di Sandro Magister
24 feb 22
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Erano ventuno i cristiani decapitati in quanto “popolo della croce” dai musulmani dello Stato Islamico giusto sette anni fa, a metà febbraio del 2015, sulla spiaggia libica di Wilayat Tarabulus, poco a ovest di Sirte. Erano venti copti d’Egitto, più un loro compagno del Ghana.
Poche settimane dopo l’eccidio, il “papa” dei copti Tawadros II li canonizzò come martiri. Ma poco o nulla si sapeva di questi ventuno prima che uno scrittore tedesco di fama, Martin Mosebach, si avventurasse nei loro villaggi a ricostruirne la storia e a consegnarla in un libro, avvincente come un romanzo, che in questi giorni vede la luce nella sua traduzione italiana, edita da Cantagalli, intitolata appunto: “I 21. Viaggio nella terra dei martiri copti”.
Il martirio dei ventuno fu immortalato in un video prodotto e diffuso dei loro stessi uccisori, in dichiarata sfida a Roma come simbolo dell’occidente cristiano. Ma per le famiglie e il popolo degli uccisi quel video si è capovolto in fonte di gioia e di fede. Prima d’essere decapitati, sulle bocche dei ventuno è stato tutto un mormorio di “Jarap Jesoa!”, di invocazioni al Signore Gesù, come negli atti dei martiri dei primi secoli, in una Chiesa d’Egitto che ha sempre contato i suoi anni a partire dalle persecuzioni di Diocleziano e continua tuttora a chiamarsi “la Chiesa dei martiri”, quasi ininterrottamente oppressa da bizantini, persiani, arabi, fatimidi, mamelucchi, ottomani, fino agli odierni regimi militari, ai Fratelli Musulmani e ai loro fanatici imitatori.
I ventuno sono quasi tutti dell’Alto Egitto, dei villaggi agricoli attorno alla città di Samalut e sotto la rocca di Gebel El-Teir, sulla sponda orientale del Nilo, con l’antico santuario che ricorda una tappa della fuga in Egitto di Gesù, Maria e Giuseppe. A El-Or il presidente egiziano Al-Sisi ha finanziato la costruzione di una grande chiesa in onore dei martiri, con le loro reliquie. Ma la vita dei copti, in Egitto, nonostante siano molto più numerosi di quanto dicano le statistiche ufficiali, continua ad essere sotto severa minaccia. Martin Mosebach, nel corso della sua inchiesta, è rimasto stupito dalle fortificazioni erette a difesa delle sedi vescovili con le loro cattedrali, le scuole, gli uffici.
Ma nonostante tutte le ostilità, Mosebach ha anche registrato una stupefacente ripresa di vitalità della Chiesa copta, con i suoi monasteri nel deserto, ciascuno con centinaia di monaci, molti dei quali di giovane età.
La santità “normale” dei ventuno martiri – come descritta nelle pagine del libro riprodotte qui sotto – è un’attestazione di questa fede viva e diffusa.
Con la loro fede indomita, nei quarantuno giorni di prigionia prima dell’esecuzione, i ventuno non solo non hanno abbracciato l’islam ma hanno convertito alla fede cristiana uno dei loro carcerieri, poi messosi in salvo con la fuga, non prima di aver confidato per telefono la sua conversione ai familiari di un prigioniero.
Al termine della sua inchiesta, Mosebach si chiede se i cristiani copti, forti di ininterrotti secoli di martirio, non accendano una speranza anche per le sfibrate Chiese d’Occidente, arrivate oggi, dopo i passati splendori, “proprio laddove la Chiesa copta ha perseverato con pazienza”, fino a rifiorire in mezzo a tante avversità.
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UNA SANTITÀ “ASSOLUTAMENTE NORMALE”
(Dal capitolo: “Presso le famiglie dei martiri”)
Sedici dei ventuno martiri avevano abitato a El-Or in un vicolo, gli uni accanto agli altri. Nelle case era appesa un’immagine del figlio ucciso, con una corona e in bianca veste diaconale. Nessuna casa era avvolta dalla tristezza, condoglianze e commiserazioni erano fuori posto. […]
Il martirologio ufficiale dell’archidiocesi, in ragione dello scarso materiale biografico, era assai stringato nel descrivere le personalità dei singoli martiri. […] Ma dopo la mia visita a El-Or e ai villaggi vicini, ho capito che il cronista vescovile aveva semplicemente messo per iscritto ciò che gli era stato riferito. Anch’io non ho udito nient’altro che quanto udito da lui.
La vedova di Tawadros, che con i suoi 46 anni era il più anziano dei martiri, una donna che da sola doveva ora allevare i loro tre figli, mi diceva di suo marito: “Era onesto e semplice”. La vergine Maria avrebbe detto qualcosa di diverso di san Giuseppe? Il parroco che era con me aggiunse: “Questi erano giovani normali, assolutamente normali. Mai avrei pensato che un giorno potessero diventare santi!”. Ma se questi fossero stati giovani normali, si sarebbe trattato in ogni caso di una normalità assai elevata. La vedova di Tawadros aveva saputo che in Libia gli era stato raccomandato di cambiare il suo nome cristiano, perché questo gli poteva attirare rabbia. La sua risposta era stata: “Chi incomincia a cambiare il proprio nome, alla fine cambia anche la propria fede”.
La vedova di Magued, che con i suoi 41 anni era il secondo più anziano dei ventuno, un contadino robusto con fronte bassa e capelli folti, mi disse al momento del congedo e con imbarazzo, come se questa confessione le costasse: “Voleva che noi tutti fossimo angeli”.
La giovane vedova di Samuel, di 28 anni, il maggiore dei due fratelli, mi mostrò in primo luogo una foto di famiglia in posa, in cui stava con il marito e i tre figli sullo sfondo di un futuristico orizzonte. Poi aggiunse che, dalla Libia, suo marito si preoccupava che la famiglia pregasse; ad ogni chiamata questa era la sua ultima domanda.
Il ventiseienne Milad non rinunciava ai suoi digiuni pur con il suo pesante lavoro agricolo e contro il consiglio del parroco, al quale rispondeva: “L’uomo non vive di solo pane”. Così mi raccontava la sua vedova, quasi ancora una fanciulla, vestita a lutto. Dalla Libia le è stata riconsegnata la Bibbia che lui portava sempre con sé nella borsa. Lei non è capace di leggerla, e custodisce questo tesoro per i figli.
Il ventitreenne Girgis, il maggiore dei due fratelli, fidanzato da poco con sua cugina, rimaneva spesso a pregare, per due ore, nella sua camera, e suo padre mi indicava la porta chiusa, sulla quale erano erano attaccate immagini sante colorate, come se dentro vi fosse ancora suo figlio.
La giovane vedova del ventottenne Luka – che non ha mai potuto vedere sua figlia – si ricordava che sapeva leggere nei pensieri, anche nei suoi: “Mi aveva sempre inviato denaro, prima ancora che potessi dire che mi serviva qualcosa”. Dopo la visita presso di loro, venni a sapere che le giovani vedove che conobbi mai si sarebbero risposate, sarebbero rimaste da sole perché sposate con un martire.
La madre di Bishoy e di suo fratello più giovane Samuel, una piccola donna indebolita, teneva in mano un’immagine di quest’ultimo in cui appariva con grandi occhi da icona e il volto sereno. Egli aveva sempre detto: “Io sono il figlio del Re”. A dodici anni una pietra, dal terzo piano, lo aveva colpito in testa. “Mentre si trovava in terapia intensiva gli apparve la Santa Vergine che gli disse: ‘Non temere’, e subito si ritrovò guarito”.
Nella casa del ventitreenne Mina è conservato un oggetto da lui costruito: il modellino di una chiesa copta, grande quanto una gabbia per uccelli, con piccole torri a cupola e finestre ad arco, illuminata all’interno da lampadine dai colori luccicanti. Mentre la stava costruendo, mi disse la madre, Mina era stato preservato da una grave lesione: “La sega circolare scivolò ed era già sulla sua mano quando, improvvisamente, s’inceppò il movimento”. […]
Solamente la madre di Kiryollos, che aveva avuto altri cinque figli, non seppe riferirmi nulla sul figlio. Un’atmosfera serena dominava nella sua casa, un giovane zio, che era prete, disse: “Egli semplicemente ha vissuto giorno per giorno”. Era questo ciò che sulla faccia del martire io stesso credevo di aver colto nel video dell’esecuzione, lo sguardo perduto, la leggera assenza, un sognare ad occhi aperti? Anche dopo la decapitazione il suo volto conservò questa espressione. Mi venne in mente quel passo dell’Apocalisse: “Poi vidi le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù. Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni” (20, 4-6). […]
Il padre di Malak, un contadino grosso, allegro, nella notte dopo l’uccisione riferì di aver assistito a questo fenomeno: nel cielo scuro era apparsa una intensa luce bianca, “come da un cannone laser”. Lui e i vicini l’avevano vista ancor prima che giungesse la notizia della morte dei loro figli. “Noi non sapevamo come stessero, ma quando vedemmo la luce, allora fu chiaro: o erano stati liberati o erano morti”.
E dopo il massacro, i miracoli non cessarono. […] Trovò così conferma tra le famiglie, ma anche tra i vicini e un vasto numero di persone in tutto il paese, il fatto che i martiri fossero realmente giunti a Cristo. Durante i quarantuno giorni della loro prigionia, ci si era tormentati senza notizie e rassegnati al peggio. Tuttavia, quando videro il video diffuso dagli uccisori e ne ebbero certezza, allora ritornò la fiducia: “Noi oggi abbiamo un santo martire in Cielo: dobbiamo rallegrarci e nulla può più colpirci”.
Fu questa la ragione per cui il video venne accolto con assoluta naturalezza. In ogni famiglia vi era un iPad sul quale si poteva vederlo in tutta la sua lunghezza, senza adattamenti pietosi e senza tagli; circondati da bambini col naso che colava, in ambienti che erano abbelliti da fotografie degli incoronati, con una capra sulla porta e il vitello nella stanza accanto.
In tanti colloqui non ho mai sentito una sola volta la richiesta di ritorsione o di vendetta o, almeno, di punizione degli assassini. Era come se non ci si volesse occupare degli assassini, poiché lo splendore dei martiri li oscurava. Quel che contava per i loro figli era questo: avevano “combattuto la buona battaglia, finita la corsa, conservata la fede” (2Tm 4,7), come scrive l’apostolo Paolo.
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L’inchiesta di Martin Mosebach sui ventuno martiri della Chiesa copta ha la prefazione del cardinale Robert Sarah, sull’autentico significato del martirio cristiano, tutto diverso da quello in uso nel mondo musulmano.
Il libro fa parte di una collana delle Edizioni Cantagalli dedicata all’insigne filosofo tedesco Robert Spaemann (1927-2018) e diretta da Leonardo Allodi, professore di sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna. Del comitato scientifico della collana fanno parte, tra gli altri, il cardinale Camillo Ruini, Rémi Brague, Sergio Belardinelli, Carlo Galli, Vittorio Possenti, Gabriella Cotta e lo stesso Mosebach.
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