principio e della sua forza normativa.

B. ritiene che questo fondamenti non possa essere individuato, inoltre, né nel concetto di persona – da lui ritenuto troppo controverso –, né nell’argomentazione ontologico-deduttiva attribuita – e questo stupisce – alle teorie del diritto naturale, che sembrano essere comprese (e ridotte) solo nella loro versione razionalistica, radicata nel pensiero e nell’opera di Ugo Grozio (1583-1645). Non è qui possibile discutere tale questione, vale la pena solo di ricordare che v’è un’altra tradizione del diritto naturale, né razionalistica né deduttiva, che inizia con la nota affermazione platonica secondo la quale la legge è la stessa realtà («la legge è scoperta di ciò che è», Minosse, 315 a), e che fonda la giustizia della norma nell’ordine dell’essere, il cui movimento conduce alla verità dell’azione: uno svelarsi, piuttosto che una ricostruzione valida etsi Deus non daretur; «naturale» in senso metafisico.

Nella sua ricerca filosofica del fondamento normativo (in tal senso correttamente il diritto è riconosciuto non auto-sufficiente), B. giunge a Kant (1724-1804), e lì, però, sembra fermarsi: «Noi dobbiamo questa cognizione [del diritto alla vita sin dall’origine dell’uomo] all’illuminismo e all’idea che ne consegue dei diritti dell’uomo. Kant ha utilizzato chiaramente e in modo pregnante questa espressione nella sua Metafisica dei costumi» (p. 76).



Ora, al di là del fatto che è proprio in area culturale illuministica che si è verificata la più totale, radicale e mai prima occorsa (e per vero mai prima possibile) «inversione bioetica» – cioè il capovolgimento dei principi di tutela e rispetto integrale della dignità e del diritto alla vita dell’uomo nello stato pre-natale, tanto nella morale quanto nel diritto –, non è certamente vero che solo con Kant e con l’illuminismo finalmente l’uomo abbia preso coscienza della sua dignità e dei suoi diritti fin dal concepimento.

B., in proposito, ricorda la teoria aristotelica e scolastica dell’animazione successiva, che differisce nel tempo rispetto al concepimento la tutela piena dell’embrione umano (ibid.). Tale teoria, però, oltre ad essere imputabile ad un difetto di conoscenza scientifica, non escludeva il divieto d’aborto prima dell’«animazione», ma soprattutto era tutt’altro che pacificamente condivisa. La Didaché (o Dottrina dei dodici apostoli, una sorta di catechismo dell’anno 100) già condanna senza eccezioni l’aborto procurato; sia Tertulliano (155-230) che Lattanzio (250-327) sostengono che «l’anima entra nel corpo subito dopo il concepimento»; il concilio di Elvira (300-303 circa) e poi quello di Ancira (314) condannano l’aborto senza fare alcuna distinzione tra feto animato o non animato.

Va poi osservato che l’etica kantiana – che anche l’autrice della prefazione dichiara la base di ogni discussione sull’argomento –, in quanto formale, cioè né riflesso dell’essere né criterio di un giudizio finale, è invero all’origine della crisi morale del nostro tempo. Essa, priva di fondamento metafisico, rinuncia al reale e con questo perde il finalismo inseparabile da ogni norma («il sabato è per l’uomo»), è astratta, algida, e lontana dall’uomo. Alla lunga risulta una scatola vuota, e finché ha contenuto il tradizionale (e cristiano) senso comune del bene, del male e dell’humanum, non ha dato troppi problemi; però man mano che si è perfezionato l’inevitabile effetto relativistico dei suoi fondamenti, che negano metafisica e trascendenza (o almeno la possibilità di parlarne), allora si è rivelata adatta a qualsiasi contenuto. Così si spiega anche l’accettazione da parte di B. della fecondazione artificiale. Essa gli appare compatibile con la nozione kantiana dell’uomo come fine, in quanto il «prodotto», se non viene selezionato e manipolato, sarebbe appunto voluto come tale. Pare sfuggirgli però il fatto che già nel termine che usa, «prodotto», è contenuta la condanna etica – non necessariamente quella giuridica, che è difficile pretendere in ogni caso – di una procedura disumana e disumanizzante, che applica i metodi della zootecnia al mistero della procreazione della vita umana, separandola definitivamente dalla sessualità, che è un aspetto specifico della verità sull’uomo.

Insomma, il quadro disegnato nei suoi brevi ma densi scritti da B. è sostanzialmente «vero», ma il chiodo cui è appeso è assai fragile.

Non l’etica formale kantiana, ma l’etica realista fondata sulla «verità delle cose» – prima fra tutte quella dell’uomo creato da Dio e di Dio imago – consente di pensare e fondare un a priori per il diritto positivo, che abbia effettiva consistenza normativa. Giuridicamente è il diritto naturale – potrà non piacere, ma non c’è altra strada, purché non lo si confonda con quello razionalista, deduttivo e ateo teorizzato da Grozio e dai suoi epigoni –, l’unico possibile a priori. Veicolato dalla tradizione e confermato dalla Rivelazione, conoscibile dalla retta ragione di ognuno nei suoi pochi ma chiari principi, esso solo può essere, pur non senza difficoltà, efficace protezione della dignità, della vita e della libertà di ciascun uomo – dal concepimento alla morte naturale – da ogni arbitrio sociale, politico e statuale.


Foto: Domradio.de




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