13 Febbraio 2022 Pubblicato da Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, riceviamo, e ben volentieri pubblichiamo questa riflessione di don Nicola Bux sul processo di beatificazione di mons. Tonino Bello. Buona lettura, e condivisione.
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Perché tanta fretta di beatificare Tonino Bello?
Un libro a più mani, fresco di stampa Don Tonino. Il santo col grembiule, La Repubblica 2022, non corrisponde all’immagine normalizzata che di lui si cerca di accreditare nella Chiesa istituzionale odierna. Se è vero che i testimoni de visu abbiano evidenziato di don Tonino Bello la sua passione per il Vangelo, l’anelito per la pace, l’attenzione agli ultimi e ai più poveri, purtroppo dagli scritti non emerge quella per il Dogma e per la Liturgia…: caso serio per un vescovo.
E’ noto anche che molti archivi, a cominciare da quello del medesimo Servo di Dio custodito presso la casa del fratello Marcello ad Alessano, risultano ancora o non ordinati ovvero inaccessibili, dato il tempo relativamente breve trascorso dalla sua morte. E allora, perché tutta questa fretta per beatificarlo? Perché non completare riordino ed analisi di quei molti archivi? Inoltre, nessuna importanza hanno le sbobinature di interventi di d.Tonino, a cui attingono non poche pubblicazioni in giro? Ve ne potrebbero essere di compromettenti… come quella di Assisi 1992 in cui Bello parla entusiasta dello spirito che erompe dalle viscere della terra e scavalca le religioni pietrificate… Temo che pur di giungere alla beatificazione, i testi di quelle sbobinature siano stati sottovalutati… C’è un video su Youtube che riporta quel discorso e che ho citato nel mio libro (N.Bux con V.Palmiotti, Salute o salvezza. La Chiesa al bivio, Fede & Cultura, Verona 2021, p.30, n 33). E’ noto anche l’episodio che il Bello abbia mandato un’Ostia consacrata in Argentina, sia pure tramite un sacerdote: speriamo che la beatificazione non implichi anche lo sdoganamento del trasporto intercontinentale di Ostie consacrate…
La beatificazione è un’operazione “politica” tesa a veicolare o imporre a tutti i costi Bello come modello per i Pastori presenti e futuri? Sarebbero gravemente responsabili, per aver presentato ai fedeli una figura che non è stata, in quanto vescovo, maestro di fede. Anche nella Congregazione per le Cause dei Santi, ci sono quelli che lo sanno ma, per timore, non lo dicono a chi se n’è fatto complice: è accaduto con altre cause. Anche questo ha a che fare con la corruzione che lambisce il vertice della Chiesa persino nelle cose più sacre. Ma, quanto avviene nel segreto, verrà proclamato dai tetti.
Il vescovo è per antonomasia maestro di fede. Cos’è la fede: il riconoscimento di Gesù Cristo come il Figlio di Dio: un vescovo Lui deve insegnare, con Lui deve santificare, a Lui deve guidare tutti, a cominciare dai poveri. Chi è il povero? Colui che non fa sfoggio delle sue prestazioni davanti a Dio e non pretende di essere adeguatamente ricompensato. Sa di essere anche interiormente povero, non ha mani che afferrano e tengono stretto. Perciò Matteo parla di poveri in spirito. La povertà non è mai un fenomeno puramente materiale. La povertà puramente materiale non salva. Il cuore delle persone che non posseggono niente può essere indurito, avvelenato, malvagio, colmo all’interno di avidità di possesso. Il vero povero ripone in Dio la sua speranza e non in altri e nelle cose del mondo. Senza dire che i poveri li avremo sempre con noi, perchè la povertà è conseguenza del peccato originale e una prova per verificare se rimaniamo fermi in Lui. Per questo, il povero per eccellenza è Gesù, che venne senza beni materiali ma, soprattutto, senza il peccato che è la presunzione dell’uomo. Perciò poté svelare che Dio è Padre e così evangelizzare i poveri: cioè annunciare il lieto messaggio che Dio c’è. I suoi discepoli erano i poveri. L’evangelizzazione, effettuata in primis da parte del vescovo, rende ricchi i poveri di questa rivelazione di Dio Padre che manda il Figlio a salvarli dal peccato e li riempie della luce ineffabile dello Spirito Santo che è ‘eterna carità’. Questo manca nel libro di Repubblica.
Poi, la carità di Cristo chiede ai cristiani di seguire “l’ordine della carità”, amando di più coloro che hanno maggiore bisogno: i miseri, coloro che non hanno il necessario, i poveri, che hanno il puro necessario con alcune limitazioni, i perseguitati, i maltrattati, gli oppressi, i dimenticati, gli emarginati dalla società. Questa la graduatoria che seguiva il celebre card.Siri. Senza la carità, intesa dall’Apostolo come la vita stessa di Dio, la sua grazia, si possono dare tutte le proprie sostanze ai poveri, ma non serve a nulla; si fa solo sociologia. Non ci occuperemo dunque dei bisogni materiali del povero: mangiare, bere, dormire, lavorare...? Certo, ma per attrarli alla carità di Dio, non alla generosità nostra. Altrimenti, non salviamo i poveri dal non-senso dell’esistenza. Il povero ha un’anima e ha diritto anche lui di arrivare a Colui che l’ha creato, arrivare al Cielo. A meno che non gli promettiamo un paradiso sulla terra, come hanno fatto i tanti messianismi ideologici. Così, il cristiano è povero per definizione, perché non è posseduto dal mondo, non possiede il mondo e non lo “serve dal basso” (cfr D.Tonino. Il santo… p.75) ma dall’Alto.
Un vescovo deve unire i suoi fedeli al trionfo pasquale di Cristo sul male e sulla morte, affinché un giorno andiamo incontro a Lui, nel regno dei beati. Così, trasformati a Sua immagine, noi vedremo il suo volto e sarà gioia piena…Questo mi aspetto che un vescovo annunci. Come Paolo, che ringrazia i cristiani di Salonicco per aver accolto la parola divina, non come parola umana, perchè è quella che opera in chi crede. E’ il Vangelo che, nonostante le tribolazioni del mondo, converte a Dio, allontana dagli idoli, fa servire il Dio vivo e vero, in attesa di Cristo che ci libera dall’ira ventura. Un vescovo non cerca di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori (come in questo tempo di contagio). Ci dobbiamo comportare in maniera degna, dice l’Apostolo, di quel Dio che ci chiama al suo regno e alla sua gloria. Ci convertiamo dunque per servire al Dio vivo e attendere dai cieli il Suo Figlio risorto dai morti che ci libera dall’ira futura.
In Bello manca la vita eterna, è piegato tutto sul mondo. Se un cristiano, un vescovo non ha chiaro questo, sarà pure un grande eroe, sarà pure come Salvemini un santo laico (Ivi, p 63), ma non un laico santo; tanto meno un santino – stia sicuro Vendola – perché li avrà portati solo in “un grande prato verde dove nascono speranze…”, in un mondo che non esiste, mi ha detto un amico evocando la canzone di Morandi, dopo aver saputo del libro di Repubblica su Bello. Questa esigenza dei laici di non far diventare Bello un santino (Ivi, p. 111) serve a costruire qualcosa che a loro manca, inventando l’ossimoro della “Messa laica” (cosa di più dissacrante?): a causa purtroppo dell’ambiguità di Bello, che dipende dal non conoscere che il santo è ‘sanctus’, cioè separato dal mondo. Così, si arriva a sostenere che un uomo di Dio dà una lezione di laicità al mondo (Ivi, p.119): che vuol dire? Che è guidato dallo Spirito Santo? Ma allora dovrebbe convincere il mondo, riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio (Gv 16,8), in una parola, che il mondo non crede in Cristo. Altrimenti nessuno potrà spiegare perché al mondo non c’è fraternità, uguaglianza e libertà. La risposta a questo ‘perché’ è il peccato, che dall’origine causa la condizione miseranda del mondo: questa è “l’angolazione giusta” per leggere e capire ciò che accade.
Dove sono oggi quegli “eserciti di domani” previsti da d.Tonino a Serajevo (Ivi, p. 127)? Dov’è oggi la “convivialità delle differenze tra russi e ucraini? Visto che si grida: Pace, pace, e pace non c’è (Ger 6,14). D.Tonino si scandalizzava della guerra, perché aveva dimenticato che la guerra c’è finchè c’è il peccato: per questo Cristo è venuto a prendere su di sé il peccato. Se da vescovo avesse precisato questo, sarebbe stato davvero ‘profeta di pace’. I Sentieri di Isaia o portano alla pace che è il Messia, convertendosi a Lui, o alla utopia scambiata per profezia, come Bello medesimo constaterebbe se tornasse oggi. Ma anche le profezie scompariranno (1 Cor 13,8); e i presunti profeti, o meglio utopisti, sono scomparsi come il verde Alexander Langer, accostato a Bello (Ivi, p. 134), morto suicida impiccato a un albero. Quale profezia era quella di Bello? Avrebbe dovuto promuovere il Vangelo nella sua interezza, dalla fede in Dio Padre alla vita eterna: l’unica profezia, realizzata, degna di questo nome, catechizzando il popolo in modo da portarlo alla vita buona del Vangelo. Si comprende lo sconforto, la stanchezza e il dubbio che lo assalivano al ritorno da Serajevo: “Attecchirà davvero la semente della non violenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? E’ possibile cambiare il mondo con i gesti semplici dei disarmati?” (Ivi, p 143): domande destinate a rimanere senza risposta, senza la domanda maggiore: perché l’uomo fa sempre guerra? L’uomo non conosce la via della pace (Rm 3:10-17), pensa sia l’assenza di conflitti, ma questa non è la vera pace. Infatti Gesù riferendosi alla pace umana dice “non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada” (Mt 10:34). La nostra battaglia, dice san Paolo, non è contro le creature umane, contro gli spiriti del male che dominano il mondo (Ef 6,12). Gli uomini che fanno la guerra, sono vittime del maligno. Quindi, all’origine della guerra c’è il peccato. Per ristabilire l’ordine e la pace, non serve la “non-violenza”, ma la lotta contro il peccato e il maligno. Nel cuore dell’uomo non risiede la vera pace, ma l’illusione della pace. Costruire la pace è tutt’altra cosa dall’essere non violenti, perché non c’è pace senza disarmo del cuore, e ciò avviene con la conversione. Qui la grande differenza tra Ghandi e Cristo. Per fare la pace bisogna lasciarsi riconciliare con Dio. Qui un vescovo deve porsi la domanda centrale: “ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio” (J.Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano-Milano 2007, p 67). Così Gesù ha cambiato il mondo non solo una volta per tutte, ma lo cambia ogni volta che incontra il mondo intimo dell’uomo. Perciò Egli ha promesso di essere con noi fino alla fine del mondo. La Chiesa sa che solo dove si porta Cristo, arriva la pace. Ma Bello non ci ha pensato.
Poi, se la fede cristiana entrasse in comunione con le culture e poi le trascendesse, come pensava d.Tonino (Ivi, p. 64), ma non diventasse essa stessa cultura, sarebbe una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta, come disse Giovanni Paolo II. Invece Bello voleva che la Chiesa si adattasse al gusto moderno che amerebbe a suo dire forme più semplici (Ivi, p.34): ma questa è la “riduzione emotiva della fede”, diceva mons. Negri: “oggi la Chiesa nel mondo sembra essere diventata un’erogatrice di sentimenti, di emozioni. Non abbiamo più il coraggio della verità”.
Il libro di Repubblica si apre con la politica come arte di costruire il futuro, secondo Bello; questo è il contrario del “non preoccupatevi del domani…, a ogni giorno basta la sua pena!” (Mt 6,34). Egli postulava il rispetto della diversità delle scelte politiche dei credenti: ma così, si dovrebbe ammettere anche l’opzione di un cattolico per il fascismo o per il comunismo. Non siamo al relativismo? Mancando poi in Bello l’appello alla conversione, aprire il libro col discorso ai politici, induce quasi a intenderla come la cifra sotto cui comprendere la sua azione. Così si finisce per confondere fede e politica (Ivi, p. 85) perché si ignora l’ordine di Cristo di non dare a Cesare ciò che si deve a Dio. Poi, la citazione di Bello “La Chiesa è per il mondo non per se stessa” (Ivi, p. 56), ha bisogno di un’aggiunta: per salvarlo, ma per questo bisogna prima convertirsi, almeno secondo il Vangelo. Per esempio: se il Vangelo è incompatibile con le mafie (p. 57), non lo è con i mafiosi, perché sono peccatori come tutti, e Dio li chiama a convertirsi, come tanti altri: la mafia è soprattutto peccato, non solo illegalità, e chiede conversione. Don Ciotti non ne parla mai, pur essendo, come prete, ministro di riconciliazione.
Si può concedere ai “laici devoti” come Franco Cassano, l’eresia del Padre che apprende dal Figlio (Ivi, p. 149), basata sulla lettura eterodossa che Bello fa della Trinità come “convivialità delle differenze”: ma non si può far diventare la lavanda dei piedi fatta da Cristo una sottomissione al mondo. Poi, commentando la concezione del potere in don Tonino: “Questo è il soprannaturale, tutto il resto è coreografia” (Ivi, p. 152) – perché egli voleva un soprannaturale comprensibile agli uomini non una Chiesa dei miracoli – allora si comprende il discepolato di chi, come Vendola,, ammette di non avere competenza o fede sufficiente per capire cosa siano i miracoli (Ivi, p. 49). Il punto è che Bello – vescovo nel periodo in cui, come scriveva Ratzinger nel best-seller Rapporto sulla fede, era in crisi l’idea di Chiesa – parla di Chiesa serva del mondo, proprio come la vedono i laicisti. Eppure, proprio il prof. Cassano, riecheggiando Chesterton, scrive che la Chiesa non deve gravitare attorno al mondo ma con la fede muovere il mondo (Ivi, p. 154).
Dunque, un vescovo del Sud, deve far guardare a Est, donde sorge Cristo, l’Oriente che salva: non è altro dalla missione essenziale della Chiesa cattolica, che non è chiamata a realizzare il Paradiso in terra – sarebbe una Chiesa utopista – ma ad essere sacramento, cioè segno e strumento di salvezza per tutti popoli, come insegna il concilio Vaticano II.
La Chiesa stessa è il soggetto della liberazione. L’esperienza cristiana è un incontro, un avvenimento, una testimonianza. Cristo si rivolgeva agli ultimi, agli oppressi perché costituivano la Chiesa, destinata alla persecuzione proprio come Lui. Se d.Bello, come il venerabile don Ambrogio Grittani, della stessa Molfetta, avesse portato i poveri all’altare, questi avrebbero incontrato Cristo e trovato non un ristoro temporaneo ma eterno. Così, le sue virtù sarebbero diventate davvero eroiche.
Ho conosciuto di persona d.Tonino e certe cose gliele dissi, ma non sapeva cosa rispondere: a causa della sua utopia (eterodossia hanno scritto su un blog). Ciò che, dell’“ecumenismo” di d.Tonino scrive il curatore del libro di Repubblica, non ha a che fare con p.Pio, che invece ammoniva i peccatori, né con madre Teresa, che diceva che la vera povertà è la non conoscenza di Dio; e così le sue suore e i cattolici indiani sono perseguitati. Quanto alla carità poi: tutti i santi della carità, maxime Vincenzo de Paoli, non chiedevano la “carta d’identità” (non conosco santi che lo facessero), ma col loro operare attiravano a Cristo, mentre Bello attirava a se stesso (N.Bux con V.Palmiotti, Ivi, p.25). Poco importa se al funerale, come scrive il curatore, c’erano 15mila persone, o 50mila come invece ritiene la Causa per la canonizzazione.
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