Di Silvio Brachetta, 1 giugno 2021
Per evitare con ogni mezzo possibile errori e ambiguità, i pontefici delegano la redazione delle encicliche a un qualche personaggio noto per la purezza della dottrina, per l’erudizione, per la capacità di scrivere e per la lungimiranza con cui esamina le questioni. Quando il lavoro è completo, di solito il pontefice supervisiona il tutto, corregge o integra di suo, per via del suo ministero peculiare di confermare nella fede.
Questo modo di procedere non deve sembrare un qualcosa di simile all’infrazione del diritto d’autore o della proprietà intellettuale, perché c’è di mezzo la verità rivelata. In questo caso è umile quel pontefice che si fa aiutare e che non presume di conoscere tutto e sono umili i redattori coinvolti nella stesura dell’enciclica, che rinunciano a vedere il loro nome stampato su carta, riconoscendo l’autorità pontificia superiore alla loro.
La Rerum novarum fu così redatta, per incarico di Leone XIII, da due teologi: il gesuita Matteo Liberatore (1810-1892) e il cardinale domenicano Tommaso Maria Zigliara (1833-1893). Liberatore, in particolare, è un grande nome per la teologia. Rilanciò la Scolastica e, in particolare, il pensiero di san Tommaso d’Aquino (neoscolastica o neotomismo). Quanto alle filosofie moderne, fu critico dell’idealismo, del razionalismo e dell’ontologismo, come pure del liberalismo politico e filosofico.
Determinante anche il contributo di Zigliara, più orientato a contrastare la dottrina e la prassi del socialismo nascente. La sua opera intellettuale è legata soprattutto alla diffusione del pensiero e degli scritti dell’Aquinate. Ma la fatica maggiore di Zigliara fu la Summa Philosophica, ancora ristampata e in uso nei seminari. Due sapienti, dunque, che non potevano non biasimare la «rerum novarum semel excitata cupidine» («l’ardente brama di novità») del mondo in cui vissero – che ritroviamo descritta nell’incipit dell’enciclica leonina.
Perché l’oggetto dell’enciclica è sì la questione operaia, ma la questione operaia causata dalla «cupido», dalla cupidigia umana, dalla brama di cose nuove, che possono essere i soldi, le tecnologie, i diritti a tutti i costi, i piaceri, l’abbondanza, l’egualitarismo socialista, la libertà anarcoide dei liberali e cose simili. Leone XIII e gli spiriti più illuminati del XIX secolo si accorsero immediatamente del baratro nel quale il mondo stava precipitando.
Si tratta della moderna adorazione di Cupido, di Eros, nel senso del dio dell’amore. Non dell’amore sacro, della caritas virtuosa, ma dell’amore erotico, egoista, vizioso, fonte di piacere e di appagamento personale. Il sostantivo latino «cupido» significa una serie di concetti, tutti legati tra loro dal vizio: avidità, avarizia, concupiscenza carnale, passione sessuale, smania, voglia, brama, lussuria. La questione operaia è, principalmente, una questione di soldi – troppi per il capitale, pochi per l’operaio – e, tuttavia, c’è un fondamento comune che lega il possesso dei soldi ad altri piaceri. Questo fondamento è nel cuore dell’uomo, dove si verifica una mortificazione della ragione e una morbosità smisurata verso la volontà, che diventa il centro della mens (dell’anima) e che si mette a dirigere ciecamente ogni appetito o azione umana.
La Rerum novarum si schiera immediatamente a favore dei proletari, ma non per una ‘scelta preferenziale verso i poveri’, di cui nell’enciclica non c’è traccia, ma per una scelta preferenziale verso la giustizia. Nel confronto-scontro tra capitalismo e proletariato, quest’ultimo ha la peggio, poiché più debole e non difeso a sufficienza nel corso dell’Ottocento. La questione, quindi, si «deve» risolvere – afferma Leone XIII – «secondo giustizia ed equità».
Il Papa intende difendere gli operai dall’ingiustizia di chi li ha ridotti «in assai misere condizioni, indegne dell’uomo», e in una situazione «poco meno che servile». Il male da combattere è la «cupidigia» di «ingordi speculatori», anche nella forma dell’«usura divoratrice», che trasforma il proletario in uno schiavo. Ma l’equità e la giustizia non possono essere ripristinati né attraverso l’odio di classe (padroni contro operai), né attraverso la rivoluzione (operai che rovesciano i padroni), né attraverso l’abolizione della proprietà privata (comunismo). Si rigetta, da subito, la soluzione socialista e il progresso inteso come rivoluzione del creato. Qua si sente l’impronta che Zigliara ha dato al testo.
La proprietà privata – sempre secondo Leone XIII – è retta da un «vero e perfetto diritto». Proprio perché il Papa è intenzionato a proteggere i proletari nella loro debolezza sociale, egli teme che essi siano privati del «necessario alla vita» e della «dovuta mercede», nel nome di un concetto debole di proprietà privata. E invece la proprietà privata è di «diritto naturale», poiché «conforme alla natura» umana, nonché è il «fine prossimo che si propone l’artigiano», per mezzo del suo lavoro.
Ora è chiaro che il comunismo non tiene conto della proprietà privata, mentre l’odio di classe e la rivoluzione socialista negherebbero la proprietà privata nella forma del capitale. Né il capitale, né – tantomeno – la giusta e dovuta mercede agli operai possono essere soggetti ad appropriazioni abusive. Infatti, «nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata». L’unica strada equa è la collaborazione tra le classi sociali, proprio per preservare la proprietà privata di tutti.
Leone XIII – nell’interpretare fedelmente la Dottrina sociale – non concede illusioni: esisteranno sempre le ineguaglianze sociali e la fatica del lavoro umano. La condizione umana va «sopportata» e le peculiarità di ogni singola persona vanno necessariamente a creare delle disparità sociali, in ordine alla ricchezza, alla capacità, all’intelligenza, all’iniziativa del singolo. L’errore è di considerare questa disparità una condanna: la Provvidenza, al contrario, fonda l’ordine sociale – suddiviso in una miriade di uffici diversi – proprio sulle diverse capacità degli individui.
Quanto al lavoro, la stessa Provvidenza, lo impose unito alla fatica in espiazione del peccato adamitico. La fatica e il dolore cesseranno solo al momento della morte. È, dunque, un’illusione – scrive il Papa – costruire o promettere una vita «tutta pace e diletto». L’unica strada per trasformare questo stato esistenziale da tragedia a via di salvezza è la «concordia», con la quale si recupera «la bellezza e l’ordine delle cose». E in cosa consiste la concordia tra le classi sociali? In questo: «né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale». Solo nella misura in cui si realizza questa cooperazione, la questione sociale è superata.
Non ci può essere, però, alcuna realizzazione della giustizia sociale senza la grazia. È un’illusione credere di poter creare una cooperazione permanente, se il cuore resta lontano da Dio. Il ruolo della religione è fondamentale. Per innalzare gli occhi dalle ricchezze mondane transitorie al vero tesoro celeste, è necessario Gesù Cristo, è necessaria la sua Chiesa.
Il fomite della concupiscenza, fonte del furto (in questo caso), si spegne solo in presenza della carità, cioè dell’amore tra fratelli. Vivere nella carità di Dio – spiega Leone XIII – significa che «all’eterna felicità non importa nulla» del fatto che «tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo». Importa, invece, «il buono o cattivo uso di quei beni». E questo vale tanto per il capitalista che per l’operaio.
Le ricchezze, dunque, così come la proprietà privata, non sono fini a se stesse, ma vanno usate e condivise con il prossimo, con il fine di realizzare un bene comune naturale e soprannaturale. Sempre secondo la nuova legge evangelica, così come il ricco non è tenuto a gloriarsi di ciò che ha, il povero non deve vergognarsi della propria indigenza. Quello, allora, che non può essere livellato per giustizia e vocazione (le distanze tra le classi), deve però essere appianato dalla carità, mediante la fraternità cristiana.
Dio non fa preferenze tra persone e il ricco gli è caro quanto il povero, ma desidera che sia abbassato «l’orgoglio dei fortunati» e tolto l’«avvilimento dei miseri».
Ogni settore della società – secondo la Dottrina sociale – è tenuto a fare tutto e solo quello per cui è stato posto in essere da Dio. Leone XIII distingue, nella Rerum novarum, l’opera dello stato, dall’opera della famiglia e da quella dei corpi intermedi (associazioni, corporazioni, ecc…). È tratteggiata la sussidiarietà, per cui il corpo sociale superiore aiuta l’inferiore, ferma restando l’iniziativa che il medesimo corpo è chiamato a intraprendere con le proprie forze e senza l’intromissione di poteri esterni.
Certamente lo Stato che, pur non essendo il corpo sociale primordiale e anteriore (ruolo che spetta alla famiglia) è però il più potente, dovrebbe garantire (per mezzo dei poteri propri) la difesa della proprietà privata, del lavoro, delle sue condizioni, del salario e del risparmio.
L’associazionismo – o il corporativismo – trovano un posto importante nell’enciclica, perché potrebbero costituire una cerniera tra capitalisti ed operai, in modo da favorire una collaborazione e una cooperazione. Come nel caso della famiglia, anche l’associazionismo è costitutivo della natura umana. Da sempre l’uomo si sposa, vive in società e provvede al più debole.
La Rerum Novarum prospetta quindi una soluzione alla crisi civile che fa capo all’ordine della giustizia, sorretta dalla grazia. L’ordine consiste nell’autonomia dei corpi sociali in collaborazione tra loro, ognuno nell’ambito che gli è specifico, dentro un orizzonte di reciproco sostegno, economico, materiale e morale.
La carità, in questo quadro, assume la posizione di «signora e regina di tutte le virtù», anche in quanto virtù teologale. In altre parole, «il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione». Non va dimenticato che la Chiesa stessa è una società (società perfetta), che vive e opera all’interno delle società e delle civiltà storiche.
Silvio Brachetta
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