sabato 11 maggio 2024

La dimensione politica della difesa del diritto naturale Il caso della Francia



 L'articolo che segue è pubblicato contemporaneamente sul sito web de L’Homme nouveau e sul sito web di Res Novæ




La valanga di leggi «sociostrutturali»* in Francia nell’ultimo mezzo secolo, tutte attacchi diretti alla legge naturale, ha portato, presso una parte del mondo cattolico, a una delegittimazione diffusa o esplicita delle istituzioni politiche che le hanno promulgate, nel pieno dell’ondata di individualismo post-sessantottino; e a una specie di esplosione a mezz’aria della Chiesa nel suo stato conciliare.

Il «matrimonio» omosessuale e la costituzionalizzazione dell’aborto hanno fatto precipitare il clima tra questi stessi cattolici. Da qui la domanda: che cosa fare? In Francia, la Manif pour tous, contro il «matrimonio» omosessuale, e la Marcia per la Vita, contro le leggi sul «diritto» all’aborto, hanno mobilitato un enorme attivismo cattolico. Purtroppo, non sono riuscite ad abrogare o modificare le leggi in questione, anche se hanno avuto un impatto notevole in termini di testimonianza pubblica e hanno prodotto un certo grado di coesione dei gruppi che vi si oppongono in una società ostile. Ma l’effetto non potrebbe essere maggiore, se non quantitativamente, almeno qualitativamente?

Ne è nato un dibattito lanciato dal quindicinale L’Homme nouveau, che si è concluso con un articolo di Philippe Maxence[1], in cui si chiedeva di dare priorità alla questione di una via d’uscita dalla democrazia moderna, citando le parole del radiomessaggio di Pio XII del giugno 1941: «Il bene o il male delle anime dipende dalla forma che si dà alla società, se essa è in armonia o meno con le leggi divine».

In linea con Philippe Maxence, vorremmo offrire alcune riflessioni sui maggiori frutti che questa lotta cattolica potrebbe produrre: almeno l’inizio di una messa in discussione della fonte istituzionale del problema, ma anche più immediatamente delle sue metastasi nella Chiesa, e, conseguentemente, un consolidamento di tutto il mondo cattolico nella sua determinazione a far regnare Cristo nelle istituzioni.
La progressiva disintegrazione della morale pubblica in nome del «nuovo diritto» (Immortale Dei, 1885).

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 sancisce una rottura rivoluzionaria: da quel momento in poi, il potere non emana più da Dio, come afferma San Paolo in Romani 13, 1, ma «il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione» (art. 3), e la legge, «espressione della volontà generale» (art. 6), viene privata del suo riferimento alla legge di Dio.

Tuttavia, non tutti gli elementi dell’ordine sociale tradizionale scomparvero subito, e intere fasce di diritto naturale rimasero, ad esempio, nella legislazione sul matrimonio e sulla famiglia, che, a parte il divorzio, non furono messi profondamente in discussione fino agli anni Sessanta[2]. Resta il fatto che, in linea di principio, la società politica aveva improvvisamente smesso di rispondere ai principi della legge naturale e cristiana. E questa innovazione divenne evidente già nell’agosto del 1792.

La giornata del 10 agosto, consacrazione della Rivoluzione, fu immediatamente seguita dalla legge del 30 agosto 1792 che istituiva lo «scioglimento del matrimonio per divorzio», quindi dalla legge del 20 settembre 1792, che istituiva la secolarizzazione dello stato civile e del matrimonio, essendo il matrimonio civile l’unico matrimonio riconosciuto dalla legge. Sotto il Consolato, a ciò si è aggiunto l’obbligo di far precedere i matrimoni religiosi dal matrimonio civile (legge del 10 Germinale dell’Anno X – 8 aprile 1802), che sarà poi consacrato dal Codice civile e dal Codice penale. Questa disposizione tirannica nei confronti della libertà della Chiesa non è mai stata abrogata, nemmeno con la separazione tra Chiesa e Stato nel 1905: la celebrazione dei matrimoni religiosi in Francia rimane subordinata alla celebrazione dei matrimoni civili.

La Restaurazione riaffermò l’indissolubilità del matrimonio e abolì il divorzio con la legge dell’8 maggio 1816, ottenuta da Louis de Bonald che, contro gli illuministi, considerava il matrimonio «la pietra angolare della società» e il divorzio «un veleno rivoluzionario». Ripristinato dalla Terza Repubblica, con la legge Naquet del 27 luglio 1884, il divorzio subì in seguito alcune modifiche, tra cui la possibilità di decidere per mutuo consenso dei coniugi (legge dell’11 luglio 1975). Ma è nell’ultima parte del XX secolo che cominciano ad accumularsi le leggi « sociostrutturali» contro il matrimonio e la famiglia (non citeremo, qui, quelle contro la libertà di educazione, che è un argomento di per sé più complesso):
La legge Neuwirth del 9 dicembre 1967, che autorizza la vendita e l’uso di metodi contraccettivi in Francia. 
E ancora, anche se l’attacco che ha inferto alla protezione della famiglia è stato denunciato all’epoca da pochi, come il giurista Henri Mazeaud, la legge del 3 gennaio 1972, che ha stabilito il principio dell’uguaglianza dei figli legittimi e naturali in materia di eredità (una legge del 3 dicembre 2001 ha concesso loro, compresi i figli adulterini, la completa uguaglianza).
La legge sull’«interruzione volontaria della gravidanza», adottata in via sperimentale il 20 dicembre 1974, confermata nel 1979 e successivamente prorogata a più riprese.
La legge del 15 novembre 1999 che istituisce il Patto Civile di Solidarietà (PACS), che ha permesso quella che i sociologi chiamano una «nuova forma di coniugalità», sia per le coppie formate da un uomo e una donna che per le coppie dello stesso sesso.
La legge Taubira del 17 maggio 2013 che apre il matrimonio alle coppie dello stesso sesso e permette loro l’«adozione omoparentale».
La legge del 2 agosto 2021 che prevede l’accesso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) per le coppie femminili e le donne non sposate.
La legge del 20 febbraio 2022 che apre l’adozione alle coppie non sposate.
La legge costituzionale dell’8 marzo 2024 sulla libertà di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza.
E presto la legge che autorizzerà l’eutanasia.

Definire il diritto di uccidere un bambino innocente come uno dei diritti fondamentali rappresenta simbolicamente una sorta di culmine dell’affermazione della supremazia della «volontà generale» sulla volontà divina. Ma né la protesta contro questo santuario democratico, né quella contro l’aborto, devono farci dimenticare i precedenti attacchi innaturali alla famiglia: la legge Taubira, la legge PCAS, la legge Neuwirth, la legge Naquet. Commentando la strada che abbiamo percorso, Yves-Marie Adeline ha scritto in un articolo del Courrier des Stratèges del 4 marzo 2024[3]: «Eccoci finalmente: in realtà, questa costituzionalizzazione segna la pienezza della democrazia, cioè un regime in cui il cittadino non riconosce nessun vincolo superiore a se stesso, nessuna legge di Antigone, ma solo la Libertà».

La tentazione di denunciare le conseguenze senza risalire alle cause

Queste cosiddette leggi – «perché le leggi ingiuste sono molto più violente delle leggi»[4], sono state approvate dai rappresentanti nazionali in virtù del principio stesso della loro sovranità. È possibile fare pressione su di essi, in nome della testimonianza e dell’azione concreta, per cercare di far revocare queste decisioni, così come fanno le manifestazioni sindacali. Ma dobbiamo essere consapevoli che siamo nel campo del riformismo, che in alcuni casi può ottenere risultati, certo provvisori, ma sempre validi. Soprattutto se la pressione diventa particolarmente forte: le due più grandi manifestazioni della Manif pour tous nel gennaio e nel marzo 2013 sono state molto impressionanti e ricordano quelle del Mouvement pour l’école libre del 1984, che misero in ginocchio il governo; ma con la grande differenza che il Mouvement pour l’école era in definitiva un movimento interno al mondo democratico, un braccio di ferro tra la sua ala destra, con il suo elettorato cattolico, e la sua ala sinistra.

Resta il fatto che ciò che è in discussione di queste leggi è il loro principio, cioè che la possibilità di violare la legge naturale (dissolubilità del matrimonio, sterilizzazione delle donne per compiere atti sessuali, aborto) è una questione di «volontà generale». Sarebbe quindi insufficiente limitarsi a fare pressione sul potere politico per cambiare le leggi sbagliate, anche se – cosa che non accade – ciò producesse qualche effetto temporaneo.

L’inadeguatezza era sostanzialmente la stessa nei vari episodi di mobilitazione che le autorità ecclesiastiche esortavano i cattolici a condurre nella lotta contro le leggi anticlericali. In sostanza, si trattava di un’azione riformista su larga scala: integrare le istituzioni laiche per evitare che facessero leggi sbagliate. Non ha avuto il successo sperato. Sia chiaro: non stiamo dicendo che organizzare una pressione attraverso manifestazioni o altri mezzi sui poteri democratici per abrogare una legge sia un atto di ralliement**, ma solo che l’inadeguatezza dei due approcci è identica se non è accompagnata, in un modo o nell’altro, dalla condanna dei principi ingiusti che permettono l’approvazione di leggi ingiuste.

L’occasione mancata della Manif pour tous: liberare il matrimonio religioso dal matrimonio repubblicano


Se si vuole esercitare una pressione, anche attraverso manifestazioni, bisogna inserirvi, quanto più esplicitamente possibile da un punto di vista pedagogico, l’obiettivo finale, pur remoto, di ristabilire una società istituzionalmente cristiana. Infatti, se il cattolico coerente vive, si guadagna il pane esercitando un’attività professionale, educa i suoi figli, organizza la sua vita religiosa, all’interno di una società intrinsecamente estranea all’ordine naturale e cristiano, deve orientare tutte le sue azioni (o eventualmente le sue astensioni), come linee di un disegno prospettico, verso l’obiettivo, per quanto lontano e per quanto puramente utopico, di rimuovere ciò che ha preso il posto della Città cristiana.

Prendiamo l’esempio dell’occasione persa dalla Manif pour tous. L’opposizione alla legge Taubira da parte dei cattolici voleva impedire che il cosiddetto matrimonio omosessuale entrasse nella legislazione civile sul matrimonio. In definitiva, questi cattolici si battevano a favore di un « buon » matrimonio repubblicano conforme alla legge naturale, almeno sotto questo profilo, visto che il matrimonio repubblicano prevede la possibilità di divorziare.

Come già detto, la legislazione sul matrimonio civile è uno degli aspetti della tirannia imposta alla Chiesa cattolica dalla natura laica dello Stato. Essa obbliga i coniugi cattolici (pena sanzioni penali per il ministro del culto) a sottoporsi, prima di darsi il sacramento che per loro è l’unico matrimonio[5], a una cerimonia civile alla quale non riconoscono alcun valore, ma senza la quale non sarebbero riconosciuti i diritti civili connessi all’istituto del matrimonio (i quali oggi si riducono, è vero, a fare donazioni tra coniugi e a esercitare diritti reciproci nell’eredità).

Sarebbe stato quindi necessario spiegare chiaramente il quadro entro il quale i cattolici, in quanto membri della comunità, dovevano esprimersi contro il « matrimonio » omosessuale:

– Da un lato, la loro opposizione non era in alcun modo l’esercizio di una democratica libertà di opinione, ma un dovere morale di testimonianza contro una violenza, che non poteva assumere in alcun modo natura di legge.

– Inoltre, questa ulteriore deriva del matrimonio repubblicano dal diritto naturale offriva loro un’opportunità storica per negoziare il riconoscimento della cerimonia sacramentale del matrimonio come l’unica necessaria per i cattolici, come avviene in Italia e in Spagna, e anche in Inghilterra a certe condizioni, dove il matrimonio religioso è automaticamente considerato come matrimonio civile. Chiedere questa liberazione del matrimonio religioso da quello civile, diventato non si sa cosa, sarebbe stato passare in modo molto concreto dalla critica della legge alla critica della fonte della legge. Il solo fatto di porre sul tavolo questa richiesta fondamentale, anche se infruttuosa, avrebbe portato la critica a questa legge specifica molto più avanti.

È chiaro che solo i vescovi francesi avevano la facoltà di negoziare la liberazione del matrimonio religioso con il potere. Potrebbero ancora farlo, ma sarebbe molto più difficile.

Tutto ciò ci porta a osservare che, in generale, la pressione esercitata dai cattolici militanti dovrebbe essere rivolta anche ai pastori della Chiesa, che sono troppo docili nei confronti di chi detiene il potere, almeno quanto non lo sia verso i detentori del potere politico e gli autori di leggi oppressive o criminali. Proprio come i vandeani chiedevano che i loro signori prendessero l’iniziativa, l’obiettivo primario degli attivisti cattolici per la regalità di Cristo dovrebbe essere quello di garantire che i loro pastori prendano la guida delle loro richieste contro una società secolare, in nome della libertà della Chiesa. Tanto più che la pressione esercitata da questi cattolici contro l’assassinio di persone innocenti non raggiungerà probabilmente il livello di quella esercitata dai Cristeros messicani contro le leggi sulla persecuzione religiosa…

Inoltre, è chiaro che la passività di questi vescovi o, con notevoli eccezioni, la debolezza dei loro interventi, è una delle cause, e non la minore, dell’impotenza cattolica. Infatti, i pastori della Chiesa hanno generalmente abbandonato ogni tentativo di ricostituire una società istituzionalmente cristiana. Qualunque sia l’interpretazione che si possa dare al testo del Vaticano II sulla libertà religiosa, resta il fatto che la dottrina di Cristo Re è stata puramente e semplicemente abbandonata dai leader della Chiesa.

Chiamare i vescovi a tornare ad essere difensori della Città

Spesso ci riferiamo al ruolo di « difensori della città » che i vescovi svolgevano quando l’Impero Romano stava crollando sotto i colpi delle invasioni barbariche. In effetti, i pastori della Chiesa hanno la vocazione ad assumersi il sostegno di quanto si può risollevare nella Città, nel momento in cui le sue strutture naturali vengono meno. Una cosa è certa: oggi la Chiesa, e solo la Chiesa, è in grado di far risplendere la verità agli occhi degli uomini di buona volontà « come una lampada in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno » (2 Pt 1,19).

In ogni caso, i vescovi nascono predicatori morali. La predicazione morale è intrinsecamente politica, poiché mira all’emendazione dell’uomo, che è per natura un essere sociale. Inoltre, la predicazione morale è diventata oggi, per forza di cose, una predicazione politica antimoderna.

Va aggiunto che si tende troppo facilmente a ridurre la legge naturale alla disciplina della morale familiare, soprattutto per dire che, a conti fatti, è sulla morale naturale così intesa che tutti gli uomini di buona volontà possono incontrarsi, e che è questa morale naturale che la democrazia deve rispettare. Questo è stato il principio ispiratore della Nota dottrinale su alcune questioni riguardanti il coinvolgimento e il comportamento dei cattolici nella vita politica, emanata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 24 novembre 2002, che, da un lato, presentava la laicità e la non confessionalità dello Stato come un dato di fatto (« Promuovere il bene comune della società, secondo coscienza, non ha nulla a che vedere con il «confessionismo» o con l’intolleranza religiosa » – n. 6), ma che, d’altra parte, affermava che lo Stato laico gode di « autonomia della sfera politica o civile da quella della religione e della Chiesa – ma non da quella della morale ». In merito, la Nota faceva poi riferimento ai « principi non negoziabili » che i cristiani impegnati in politica devono difendere (difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna; libertà di educazione; tutela dei minori; liberazione dalle moderne forme di schiavitù; diritto alla libertà religiosa; economia al servizio della persona e del bene comune; pace).
Ma questo discorso aveva due punti deboli:

– postula che la democrazia moderna debba sottomettersi al diritto naturale, che per essa è irrilevante, perché fondata sul principio della trascendenza della volontà generale. Se vi si sottomette, è solo accidentalmente, a seconda dello stato dell’opinione in un dato momento.

– trascura il fatto che l’obbligo della società umana di adorare Dio fa parte della legge naturale. Così Leone XIII, nell’Immortale Dei (1 novembre 1885): « In qualsiasi tipo di Stato i principi devono soprattutto tener fisso lo sguardo a Dio, sommo reggitore del mondo, e proporsi Lui quale modello e norma nel governo della comunità […] È chiaro che una società costituita su queste basi deve assolutamente soddisfare ai molti e solenni doveri che la stringono a Dio con pubbliche manifestazioni di culto. La natura e la ragione, che comandano ad ogni singolo individuo di tributare a Dio pii e devoti atti d’ossequio, poiché tutti siamo in Suo potere e tutti, da Lui originati, a Lui dobbiamo ritornare, impongono la stessa legge alla società civile. […] È necessario dunque che la società civile, istituita per l’utilità comune, nel perseguire la prosperità dello Stato provveda a che i cittadini, nel loro cammino verso la conquista di quel sommo e immutabile bene al quale naturalmente tendono, non solo non vengano in alcun modo ostacolati, ma siano favoriti con ogni opportunità. [… E questo nella] unica vera [religione che] è quella che Gesù Cristo stesso ha fondato ed affidato alla sua Chiesa perché la difendesse e la propagasse ». E Pio XI in Quas primas (11 dicembre 1925): « il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti ».


* * *

Per quanto utopica possa sembrare oggi una simile affermazione, essa costituisce tuttavia una sorta di spina dorsale per tutte le rivendicazioni a favore dell’applicazione della morale naturale (rispetto della vita innocente, indissolubilità del matrimonio, ecc.) nel diritto degli uomini. Infatti, se vogliamo parlare di « principi non negoziabili », IL « principio non negoziabile » per eccellenza, che deve comandare, abitare e specificare ogni azione dei cattolici nella Città, anche se la sua realizzazione concreta sarà indubbiamente molto lontana, è questo: la Città dell’uomo deve essere sottomessa a Dio e onorarlo pubblicamente, e, una volta che questa Città ha vissuto il « battesimo » cristiano, ha la vocazione di farlo come tale.

Don Claude Barthe, 1 maggio 2024


* Nota del traduttore: l’aggettivo sociétal, usato nel testo originale francese, non trova un lemma esattamente corrispondente in italiano. Significa «pertinente ai vari aspetti della vita sociale degli individui, nella misura in cui essi costituiscono una società organizzata» (Diz. Larousse). Si è ritenuto di tradurla con «sociostrutturale».


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[1] 50 ans de résistance à l’avortement (3/3): Combat contre l’avortement et transition postdémocratique – L’Homme Nouveau.
[2] Marc Guelfucci, Éléments pour une définition du mariage, Thèse Université Panthéon-Assas, 2008.
[3] « Le droit constitutionnel à l’avortement: la démocratie réalisée? » : Le droit constitutionnel à l’avortement: la démocratie réalisée? par Yves-Marie Adeline – Le Courrier des Stratèges (lecourrierdesstrateges.fr).
[4] San Tommaso, Somme théologique, Ia IIæ, q. 95, a. 2, et q. 96, a. 4.
** Nota del traduttore: adesione al «regime in cui il cittadino non riconosce nessun vincolo superiore a se stesso, nessuna legge di Antigone, ma solo la libertà».
[5] «Tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento» (Codice di Diritto canonico, can. 1055).




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