La distinzione di ruoli richiesta dal vescovo di Reggio Emilia ai fedeli in vista delle elezioni, è di buon senso, ma nelle diocesi deve esserci una vera formazione dei laici alla politica alla luce del corretto rapporto tra i piani e di una non deformata Dottrina sociale della Chiesa.
IL CASO REGGIO EMILIA
Stefano Fontana, 20-02-2024
Soprattutto se valutata per contrasto con altre iniziative episcopali di opposta indole. Capita infatti che il vescovo di Crema, in vista delle prossime elezioni amministrative, abbia programmato quattro incontri di formazione su come funziona tecnicamente una amministrazione comunale [QUI]. I titoli degli incontri parlano di piano regolatore e di bilancio. Del resto, alle SFISP (Scuole di formazione all’impegno sociale e politico) iniziate negli anni Novanta del secolo scorso, le diocesi insegnavano perfino come organizzare una campagna elettorale. Da un lato il vescovo Morandi vuole evitare indebite commistioni, dall’altra quello di Crema si butta a capofitto in queste indebite commistioni, come se la Chiesa fosse esperta di piani regolatori e di bilanci. Per questo dicevo che l’intervento di Morandi può contribuire a chiarire alcune questioni del rapporto Chesa-politica, non solo le confuse ingenuità cremasche ma anche altre.
Prima di tutto si deve dire che la distinzione di ruoli richiesta dal vescovo di Reggio Emilia è di buon senso. La distinzione richiesta dal vescovo aiuta a comprendere la natura profonda di ambedue, invitando a superare i pressapochismi o il superficiale attivismo. Va anche riconosciuto che vedere il ministro straordinario della comunione che in piazza del paese distribuisce volantini elettorali con il proprio nome e il simbolo di un partito non è un gran spettacolo. La cosa non va presa sottotono: abbiamo avuto direttori di caritas diocesane e direttori di settimanali diocesani impegnati visibilmente in un partito politico, consiglieri comunali e perfino assessori per lo stesso partito, e che formavano tra loro una rete che influenzava notevolmente la vita della diocesi.
Qui si innesta un punto delicato che però non può essere aggirato. Nessuno pensa che la disposizione del vescovo Morandi avesse nel mirino alcune persone o alcuni partiti politici. Sarebbe offensivo pensarlo. Però, che disposizioni di questo genere interessino di fatto soprattutto il Partito Democratico, non solo a Reggio Emilia, capoluogo del dossettismo, ma anche in altre parti d’Italia… questo si può dire senza offesa per nessuno.
Naturalmente le questioni non finiscono qui. Nel testo firmato dal vescovo Morandi si legge la sua preoccupazione affinché le divisioni partitiche non si riverberino dentro la Chiesa. I partiti, come dice il loro nome, sono di parte. Il metodo della politica dei partiti è la lotta e il fine è il potere. Questo tutti lo sanno, per cui non dovrebbe suscitare scandalo che un vescovo abbia di queste preoccupazioni e prenda delle adeguate misure, forse non sufficienti ma certamente fondate. È vero che nella Chiesa ormai le divisioni ci sono e sono tante, non per motivi politici ma teologici che nascono dentro la Chiesa e non vengono da fuori.
Da questo punto di vista Morandi potrebbe essere considerato ingenuo, nel soffermarsi sulla pagliuzza e non sulla trave. Però i problemi che già ci sono non devono impedire che ne vengano affrontati anche altri. Cercare di evitarne di nuovi può aiutare a chiarire anche le divisioni che già ci sono. Inteso così, l’intervento di monsignor Morandi potrebbe essere l’inizio di un chiarimento su più ampia scala, ben oltre il punto in questione.
Torniamo alle divisioni partitiche che potrebbero riverberarsi dentro la Chiesa. Queste assumono una più grave fisionomia se le persone interessate dalle nuove disposizioni vescovili operano in partiti impegnati in politiche contrarie ai “principi non negoziabili”, ossia contro quelle verità di ragione e di fede senza il cui rispetto l’azione politica non può essere ordinata all’uomo e a Dio.
Ipotizziamo un catechista che milita in un partito impegnato per avere una legge sul suicidio assistito, o che si batta per ampliare il diritto all’aborto. In questi casi il riverbero dentro la Chiesa corromperebbe l’unità della fede e dividerebbe i fedeli tra loro, seminando dubbi ed errori. Non si tratterebbe più del solo cattivo gusto di distribuire volantini col proprio nome magari davanti alla Chiesa in cui si fa il lettore, ma di una rottura della continuità tra fede e politica. Se letto in questa luce, l’intervento del vescovo Morandi sarebbe diretto a proteggere l’unità della sua Chiesa particolare, garantendone l’integrità nella fede e ricostruendo l’esigenza della coerenza.
Di dubbi nella Chiesa di oggi se ne seminano fin troppi, non c’è bisogno che la incoerenza di alcuni cattolici noti per le loro mansioni o ministeri ecclesiali, ne spargano degli altri. Ribadire la necessità della coerenza è una esigenza importante posta dal documento Morandi, in un momento in cui nella Chiesa, per la fretta di “uscire”, si dice che è possibile collaborare con tutti e il tema dell’inclusione sembra avere carattere assoluto.
Qualcuno ha affermato che in questo modo il vescovo di Reggio ha come tirato indietro la Chiesa locale rispetto alla politica. È evidente che così non è per tutte le cose dette sopra. Sarebbe però forse utile che prossimamente monsignor Morandi desse il via nella sua diocesi ad una vera formazione dei laici alla politica alla luce del corretto rapporto tra i piani segnalato dal suo documento e di una non deformata Dottrina sociale della Chiesa. Oltre a fare una cosa ottima in sé, dissolverebbe ogni dubbio sulle accuse di ritiro della Chiesa di San Prospero dalle proprie responsabilità per il bene comune.
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