giovedì 10 giugno 2021

Il Rito Romano di ieri e di domani: cosa abbiamo perso tra il 1948 e il 1962, e perché dobbiamo recuperarlo





In questo lunedì infra l’Ottava del Corpus Domini, vittima dei rimaneggiamenti liturgici di Pio XII, dal blog Messainlatino.it riprendiamo, nella traduzione di Carlo Schena, l’interessantissimo e valido saggio del dottor Peter Kwasniewski sulla liturgia romana e sulle riforme che progressivamente la depauperarono tra gli anni Cinquanta e Sessanta, aprendo la strada alla sua distruzione da parte di Paolo VI.




del Dott. Peter Kwasniewski
7 Giugno 2021 | Liturgia

Oggi, internet permette di accedere a una infinità di contenuti cattolico-tradizionali; ma un tempo, le strade con cui i fedeli potevano scoprire la tradizione erano abbastanza prevedibili. Facciamo un esempio: un giorno, una coppietta di sposi cattolici entra, quasi per sbaglio, in una chiesa, durante una Messa letta o cantata, e anche se i due non hanno idea di che cosa si tratti, decidono di rimanere. Il tutto gli sembra strano, sì, ma in qualche modo attraente. Allora decidono di tornarci una seconda volta. Gli viene spiegato che questa non è altro che “la Messa di una volta”. Qualche mese, e non hanno più alcun dubbio: “D’ora in poi, la nostra messa della domenica è questa”.
Pian piano, conoscono altri fedeli nella comunità della Messa Tradizionale, e un bel giorno qualcuno li invita ad un battesimo in rito antico. La cerimonia è sorprendente, non hanno mai visto niente del genere. Si incomincia in fondo alla chiesa con l’esorcismo del sale, dell’acqua e del bambino stesso. Poi, il bambino viene “reclamato” dalla Santissima Trinità, diviene membro della corte celeste. Tutto il rito è profondamente commovente, e, allo stesso tempo, estremamente serio. La nostra coppietta inizia a rendersi conto che non è solo il rito della Messa ad essere stato stravolto, ma anche quello del battesimo; e la benedizione dell’acqua santa; e, insomma, praticamente ogni rito con cui la Chiesa prega. Man mano che crescono nella fede, scoprono che alcuni cattolici dei “vecchi tempi” pregavano l’Ora di Prima e la Compieta (che nel Breviario sono un breve ufficio mattutino e l’ufficio notturno); così iniziano a farlo anche loro, quando il tempo glielo permette. Allora vengono a sapere che anche l’Ufficio Divino, o Breviario Romano – ribattezzato “Liturgia delle Ore” dopo il Concilio – subì cambiamenti massicci: ad esempio, l’ufficio di Prima venne abolito, l’intero ciclo dei salmi fu distribuito su un mese invece che su una settimana, e molti versetti dei salmi furono rimossi perché ritenuti dannosi per i cristiani d’oggi. In altre parole, scoprono pian piano come il culto pubblico della Chiesa cattolica, nella sua interezza, sia stato alterato, radicalmente alterato, tanto da non rimanere pietra su pietra – o, potremmo dire, lasciando quel poco di pietre come al muro del pianto del tempio di Gerusalemme, distrutto dai Romani.
Dopo qualche anno che frequentano assiduamente la Messa in Latino, i due ricevono una telefonata da alcuni amici di un’altra regione, che frequentano una parrocchia gestita dall’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote: “I riti della Settimana Santa quest’anno erano incredibili! Non abbiamo mai visto niente del genere!”. Mentre gli amici raccontano tutti i momenti che li hanno maggiormente colpiti, i due rimangono un po’ perplessi: erano convinti che fosse la loro parrocchia, dove si offre la Messa Tradizionale, a celebrare la “vecchia” Settimana Santa; eppure, quanto gli viene descritto non corrisponde a quello a cui si sono ormai abituati. E così, la nostra coppietta viene “promossa” a quella ristretta cerchia di cattolici consapevoli del fatto che alcuni grandi ritocchi della liturgia erano già in cantiere ben prima che a Roncalli venisse in mente la bella idea di un Concilio Vaticano II, e prima ancora che l’ombra di Montini si stagliasse sul soglio pontificio. Il Novus Ordo non emerse dal nulla, come un Mefistofele nel Faust di Goethe. Esso fu scrupolosamente preparato da decenni di utopismo accademico, di esperimenti ambiziosi e di prove sul campo. Il secondo dopoguerra fu un periodo irrequieto per la Chiesa, pieno di “esperti” smaniosi di modificare o abbandonare le vecchie forme liturgiche e di introdurne di nuove. Possiamo definire una finestra temporale abbastanza specifica, tra il 1948 – con l’istituzione da parte di Pio XII della c.d. Commissione Piana per la Riforma della Liturgia, presso cui Annibale Bugnini ottenne il suo primo incarico ufficiale in Vaticano – e il 1962 – quando Giovanni XXIII modificò il Canone Romano per la prima volta da oltre un millennio, e promulgò una edizione del Missale Romanum super-semplificatae accompagnata da un codice di rubriche totalmente nuovo. Di solito, papa Pio XII viene dipinto come un arci-conservatore: e sicuramente, sul fronte dottrinale, lo era; però, lasciò entrare nella Città di Dio quel cavallo di Troia di una Settimana Santa completamente ridisegnata, inaugurando la conquista modernista e conseguente devastazione del rito romano. La nostra coppietta, allora, decide di far visita agli amici, la Pasqua seguente, così da poter ammirare di persona il Rito Romano in tutto il suo splendore secolare.
Oggi però, grazie a quel grande “livellatore” che è internet, i nostri amici, forse, non avrebbero percorso un sentiero così lento e tortuoso per giungere alla loro “illuminazione”. Magari, sarebbero capitati sulle pagine di una Taylor Marshall e nel giro di poche settimane si sarebbero decisi a prendere la loro “pillola rossa”. Forse, finitagli sott’occhio la diretta streaming di una parrocchia gestita da un Istituto Tradizionale, sarebbero volati dal 1970 al 1570 in meno di 5 secondi. Una situazione del genere è positiva, ma allo stesso tempo problematica. È positiva nel senso che tutte queste informazioni non sono nascoste o difficili da trovare. È problematica in quanto i laici raramente hanno gli strumenti necessari per capire quello che vedono, perché viene fatto in quel modo (o perché viene fatto in modo diverso da qualcos’altro); e per destreggiarsi tra quelle domande spinose che inevitabilmente sorgono circa l’autorità del Papa, la fedeltà della Chiesa alla tradizione, il dovere di obbedienza (e sui suoi limiti), e così via.[1]
Oggi, voglio affrontare un argomento decisamente vasto: ciò che il rito romano ha perso tra il 1948 e il 1962, e perché recuperare oggi ciò che è stato perso in quel periodo dovrebbe essere una vera priorità. Per rimanere entro limiti ragionevoli, ci concentreremo sul rito della Messa (l’Ufficio Divino richiederebbe un discorso tutto a sé!). Più in particolare, analizzeremo la Domenica delle Palme, il Triduo pasquale, la Veglia di Pentecoste, il Corpus Domini e la festa dei Santi Innocenti, per finire con cinque aspetti generali di ogni Messa; poi ci porremo alcune questioni pratiche e canonistiche, vedendo anche quale tipo di autorizzazione sia necessaria per recuperare questi elementi perduti.

Feste Particolari o Tempi Liturgici



La Settimana Santa


I riti della Settimana Santa – con i loro magnifici canti gregoriani, profonde preghiere, un simbolismo denso e un cerimoniale elaborato – si sono sviluppati lungo un arco di tempo plurisecolare, a partire dall’antichità fino al Medioevo. Gli elementi centrali di tali riti derivavano dalla antica tradizione romana e dalla tradizione gallica (o franca). Questi due affluenti si unirono nel tardo Medioevo per dar forma a quel rito romano, ormai maturo, che sfociò nel Messale di S. Pio V del 1570. Esattamente come ogni altro rito liturgico cristiano di discendenza apostolica, il rito tridentino raggiunse uno stato di perfezione, una bellezza di forme e pienezza di contenuti tale da non permettere ulteriori miglioramenti sostanziali. Un esperto di musica ebbe a descrivere i Concerti per Pianoforte e Orchestra di Mozart come delle opere d’arte “oltre le quali non è possibile alcun progresso, perché la perfezione è imperfettibile”. Come per la Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo giunta a maturità, così per il Rito Romano Tradizionale: nulla di essenziale si doveva aggiungere o rimuovere; da quel momento innanzi, ogni cambiamento avrebbe riguardato soltanto questioni di dettaglio, come ad esempio il calendario liturgico.
Tragicamente, Pio XII si lasciò persuadere della necessità di una “revisione” della Settimana Santa, un tempo liturgico che non aveva conosciuto alcun cambiamento notevole per oltre 500 anni. Con la scusa di “ripristinare ai loro orari originali” le cerimonie del Triduo Sacro, tutta la Settimana Santa cadde sotto la lente della Commissione Piana – una sorta di prova generale per il futuro Consilium – e così la Domenica delle Palme, il Venerdì Santo e la Veglia Pasquale subirono modifiche di una magnitudine senza precedenti nella storia della Chiesa latina[2]. Nel 1951, Pio XII inaugurò una Veglia Pasquale sperimentale, e nel 1955 promulgò i nuovi riti liturgici per il resto della Settimana Santa. Per questo spesso si sente chiamare la vecchia Settimana Santa (cioè quella tridentina), la “Settimana Santa pre-1955”. Ricordo ancora distintamente la prima volta che ho partecipato a una intera Settimana Santa pre-1955. Mi aspettavo di esserne impressionato; ma ne sono rimasto stupefatto. Mi aspettavo di uscirne sbalordito; e mi ha lasciato folgorato, e al contempo stimolato.

La Domenica delle Palme

L’antica liturgia della Domenica delle Palme incomincia con la c.d. Missa Sicca (o “Messa secca”), che prevede una Epistola, un Graduale e un Vangelo, e poi un Prefazio che introduce la benedizione delle palme – tutto ciò, badate, prima ancora della processione con le palme, dell’ingresso in chiesa dopo aver bussato sulla porta con la croce astile, e dunque la Messa del giorno, con il canto della Passione secondo Matteo. La prima preghiera di benedizione dopo il Prefazio ha una sorprendente affinità con la Consacrazione Eucaristica:

Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, degnati di benedire ✠ e santificare ✠ questi germogli d’olivo, che facesti germinare dal legno e che la colomba al suo ritorno nell’arca portò nel becco; cosicché chiunque ne riceverà, ottenga protezione per l’anima e per il corpo; e questo sacramento della tua grazia divenga, o Signore, rimedio della nostra salute.

Questa preghiera è in qualche modo rappresentativa dell’intera liturgia della Domenica delle Palme.

Il Giovedì Santo


Nel Giovedì Santo pre-1955, una cosa che mi è apparsa subito abbastanza nuova era l’omissione della Lavanda dei Piedi (o Mandatum), una cerimonia che si è inserita nella Messa solo a metà del XX secolo, causando un profluvio di dibattiti e distrazioni. In realtà, la Lavanda veniva celebrata come una paraliturgia successiva alla Messa, al piano inferiore della chiesa, dove era stato allestito un altare temporaneo sormontato da candele. Dopo che gli altari del piano superiore erano stati spogliati dei sacri lini, a imitazione dell’umiliazione patita da Cristo durante la Passione, tutti scendevano al piano di sotto. Qui, tredici uomini si sedevano in fila (ricordo che un Sacerdote dell’Istituto Cristo Re spiegò, durante una predica, che questo numero derivava da una visione di Papa San Gregorio Magno). Il sacerdote, il diacono e il suddiacono entravano, insieme agli accoliti. La cerimonia iniziava con il canto solenne del Vangelo, dopo di che il sacerdote indossava un grembiule (o “gremiale”) e lavava i piedi ai tredici uomini mentre il coro eseguiva il canto Ubi caritas. Terminato, il sacerdote tornava all’altare, cantava un certo numero di versetti sacri, il Padre Nostro e infine una Colletta; dopodiché, fatto un inchino, tutti uscivano. Celebrare la Lavanda da sola e dopo la Messa le conferisce un posto e una dignità speciali; in questo modo, ci si può concentrare più direttamente su questa lezione di umiltà, la lezione del superiore che serve l’inferiore. Si accorda anche meglio all’idea che prima di tutto adoriamo Dio, per amor Suo, e poi, con la Sua grazia, andiamo nel mondo ad amare gli altri uomini, fatti a Sua immagine.

Il Venerdì Santo


Il Venerdì Santo pre-1955 si apre con il canto di due Letture e di due Tratti, che permettono ai fedeli di entrare lentamente e delicatamente all’interno dell’immenso mistero che si celebra in questo giorno. Poi il sacerdote, il diacono e il suddiacono cantano la Passione, in cui domina e conduce la melodia in tono basso, la voce di Cristo; poi il narratore, con i suoi interventi intermittenti e pragmatici; e infine quel tono acuto e inquietante di chi presta la voce a Pietro, a Pilato, ai Giudei, alla folla e a ogni altro personaggio losco. Finita la Passio, i lettori si separano e il diacono canta il Vangelo “proprio” del giorno in un tono speciale, che racconta la sepoltura di Cristo.
Dopo le c.d. Grandi Intercessioni (o Preghiera Universale), ha luogo la venerazione della Croce, che incomincia con una processione dei ministri che, scalzi, genuflettono tre volte nel percorso verso il presbiterio: la prima volta, all’estremità opposta della Chiesa; una seconda volta in mezzo alla navata; e un’ultima volta proprio davanti alla Croce, che giace su un cuscino, come un sovrano orientale adagiato sul suo sofà. Il canto degli Improperia e dell’inno Crux fidelis accompagna la lenta processione dei fedeli; ed è un bene anche per noi che questo bel rito richieda i suoi tempi: esso brucia come incenso prezioso il nostro “prezioso” tempo.
L’aspetto più strano della venerabile liturgia del Venerdì Santo è il modo in cui viene trattata la Santissima Eucaristia. Solo un’Ostia magna è rimasta dalla sera precedente. L’Ostia, velata, viene portata in processione sulle potenti note del Vexilla Regis. Il sacerdote incensa il Santissimo Sacramento e poi depone l’Ostia sul caporale; prepara il calice con il vino e con l’acqua; incensa le oblate e l’altare; si lava le mani; e dunque dice l’Orate Fratres: “Pregate, fratelli, affinché il mio sacrificio e il vostro siano accettabili per Dio Padre Onnipotente” – ma non riceve alcuna risposta. Canta la Preghiera del Signore nel tono feriale, fa cadere un frammento dell’Ostia nel vino non consacrato, eleva l’Ostia con una sola mano perché tutti La possano vedere e adorare, e poi La consuma recitando le consuete preghiere, che invece omette quando beve il vino dal calice.
I riti del Venerdì Santo simboleggiano i diversi momenti della Passione. Come Cristo venne catturato e condotto davanti al tribunale, così l’Ostia viene portata fuori dall’altare in cui era stata riposta; come Cristo venne innalzato sul Calvario, così l’Ostia viene sollevata in alto; e come Cristo fu deposto dalla croce e collocato nel sepolcro, così l’Ostia è consumata dal solo sacerdote. In modo quasi brusco, la liturgia si conclude con l’inchino del sacerdote verso l’altare e con la sua uscita silenziosa dal presbiterio. Per quanto la si cerchi, la Presenza Reale di Cristo nel Santissimo Sacramento non si trova più: né nella chiesa, né nel tabernacolo, né sull’altare e nemmeno nei fedeli: Lui se ne è andato. In questo momento, la desolazione del Venerdì Santo ha raggiunto il suo apice; il Figlio ha messo in atto la sua resa totale, e noi attendiamo la Risurrezione e il rinnovarsi del glorioso sacrificio della Messa. Solo il sacerdote riceve la Comunione; per tutti gli altri, al centro della scena è l’Adorazione della Croce. Gli accoliti, il diacono e il suddiacono, i fedeli, tutti loro comunicano al mistero della Croce: è Lei che “sostituisce” la Santa Comunione, al Venerdì Santo. Certo, incontriamo il mistero della Croce ogni volta che riceviamo l’Eucaristia; ma i veli del pane e del vino possono distrarci, in un certo senso, dalla nostra unione con la morte di Cristo. Una volta all’anno, il Venerdì Santo fa risaltare visibilmente la Croce: è la Croce il segno sacro che tocchiamo e baciamo[3]. Nella sua elaborazione medievale, codificata nel rito tridentino, il Venerdì Santo è l’unico giorno dell’anno in cui riviviamo realmente quella stessa desolazione vissuta dalla Vergine Maria e dagli apostoli; e qual modo migliore di far ciò avrebbe potuto trovare la Chiesa che privarci, in questo giorno, della comunione sacramentale? Colui che è morto ed è stato posto nella tomba è oggi separato da noi. Così, la liturgia concentra la nostra adorazione sulla Croce salutifera, con la quale Egli ha conquistato la nostra salvezza, e ci porta a pregare per i bisogni della Chiesa e del mondo intero.
La liturgia del Venerdì Santo è molto più simile a una Messa di quanto lo sia l’esaltata Actio Liturgica, con distribuzione della Santa Comunione, di Pio XII, o anche il suo successivo rimpiazzo nel Novus Ordo; tuttavia, ha il sapore di una Messa tragicamente incompleta, si potrebbe persino dire di una Messa “vuota”. All’inizio, le Letture e i lunghi Tratti sono intonati senza nulla che li preceda; alla fine, il sacerdote riceve in silenzio l’Ostia – e poi la liturgia si interrompe, quasi fosse stata decapitata, come una tragedia interrotta a metà dell’atto, senza dare agli attori il tempo di finire le loro battute, la trama lasciata in sospeso. Per quanto Gesù dica, nel Vangelo: “Tutto è compiuto”, la liturgia trasmette forte il sentimento che “tutto è incompiuto”. Questo mi sembra un meraviglioso paradosso tipicamente liturgico: proprio nel giorno che ci pone davanti all’evento storico con cui si è oggettivamente compiuta la nostra Redenzione, la stessa liturgia, attraverso cui ci uniamo soggettivamente a Cristo, si permette di avere il massimo carattere di incompletezza. Tutti i cambiamenti dagli anni ‘50 in poi hanno notevolmente minimizzato quanto sorprendentemente diversa dovesse essere la sensazione trasmessa da questo giorno, come rappresentazione vivente (“vivax repraesentatio”) di quel giorno in cui dal massimo disordine scaturì il ripristino dell’ordine infranto dal peccato di Adamo.
La Settimana Santa di Pio XII “sfoltisce” le Passioni secondo Matteo, Marco e Luca eliminando i racconti dell’Istituzione dell’Eucarestia. In questo modo, i resoconti sinottici di questo evento non ricorrono mai nell’anno liturgico del messale del 1962[4]. Se a questo aggiungiamo la radicale riprogettazione delle cerimonie del Venerdì Santo, che deliberatamente elimina o minimizza tutto quanto imita il rito della Messa, come può tutto ciò non esprimere un radicale divorzio tra l’Istituzione dell’Eucaristia e il Sacrificio della Croce?

La Veglia Pasquale

La Veglia Pasquale pre-1955 ha del sublime. Quelle del ‘55 e del ‘69 danno piuttosto l’impressione di una raccolta arbitraria di rituali. Nella Veglia Pasquale tridentina, questi rituali si fondono in un singolo atto di culto unitario, come un uomo che cammina, passo dopo passo, verso un determinato obiettivo. Potente ricapitolazione di tutti i misteri del cristianesimo, dall’intima natura di Dio alla rivelazione della Ss. Trinità, dall’incarnazione del Verbo alla Redenzione nel sangue e alla gloriosa Risurrezione, la Veglia antica ha in sé una maestà, una serie crescente di simboli che si mescolano ma non si confondono, che le orazioni, le letture e le cerimonie conducono avanti secondo un ritmo maestoso e piacevole: il fuoco, l’candela, la acqua, a cui si rivolgono parole cariche di potere, pronunciate con autorità. La Chiesa prende il comando dei rudimenti della creazione e, letteralmente, ordina loro di servire Cristo per la salvezza delle anime.
Innestate alla liturgia troviamo due cerimonie che ricordano una Messa secca (“missa sicca”): anzitutto, un Prefazio, preceduto dal consueto dialogo, che precede la consacrazione del Cero; poi, la medesima struttura si ripete per la consacrazione dell’acqua. In entrambi i casi, partiamo da elementi materiali e li mettiamo da parte per Dio, chiedendogli di renderli, in un certo senso, Sé stesso: di renderli sacramenti, o segni sacri della Sua grazia.
La liturgia inizia fuori dalla chiesa con la benedizione del fuoco: non del cero, ma solo del fuoco stesso, simbolo dell’eterna natura divina. Da questo fuoco si accende il trikirion, un candeliere a tre braccia ricco di diversi simbolismi: rappresenta anzitutto la Ss. Trinità; ma anche la progressiva rivelazione della Trinità nella storia della salvezza, dal momento che le candele del trikirion vengono accese una ad una durante la processione verso il presbiterio; o anche i tre giorni passati da Cristo nel sepolcro, e le tre Marie che si avvicinano alla tomba il giorno di Pasqua. Questa canna rappresenta poi il serpente di bronzo che Mosè scolpì e mise sopra un’asta per guarire gli Israeliti nel deserto. La processione culmina nell’Exsultet, il cui testo ha un senso solamente nel contesto precedente alle riforme piane, in cui le varie azioni descritte nell’Exsultet vengono effettivamente eseguite al momento corrispondente sul cero pasquale. Il diacono inserisce i cinque grani di incenso nel cero, simbolo dell’“Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Ap 13, 8), per poi accenderlo attingendo da una delle tre candele del trikirion: la seconda Persona della Ss. Trinità si incarna per salvarci. Da questo momento in poi, ogni luce e fiamma nella chiesa viene tratta dal cero pasquale.
Le dodici Profezie si caratterizzano per una convincente direzionalità. Esse trattano dell’acqua, della luce, del fuoco e del sacrificio, con un tema di fondo che è quello del resistere e sconfiggere il diavolo (tema reso esplicito nelle preghiere che circondano la benedizione del fonte battesimale). La prima metà circa di esse si incardina sulle maggiori figure dell’antico testamento: Adamo, Noè, Abramo, Mosè, e un accenno a Re Davide. La seconda metà passa invece alla chiamata di Israele, l’antico e il nuovo. L’ultima lettura è il racconto tratto dal libro del Profeta Daniele dei tre giovani, Sidrach, Misach e Abdenago, che si rifiutarono di adorare il gigantesco idolo di Nabuchodonosor e vennero gettati nella fornace ardente. Viene cantata in un tono speciale, sorprendentemente lirico e gioioso. Poi, l’antifona Sicut cervus ha perfettamente senso come accompagnamento alla processione che si porta dal presbiterio al battistero, o al fonte battesimale in fondo alla chiesa: “Come il cervo anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a Te, o mio Dio”. Dopo aver ascoltato tutte queste Profezie, è giunto il tempo di rendere realmente e sostanzialmente presenti quanto esse promettono, nell’acqua rigenerante del battesimo, così che dei nuovi cristiani possano essere sepolti e resuscitati con Cristo. Se nella cerimonia di Pio XII l’acqua da benedire viene curiosamente posta nel bel mezzo del presbiterio, in modo che non può svolgersi alcuna processione al battistero, nel rito pre-1955, la processione solenne al fonte, aperta dal cero pasquale, rende chiaro che quel cero è la colonna di fuoco che conduce verso il Mar Rosso, e che Israele sta per essere liberato dalla schiavitù egizia passando attraverso le acque dispensatrici di morte e donatrici di vita.
La liturgia nel suo complesso è caratterizzata da molte deliziose “irregolarità”, come il canto di un triplice Alleluia seguito da un Verso e da un Tratto (!), nessuna antifona d’Offertorio, nessun Agnus Dei e, al posto di un’antifona di Comunione, dei Vespri troncati conclusi con un Magnificat. Proprio come con le irregolarità del Venerdì Santo, tali caratteristiche fanno percepire distintamente la verità che questa liturgia è diversa da tutte le altre. Questa sua stranezza è uno stimolo ad una più profonda partecipazione interiore. Potrebbe lasciare confusi i fedeli? Sì, certo: ed è un bene. Il duello mortale tra la Vita e la Morte non è una merenda tra amici. La vecchia Veglia Pasquale è un ricco inno di lode alla forza di Dio che si rivela nella creazione del mondo, nella creazione del vecchio Israele e nella creazione del nuovo Israele; è dotata di un respiro cosmico, di una prospettiva storica e di una immersione nel mistero come non se ne trovano da nessun’altra parte nell’anno liturgico. Tutte le sue parti sono perfettamente interconnesse, senza quegli imbarazzanti momenti in cui si passa in modo disorganico da un rituale all’altro, senza quelle cesure cerimoniali così tipiche del lavoro dei comitati vaticani dopo il 1948.
La Veglia Pasquale pre-1955 può ben definirsi, in effetti, la punta di diamante del rito tridentino. Proprio come per la Domenica delle Palme e il Venerdì Santo, rimango esterrefatto che un qualsivoglia riformatore possa aver osato mettere le mani su un così perfetto connubio tra arte e teologia. Quasi tutto ciò che ho appena descritto – quasi tutto! – è stato ridotto in macerie o riconfigurato in un modo nuovo. Mi ha detto una volta un amico sacerdote, che ha celebrato entrambe le forme della Settimana Santa (pre e post 1955): “Le antiche liturgie sono coerenti in quanto contengono e quando lo presentano; le nuove versioni sono spezzettate e caotiche” [5]. Nel movimento per reintegrare la tradizione nella Chiesa cattolica, recuperare la vecchia Settimana Santa e ridarle la dovuta preminenza è un compito di primaria importanza.

La Veglia di Pentecoste


Un’altra vittima degli anni ‘50 fu la Veglia di Pentecoste. Già ai tempi di Tertulliano, che morì a metà del III secolo, la Vigilia di Pentecoste era il secondo giorno più consueto per l’iniziazione dei fedeli che per qualche motivo non erano stati battezzati a Pasqua (ad esempio, per malattia), o se c’erano ulteriori neofiti che desideravano entrare nella Chiesa. Così, già dal V secolo, è ben attestato lo svolgersi nel giorno precedente la Pentecoste di una liturgia che riflette sensibilmente, quasi rispecchia, quella della Veglia Pasquale. Quasi una “ultima eco” della grande Veglia Pasquale, la Veglia di Pentecoste funge da stupenda “cerniera” per congiungerci alla grande Festa dello Spirito Santo e alla lunga stagione liturgica in verde che segue. Come tipico per tutte le vigilie, anche questa era un giorno di digiuno e di astinenza, per ben prepararsi alla solennità ventura. Le orazioni che seguono le letture “si concentrano, ognuna a modo suo, sulla continuità tra i due Testamenti” [6]. Ad esempio, la preghiera dopo la seconda Profezia recita:

O Dio, che con la luce del Nuovo Testamento hai dischiuso i miracoli compiuti ai primordi del mondo, così che il Mar Rosso si mostrasse figura del sacro fonte, e la liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto prefigurasse i sacramenti cristiani: concedi che tutte le nazioni che hanno ora ottenuto la primogenitura di Israele per merito della fede, possano essere rigenerate per la partecipazione al Tuo Spirito.

Nel 1955 Pio XII ridusse questa articolata Veglia alla sola Messa vigiliare, spogliandola delle profezie, della processione al fonte e della benedizione dell’acqua, e mettendo in ombra il forte legame che la vecchia liturgia traccia tra battesimo e cresima. Molte delle preghiere recitate nella veglia erano utilizzate solo in questa occasione, e così sono state a tutti gli effetti cancellate. Nel 1969, anche questa Vigilia in versione ridotta fu abbandonata e sostituita con una Messa vespertina[7].

L’Ottava del Corpus Domini


Passiamo al Corpus Domini. Questa festa fu istituita da papa Urbano IV nel 1264, in risposta alle richieste fatte da Nostro Signore a Santa Giuliana di Liegi all’inizio del XIII secolo. La festa era corredata di una sua Ottava. Il punto di un’ottava è quello di crogiolarsi alla luce di un grande mistero per otto giorni, numero simbolico della vita eterna. L’ottava permette di prestare il dovuto onore al Signore, o a Sua Madre, o a un santo particolarmente importante. Era quindi inconcepibile che una festa volta a ringraziare Nostro Signore per il dono di Sé stesso nella Santa Eucaristia, offrendogli speciale omaggio una volta all’anno, si celebrasse per un giorno soltanto. Circa 500 anni dopo, il 16 giugno 1675, Nostro Signore apparve a Santa Margherita Maria Alacoque e le disse:

Perciò ti chiedo che il primo venerdì dopo l’ottava del Santo Sacramento sia dedicato a una festa particolare per onorare il mio Cuore. In quel giorno ti comunicherai e gli tributerai un’ammenda d’onore, per riparare le indegnità che ha ricevuto durante il periodo in cui è stato esposto sugli altari. Ti prometto che il mio Cuore si dilaterà per effondere abbondantemente le grazie del suo divino amore su coloro che Gli renderanno quest’onore e procureranno che anche altri glielo rendano.

E così nacque la festa del Sacro Cuore. Ma quello che vorrei far notare è che Gesù ha chiesto specificamente che questa festa fosse “il primo venerdì dopo l’ottava del Santo Sacramento”. Assurdo, allora, che Pio XII nel 1955 abbia soppresso tutte le ottave (ad eccezione di quelle di Natale, Pasqua e Pentecoste)!
Prima del 1956, erano almeno 23 le ottave osservate in tutte le diocesi. Queste ottave avevano tre forme base: privilegiata, comune e semplice, e in ragione del grado si determinava la precedenza (o meno) sulle altre feste e l’Ufficio del giorno. Al livello più alto, ogni giorno nell’ottava veniva trattato come il giorno della festa stessa. Al livello più basso, si sarebbe osservato solo l’ottavo giorno (o “ottava”) con una messa propria. Tutto ciò rendeva il calendario considerevolmente più ricco, più intrecciato con i misteri di Cristo e la memoria dei Suoi santi. La perdita delle ottave è connessa a un problema più grande: la perdita, o il diradarsi, della nozione di tempo sacro, che ha sempre più lasciato il posto a un approccio allo scorrere del tempo mondano, lineare, orientato al lavoro. Le continue spinte per “accorciare la liturgia” devono essere comprese da questo punto di vista. Gli uomini d’oggi pensano di avere così tante cose più importanti da fare che adorare Dio. L’incapacità di vedere e sentire che il culto è l’attività migliore, più nobile, più umana e più divinizzante che possiamo compiere è, senza dubbio, la nostra più grave malattia spirituale.

I Santi Innocenti


L’ultimo esempio che prendo dal calendario liturgico è la festa dei Santi Innocenti. Prima del 1956, c’era la bellissima usanza per cui questa festa del 28 dicembre, in ossequio al triste carattere della strage dei bambini innocenti, veniva celebrata in paramenti viola, senza Gloria, con un Tratto al posto dell’Alleluia, e con un Benedicamus Domino al posto dell’Ite Missa Est; mentre invece nel loro giorno dell’ottava (che, ricordiamo, rappresenta la vita eterna) la stessa Messa veniva celebrata in paramenti rossi, con Gloria, Alleluia e Ite Missa Est, ad annunciare il loro trionfo celeste come martiri. Questo, a mio avviso, è un perfetto esempio della finezza teologica e psicologica dell’antica liturgia. Ancora una volta, con l’eliminazione dell’ottava nel 1955, quest’usanza fu abbandonata.

Caratteristiche generali della Messa

Non è stato solo il ciclo temporale e santorale a soffrire di “ritocchite”, ma anche alcuni aspetti generali della Messa. Descriverò cinque di questi aspetti che sono stati modificati o scartati nel periodo precedente al 1962, e che meritano tutti di essere recuperati.

Pianete plicate e Stoloni


In primo luogo, le pianete plicate (o piegate) e gli stoloni. I primi cristiani, ai tempi dell’Impero Romano, non avevano paramenti liturgici distintivi, ma semplicemente indossavano ciò che erano abituati a indossare all’epoca – il loro “vestito della domenica”, potremmo dire. Il mantello che avvolgeva completamente chi lo indossava era chiamato casula(più tardi detta anche pianeta). Il diacono e il suddiacono che cantavano le letture, per comodità, si toglievano la casula o la piegavano avvolgendola su una spalla, così da potersi muovere più liberamente e tenere in mano i lezionari. Con il cambiare delle mode secolari, la Chiesa, sempre conservativa nella sua mentalità, ha conservato l’uso degli abiti romani originali, che col tempo vennero a essere visti come vesti sacerdotali destinate ai servizi liturgici. Più tardi, nel V secolo, furono introdotti per il diacono la dalmatica, più pratica e sontuosa, e per il suddiacono la tunicella. Inizialmente, questi paramenti erano bianchi e adornati con le bande verticali viola tipiche della toga senatoria romana; erano visti come paramenti “espressivi di gioia e di innocenza [il che li rendeva] del tutto inappropriati per le stagioni penitenziali” [8].Conseguentemente, nelle stagioni penitenziali – che a Roma sono sempre state contraddistinte dal perdurare delle usanze più antiche – la casula piegata continuò ad essere utilizzata, per tutto il Medioevo, passando per il Barocco, fino ai tempi di Pio XII. Spesso la casula piegata sulla spalla veniva sostituita da una sua versione stilizzata, la cosiddetta stola larga o stolone. Nel 1955, Pio XII decretò che il diacono e il suddiacono dovessero d’ora innanzi indossare, in modo alquanto incongruo, i loro paramenti di gioia e di innocenza durante la Settimana Santa. Quattro anni dopo, nel 1960, il codice delle rubriche di Giovanni XXIII abolì del tutto le pianete plicate e gli stoloni. In questo modo, uno dei segni più evidenti dei giorni o delle stagioni penitenziali – Avvento, Quaresima e Quattro Tempora – fu consegnato all’oblio; e i papi dimostrarono ancora una volta che un loro colpo di penna poteva fare più danni agli usi liturgici di qualsiasi miriade di invasioni barbariche, di guerre, piaghe, carestie o rivoluzioni.

Orazioni multiple


Il secondo aspetto è l’uso di orazioni multiple. In ogni Messa ci sono tre preghiere molto importanti chiamate “Orazioni”: la Colletta, poco dopo l’inizio; la Segreta, detta in silenzio alla fine dell’Offertorio; e il Postcommunio, recitata dopo le abluzioni finali. Per secoli, per i sacerdoti è stato normale dire o cantare più di una serie di orazioni durante la Messa[9]. Le rubriche spesso indicavano al sacerdote quali preghiere aggiuntive usare. Ad esempio, in Avvento, a partire dalla prima domenica, il Messale pre-1956 prescriveva l’aggiunta di una seconda colletta dedicata alla Beata Vergine Maria e di una terza colletta per la Chiesa o per il Papa, ma se ci fossero stati dei santi da commemorare, si sarebbero invece utilizzate le loro preghiere. Per darvi un’idea della potenza di queste preghiere, ecco la Colletta “per i vivi e per i morti”, che si diceva ogni giorno dal Mercoledì delle Ceneri alla Domenica della Passione:

O Dio onnipotente ed eterno, Signore dei vivi e dei morti, che hai misericordia di tutti coloro che prevedi tuoi in virtù della fede e delle buone opere: ti imploriamo umilmente che tutti quelli per i quali abbiamo deciso di pregare, sia se il mondo presente li trattiene ancora nella carne, sia se il mondo a venire li ha già ricevuti fuori del corpo, possano, per intercessione di tutti i Tuoi santi, ottenere dalla Tua bontà e clemenza il perdono di tutti i loro peccati.

Questo si pregava ogni giorno per quasi un intero mese all’anno. Tutte le altre collette hanno una forza del tutto comparabile.
La domenica i santi, invece di essere semplicemente ignorati, venivano commemorati. Per darci un’idea di come ciò sarebbe funzionato nella pratica, prendiamo, ad esempio, domenica 30 giugno 2019. Ho preso questa data perché è la tipica “costellazione” di ricorrenze: è la Terza Domenica dopo Pentecoste, nell’Ottava del Sacro Cuore e della nascita di San Giovanni Battista, ma è anche la Commemorazione di San Paolo, sempre accompagnato in commemorazione dal suo compagno nell’apostolato romano, San Pietro. Così, a Messa, il sacerdote avrebbe recitato o cantato cinque Collette: quella della domenica, seguita da San Paolo, San Pietro, il Sacro Cuore e San Giovanni Battista.

In altre occasioni, il sacerdote poteva aggiungere (specialmente nelle Messe private) orazioni votive o per esigenze della comunità, attingendo allo straordinario patrimonio di preghiere della tradizione romana. Qualche esempio di Collette:
· Per implorare l’intercessione dei santi;
· Per le persone costituite in autorità e per coloro che sono sotto la loro responsabilità;
· Contro persecutori e i malfattori;
· In tempo di terremoto;
· Per domandare la pioggia;
· Per domandare il bel tempo;
· Contro i temporali e le tempeste;
· Per ottenere lo spirito di penitenza;
· Per chi soffre tentazione e tribolazione;
· Per allontanare i pensieri malvagi;

e così via procedendo. Qualcuno forse starà già pensando: aspetta un secondo, tutto ciò suona quasi come la Preghiera dei Fedeli! E in un certo senso, avrebbe ragione. Il rito romano aveva già in sé un modo di pregare per i bisogni del celebrante, della comunità locale, del mondo circostante o di alcune categorie di persone. C’era già tutto.
Prima del 1955, il numero massimo di Orazioni ad una messa letta, in giorni normali, era di cinque o sette (a seconda delle circostanze). Nel 1955, questo numero fu ridotto a tre, e le orazioni obbligatorie per le varie stagioni liturgiche furono abolite. Nel 1960, la possibilità di orazioni aggiuntive fu ulteriormente ridotta, e completamente abbandonata per la maggior parte delle domeniche dell’anno. Il tutto fu fatto in un’ottica di semplificazione razionale e di snellimento. L’ultimo passo sarebbe stato il Novus Ordo, che non ha mai più di un gruppo di orazioni per Messa.

Ripetizione delle letture da parte del sacerdote

La terza caratteristica accantonata è la ripetizione delle letture da parte del sacerdote. Prima del 1956, durante una Messa Solenne, il sacerdote all’altare leggeva silenziosamente da solo tutte le Antifone, le Orazioni e le Letture della Messa, anche se nel frattempo gli altri ministri le stavano cantando, in base al loro ruolo nella liturgia. Questa usanza si sviluppò a partire dalla Messa letta, in cui il sacerdote si era ormai abituato a pronunciare tutto. Nel 1955, ai sacerdoti fu ordinato di non leggere più da sé le Letture durante la Settimana Santa; e nel 1960 di non farlo mai, se qualcun altro le stava già recitando. Nel 1969, con il Novus Ordo, ai sacerdoti fu indicato di non dire il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Santo o l’Agnello di Dio se a cantarli c’era un coro o anche il popolo; piuttosto, dovevano cantare con loro, o ascoltarli.
Questa tendenza è stata un errore per due motivi. Sul lato pratico, esiste un valore devozionale soggettivo o personale nel leggere, con i propri occhi e le proprie labbra, l’epistola, il Vangelo e tutto l’Ordinario della Messa. Consente di conservare, di giorno in giorno, la massima continuità testuale e cerimoniale, indipendentemente dal carattere più o meno solenne della liturgia offerta. A livello teologico, dobbiamo ricordare che il sacerdote sta all’altare in persona Christi, e ciò significa che vi sta nella persona del “Cristo tutto intero”, capo e corpo. Come immagine dell’unico Mediatore tra Dio e l’uomo, egli compie gesti e recita preghiere sia nella direzione che va da Dio verso i fedeli (la mediazione discendente dei beni spirituali) sia nella direzione che dai fedeli va verso Dio (l’offerta ascendente dei doni e delle preghiere). All’atto della consacrazione, egli si identifica con il Capo; durante il Confiteor o quando dice ad alta voce “Nobis quoque peccatoribus”, egli si identifica con il popolo. Dal momento che il sacerdote rappresenta il “Cristo tutto intero”, capo e membra, è opportuno che mantenga questo ruolo di totale rappresentanza dall’inizio alla fine. Quando recita l’Introito, il sacerdote sta nella persona di Cristo-profeta, perché annuncia il mistero che si andrà a compiere. Quando prega le nove invocazioni del Kyrie, implora la misericordia di Dio onnipotente, agendo di nuovo e visibilmente nella persona del Sommo Sacerdote, che offre sacrifici per conto dei peccatori. Quando legge il Vangelo, lo legge come immagine viva di Cristo. Nulla di tutto ciò sminuisce o diluisce il ruolo proprio degli altri ministri o del popolo; piuttosto, non fa altro che ricondurre alla massima unità l’azione liturgica facendola fluire da e ritornare a quello stesso Alfa e Omega, a Cristo stesso, la cui unità di essere e di azione è sensibilmente rappresentata dal celebrante.

La recita del Credo

Quarto, la recita del Credo. Il credo niceno-costantinopolitano non era in origine incluso nel Rito romano; come molte altre caratteristiche della Messa, venne importato dalla Francia. Tuttavia, una volta che vi aveva trovato il suo posto, iniziò il consueto processo per cui venne assegnato a sempre più occasioni, per ragioni di appropriatezza. Nel Rito tridentino, si recita in tutte le domeniche e nelle feste maggiori della Madonna e degli Apostoli (nonché nei relativi giorni di ottava), ma anche nelle feste degli Angeli (poiché la loro creazione è menzionata nel Credo), dei Dottori della Chiesa (perché il Credo incarna la dottrina cattolica, di cui essi furono i più accesi difensori e interpreti), e nella festa di S. Maria Maddalena, perché “Apostola degli apostoli”, onorata dalla prima apparizione del Signore risorto. Il tutto mi sembra perfettamente ragionevole e appropriato. Di cosa lamentarsi? L’opportunità di cantare una delle bellissime versioni gregoriane del Credo dovrebbe essere sempre la benvenuta; e per quanto riguarda la Messa Bassa, recitarlo prende poco più di un minuto, e ci dà l’opportunità di onorare la Santissima Trinità con tre inchini del capo e una genuflessione. Nel 1956 gli irrequieti riformatori abolirono il Credo per le messe degli Angeli, di Santa Maria Maddalena e dei giorni delle ottave, e per qualche altra messa; nel 1960 fu abolito per i Dottori della Chiesa e per le Messe Votive solenni.

Il Benedicamus Domino

Per quinto, l’uso del Benedicamus Domino. Nel rito tridentino, ogni volta che in una Messa si recitava il Gloria, il sacerdote (o il diacono) concludeva con l’Ite, Missa est; se invece non c’era il Gloria, la formula usata era Benedicamus Domino. (In entrambi i casi la risposta era: Deo gratias). Questa era solo una delle tante finezze con cui i giorni di festa venivano distinti dai giorni feriali o da quelli penitenziali. Con le rubriche del 1960, ogni Messa si conclude con l’Ite, Missa est, e il Benedicamus Domino viene utilizzato solo quando alla celebrazione segue una processione o un’altra funzione. È un piccolo dettaglio, chiaramente, ma tanti piccoli dettagli uniti formano un impressione generale. C’era, e c’è, una certa unità di spirito nelle rubriche tridentine. Questa unità è andata via via perdendosi con le riforme degli anni ‘50 e dei primi anni ‘60, prima di essere semplicemente gettata dalla finestra da metà anni Sessanta in poi.

Casi di disapplicazione del Missale Romanum 1962

Dopo aver analizzato questi nove elementi del Rito romano classico, vorrei ora affrontare alcune questioni pratiche e canonistiche.
È bene notare che alcuni cambiamenti rubricali introdotti nel 1960 non sono quasi mai osservati nelle celebrazioni odierne della messa tradizionale[10]. Queste discrepanze non solo sono tollerate, ma financo praticate da prelati di alto rango, almeno alcuni dei quali sanno perfettamente che, così facendo, stanno seguendo le rubriche più antiche. L’esempio più ovvio è il mantenimento del Confiteor appena prima della comunione[11], che fu abolito nel 1960, ma è sopravvissuto con tenacia, tanto che oggi è molto più comune la sua recita che la sua omissione. Un altro esempio è il fatto che il sacerdote si inchini verso il crocifisso quando dice l’“Oremus”; quando, secondo le rubriche del 1960, dovrebbe invece inchinarsi verso il messale. Infine, è abbastanza comune vedere, durante una Messa solenne, l’incensazione del sacerdote dopo il canto del Vangelo da parte del diacono, per quanto anche questo rito sia stato eliminato.
Inoltre, la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, prima di essere riassorbita nella Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva più volte dato indicazioni che l’approccio alle rubriche potesse essere un po’ più – per così dire – flessibile. In un modo di procedere tipicamente “romano”, invece di emanare precise istruzioni, ha pubblicato un Ordo liturgico con due caratteristiche degne di nota. In primo luogo, si indicava nelle Messe de tempore di Avvento, Settuagesima, e Quaresima (cioè Messe senza il Gloria), si poteva utilizzare il Benedicamus Domino al posto dell’Ite missa est. In secondo luogo, faceva un piccolo riferimento, quasi en passant, alla “ottava del Corpus Domini”, come a lasciare intendere che, in realtà, è ben possibile osservare un’ottava di questa festa. So personalmente di due monasteri benedettini che celebrano l’intera ottava del Corpus Domini, con Messa e Ufficio della festa, con tanto di processioni, adorazione e benedizione eucaristica.
Ma ancora più importante è il fatto che la Ecclesia Dei ha concesso all’Istituto Cristo Re e alla Fraternità di San Pietro il permesso di utilizzare la vera Settimana Santa Tridentina per tre anni consecutivi (2018, 2019 e 2020), e si parla di una decisione volta a rendere il permesso permanente. Un’autorizzazione ufficiale è stata accordata anche per la antica Vigilia di Pentecoste. Tutto ciò ci porta alla prossima domanda: che tipo di permesso è necessario per recuperare gli elementi perduti del rito tridentino?

Intrinseca Permissibilità della Liturgia pre-1955

Il principio fondamentale è questo: un rito liturgico possiede autorità da sé stesso, dal suo uso prolungato nel tempo e dalla sua accettazione da parte dei fedeli, e non primariamente dai decreti di qualsivoglia autorità. Il peso intrinseco della tradizione immemorabile è tale che nessun papa può abolirla o abrogarla. Potremmo definirlo il “sacro e grande” principio, secondo le parole di Benedetto XVI nella Lettera ai Vescovi del 7 luglio 2007:

Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto.

Questo argomento, con il quale Summorum Pontificum testimonia la perdurante liceità del messale del 1962 e degli altri riti tradizionali, attesta esattamente lo stesso per tutta l’eredità tridentina in generale, tra cui la vecchia Settimana Santa, la Vigilia di Pentecoste, l’ottava del Corpus Domini, la diversità tra la festa dei Santi Innocenti e la sua ottava, le pianete plicate e gli stoloni, le orazioni multiple, il “raddoppio” delle letture, la recita del Credo e l’uso del Benedicamus Domino. Nelle memorabili parole di Martin Mosebach, la liturgia tradizionale ha più autorità ecclesiale di qualsiasi decisione di un papa o di un ufficio curiale:
La liturgia è la Chiesa: ogni Messa celebrata nello spirito tradizionale è incommensurabilmente più importante di qualsiasi parola di qualsiasi papa. È il fil rouge da tracciarsi attraverso le glorie e le miserie della storia della Chiesa; laddove continua ad essere celebrata, le varie fasi di governo papale arbitrario non saranno che note a piè di pagina nei libri di storia.[12]
Il permesso ufficiale della Ecclesia Dei (o, ora, della quarta Sezione della CDF) può essere utile per rassicurare le coscienze più delicate ed evitare l’arbitrarietà[13], ma non è strettamente necessario. Ogni anno, sempre più chiese diocesane celebrano la vecchia Settimana Santa; la CDF lo sa, e non fa nulla per fermarle. Questa è una maniera tipicamente italiana per dire: “fate pure, basta che non fate figure ridicole”. Per gli stranieri non è sempre facile comprendere un approccio basato su un’approvazione tacita, non verbale; c’è chi preferirebbe una conferma scritta, precisa, in linguaggio giuridico. Dobbiamo però tenere a mente che per i funzionari vaticani è molto più difficile e pericoloso, specialmente oggi, mettere qualcosa per iscritto, piuttosto che darlo a intendere con cenni d’intesa[14]. L’esempio che ho fatto prima, quello dell’Ordo per l’usus antiquior pubblicato dal Vaticano, illustra bene il metodo dei sacri palazzi: non troveremo mai un documento che dica espressamente “Si può usare il Benedicamus Domino o osservare l’ottava del Corpus Domini”; l’Ordo non fa altro che menzionare questi due elementi, in latino, senza altri commenti, così che se ne accorgano solo gli intenditori interessati.
È vero che, nel corso dei secoli, alcuni riti o rubriche sono promulgati dalla gerarchia, ma non è questo che conferisce legittimità ai riti e alle rubriche; la promulgazione non fa altro che riconoscere un determinato libro liturgico come l’edizione corretta o il modello per la sua categoria. Il mero fatto della promulgazione[15] è condizione necessaria ma non sufficiente perché un libro liturgico possa dirsi accettato dalla Chiesa. Non fu San Pio V a modellare il rito tridentino e a conferirgli autenticità; esso ne aveva già di per sé, prima ancora che quel Papa esistesse. Il messale del 1570 è, sotto tutti gli aspetti importanti, lo stesso messale della Curia Romana del 1474, che a sua volta trasmetteva il rito come ricevuto dai secoli precedenti, in una sequenza organica e continua. Al massimo, Pio V si assunse la responsabilità di precisare che una determinata edizione di un libro liturgico – valido, legittimo e appropriato di per sé – doveva essere, per ragioni prudenziali, quella usata all’altare. E in campo di decisioni prudenziali, tra l’altro, gli errori sono sempre possibili[16].
Male non fa, un papa, se decide di concedere un indulto, cioè un atto di legge positiva rivolto a individui o a gruppi, come nel caso degli indulti di Giovanni Paolo II (1984 e 1988) relativi all’uso dei libri liturgici del 1962, qualora quel papa abbia l’impressione di doverlo fare, o che facendolo aiuterà i beneficiari. Però, se ha ragione Benedetto XVI quando dichiara che non è necessario richiedere alcun permesso per il vecchio rito, perché non è mai stato abrogato e né mai si sarebbe potuto abrogare, allora – logicamente – il rito che non è mai stato abrogato dovrebbe essere o il suo ultimo maneggiamento prima della sua sostituzione con il Novus Ordo – il che significherebbe tornare a quella lava semi-solidificata del 1967 – oppure, in ragione dell’instabilità del rito romano dal 1948 in poi, andrebbe piuttosto riferito allo status quo ante (prendendo come punto di riferimento grossomodo il 1948). Il permesso di celebrare il rito romano come era nel 1948, così, dovrebbe dirsi universale non in virtù di una legge positiva, ma dell’uso ab immemorabile e della tradizione: proprio l’argomento in base al quale il Summorum Pontificum ha potuto affermare che l’usus antiquior nonè mai stato abrogato. Questo, mi sembra, deve essere il granitico fondamento del graduale restauro del Rito Romano tridentino, anche in quelle situazioni in cui un permesso esplicito non è stato né richiesto né ottenuto. Per dirla in altre parole, è piuttosto ridicolo immaginare che una Settimana Santa adottata per soltanto 14 anni circa possa avere più forza vincolante o maggiore autorità canonica di una Settimana Santa celebrata per mille anni.
L’argomento principale usato dai difensori di una rigorosa adesione ai libri liturgici del 1962 è quello per cui “dobbiamo fare quello che la Chiesa ci chiede di fare”. In questo periodo di caos, tuttavia, non è più così evidente che “la Chiesa” si riferisca a un’autorità che promulga leggi per il bene comune del popolo di Dio. Almeno dal 1948 in poi, “la Chiesa” – in campo liturgico – significa l’azione di radicali che lottano per allentare i vincoli della tradizione, imponendo alla Chiesa la propria agenda improntata alla semplificazione, all’abbreviazione, alla modernizzazione e all’utilitarismo pastorale, e suggellando il tutto con l’approvazione papale: vale a dire, con un abuso del potere papale. Questi non sono giusti comandi a cui obbedire, ma aberrazioni che meritano di essere contrastate. Certo, la resistenza deve essere attuata con pazienza, intelligenza, in modo strutturato e corretto, ma nondimeno con la ferma intenzione di ripristinare, nel tempo, l’integrità e la pienezza del rito romano.
Si sente dire, a volte, che il vecchio rito è “congelato nel passato”. Io non la vedo così. Nel “wild west” che è il mondo della Tradizione, specialmente di lingua anglofona, uno “sviluppo organico” sta tutt’ora avvenendo: solo che non va nella direzione dell’irraggiungibile utopia della modernizzazione sognata da Paolo VI, ma piuttosto verso il recupero, pezzo per pezzo, di quegli elementi nobili, distintivi e altamente espressivi propri della liturgia romana che sono stati scartati o metamorfizzati durante il ventesimo secolo. Se il più grande esempio di ciò rimane senz’altro il ritorno sempre più diffuso alla Settimana Santa pre-1955, si vede però qua e là il recupero di vigilie, ottave, collette multiple, letture contestuali delle parti del proprio e molte altre caratteristiche che furono soppresse per legge. Quando il clero e i fedeli provano queste antiche usanze, si rendono conto che esse hanno pienamente senso, e funzionano magnificamente. Dev’essere stato qualche strano attacco di follia che ha portato, a suo tempo, alla loro soppressione. Forse per la prima volta a partire dalla Pastor Aeternus del Concilio Vaticano I, e certamente per la prima volta dalla Sacrosanctum Concilium del Vaticano II, abbiamo il privilegio di vivere in un momento in cui è realmente possibile compiere i passi necessari per recuperare la nostra gloriosa eredità liturgica. L’atmosfera febbrile dell’attuale pontificato, inoltre, contribuisce enormemente a rendere più facile un riesame delle questioni liturgiche. Il Signore vuole farci vedere, in modo molto chiaro, che dobbiamo cercare principi e fondamenti più solidi della volontà autocratica di chiunque sia al momento seduto sul trono papale. Se il Papa non onorerà la tradizione, trasmettendola senza maneggiamenti e pasticci, noi, per parte nostra, siamo costretti dall’amore per i nostri predecessori nella fede e per il tesoro che da loro abbiamo ereditato, dalla nostra dignità di figli di Dio ed eredi del Suo regno, a difendere la tradizione cattolica, ad affermarla, a viverla e a trasmetterla, intatta. Per quanti di noi credono che il rito tridentino rappresenti, nel suo insieme come nelle sue parti, l’apice del Rito romano, un Messale riferibile al 1948, o la stessa editio typica del 1920 di Benedetto XV, offre oggi il terreno stabile di cui abbiamo bisogno.
Deo Gratias! Non solo l’usus antiquior sta tornando nelle nostre chiese, ma vi tornano anche gli autentici riti dell’usus antiquior. Al termine di settant’anni di cattività liturgica, iniziata più o meno nel 1948 con la creazione da parte di Pio XII di una commissione per la riforma liturgica, possiamo oggi dire col salmista: “Venga da Sion la salvezza d’Israele! Quando il Signore ricondurrà il suo popolo, esulterà Giacobbe e gioirà Israele” (Sal 14,7).

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(Traduzione a cura di Carlo Schena)

[1] Questo libero flusso di informazioni offre l’accesso a molte cose buone, a molte cose fuorvianti e a molte cose del tutto errate, senza offrire alcun criterio guida — e, per quanto riguarda la gerarchia della Chiesa, la maggior parte di essa ha ormai da tempo abbandonato ogni reale impegno verso l’ufficio di istruire i fedeli nell’autentico cattolicesimo. Un giorno, un vescovo criticò la mia difesa della Messa ad orientem perché, a suo dire, “era contrario all’insegnamento della Chiesa”. Quando gli spiegai che i cristiani avevano pregato rivolti verso oriente per quasi 2000 anni, e che non un solo documento del Concilio o del Magistero postconciliare richiedesse che la Messa fosse celebrata verso il popolo, rimase stupefatto. Con vescovi così ignoranti, direi, facciamo quasi meglio a imparare direttamente da Internet.
[2] Possiamo dire che più di un ritocco o di una revisione si trattò di una ricostruzione: una demolizione con riciclo dei vecchi materiali per il nuovo edificio.
[3] Nota Gregory DiPippo: “È vero che un tempo ai fedeli veniva data la Comunione anche il Venerdì Santo, e SOLO in questo senso, la mutilazione del Venerdì Santo attuata nel 1955 è stato effettivamente il ritorno a una pratica antica. Su questa particolare questione si può avere un dibattito legittimo. In proposito mi limiterò a sottolineare che ogni singolo rito della Cristianità è giunto alla stessa conclusione a cui entro il XIV secolo il rito romano era ormai giunto: non esiste alcun rituale di Comunione il Venerdì Santo in nessun altro rito cristiano. (In effetti, il Consilium ad exsequendam, quando stava creando il Novus Ordo, rendendosi conto di quanto il rito romano, in questo punto, si fosse allontanato nel 1955 sia dalla propria tradizione che dalla più ampia tradizione liturgica cristiana, considerò seriamente di rimuovere del tutto la Comunione). Tuttavia, questa specifica questione dimostra anche pienamente l’incompetenza e la doppiezza dei creatori della Settimana Santa del 1955, perché letteralmente ogni singolo Ordo del rito romano che dice qualcosa su come si svolgesse il rituale del Venerdì Santo, dice anche che era presente un rito di frazione delle Sacre Specie (come documentò Andrieu in una serie di articoli sulla Revue des Sciences Religeuses nel 1922-24), cosa che essi nel 1955 rimossero. Questo perché, come ben sapete, la loro procedura non consisteva mai nel ripristinare le tradizioni storiche del rito romano nella loro integrità. La loro procedura consisteva sempre nel decidere in anticipo cosa avrebbero cambiato, e poi andare a pescare nei più antichi libri liturgici del rito romano, o di altri riti, alla ricerca di una presunta giustificazione del cambiamento che avevano precedentemente deciso di fare. Un modo di procedere per nulla diverso da quello con cui è stato creato il Novus Ordo”
[4] Vi si ritrova solo un frammento della Passione secondo Luca, in una messa votiva.
[5] E ha concluso così: “Gli antichi riti liturgici fanno risaltare il legame integrale ed essenziale tra il sacrificio della Croce e il sacrificio eucaristico. Le nuove versioni [pacelliane] lo minimizzano sistematicamente… In effetti, alcune di quelle persone che hanno lavorato sulla Settimana Santa “rinnovata” hanno poi lavorato sul Novus Ordo, e quando sono arrivate a dover risolvere alcuni dei problemi che essi stessi avevano introdotto, hanno dato la colpa di questi problemi non ai loro pasticci, ma alla “vecchia liturgia”! Si può essere più mendaci?
[6] Tradotto da http://www.newliturgicalmovement.org/2018/05/the-suppression-of-ancient-baptismal.html#.X1fIFdJKiUk
[7] L’unica somiglianza rimasta è che questa Messa serale ha i suoi testi propri, ma quasi nessuno di essi corrisponde a quelli della vecchia Vigilia.
[8] Tradotto da Canticum Salomonis, The History of the Folded Chasuble (Part 1). Per lo stesso motivo, il diacono indossa una dalmatica bianca per il canto del Preconio Pasquale o (Exsultet).
[9] Questo si riverberava anche nelle Lodi e nei Vespri.
[10] Vedi http://theradtrad.blogspot.com/2014/07/summorum-pontificum-rite-of-econe.html
[11] Vedi “Why the Confiteor Before Communion Should Be Retained (or Reintroduced)”
[12] Tradotto da Heresy of Formlessness, p. 188
[13] Soprattutto quando si ha a che fare con una comunità di sacerdoti sparsi in tutto il mondo, per i quali è decisamente preferibile adottare una linea di condotta unanime.
[14] Va anche detto che è più facile chiedere scusa per qualcosa che si è fatto, che ottenere il permesso per farlo.
[15] Prima dell’invenzione della stampa e della centralizzazione del Messale Romano, l’equivalente della promulgazione era, semplicemente, la tacita approvazione del papa; in altre parole, qualsiasi liturgia cattolica celebrata da lungo tempo e senza obbiezioni dell’autorità ecclesiastica si poteva considerare “approvata” proprio per il fatto di non essere stata condannata. È questo l’approccio che dobbiamo recuperare oggi.
[16] Ad esempio, nel messale di San Pio V fu abolita la festa di Sant’Anna e di alcuni altri santi; errori tutti rapidamente corretti.

Fonte immagine: dappledphotos.blogspot.com





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