Di Silvio Brachetta, 2 MAG 2024
A Trieste c’è la febbrile preparazione della 50a Settimana sociale dei cattolici in Italia, dal 3 al 7 luglio prossimi, sotto la guida del Vescovo locale mons. Enrico Trevisi. Il titolo ha un sapore laico: “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”.
E il Vescovo finora si è attenuto rigorosamente al tema. La parola «democrazia» è onnipresente e centrale in ogni iniziativa collegata all’evento. All’emittente locale tergestina (Telequattro) hanno trasmesso quattro puntate del programma “Piazze della democrazia”. E già la Cattedra di San Giusto si è esaurita nei consueti quattro appuntamenti semestrali: “La democrazia alla prova del futuro”, “La democrazia alla prova dell’economia”, “La democrazia alla prova della pace”, “La democrazia alla prova delle città”.
Ignorata la Dottrina sociale della Chiesa
Dove si vuole andare a parare? Lo spiega don Stefano Stimamiglio, attuale direttore di Famiglia Cristiana, invitato a Trieste da mons. Trevisi e intervistato su “I media: ostacolo o risorsa per la partecipazione democratica?”. Anche in questo caso, nessun rischio di andare fuori tema.
Secondo don Stefano, le Settimane sociali dei cattolici (da Toniolo in poi) sono questo: un «incontro importante, che viene fatto ogni due anni, in cui la Chiesa italiana fa una riflessione sul vivere comune, sul vivere – in questo caso – democratico». Non è proprio così. Le Settimane sociali, fondate dal beato Giuseppe Toniolo, sono «riunioni di studio per far conoscere ai cattolici il vero messaggio sociale cristiano», ovvero una guida all’azione dei cattolici nella società. Non una riflessione generica sul vivere comune o sul vivere democratico, ma sul vivere comune illuminato dalla Dottrina sociale della Chiesa, illuminato da Gesù Cristo.
Il card. Pietro Maffi (1858-1931), arcivescovo di Pisa, alla Prima Settimana sociale del 1907, fu ancora più chiaro. I cattolici – disse – sono chiamati «per procurare ed assicurare a noi ed ai nostri fratelli il pane del corpo, il pane della giustizia, il pane della carità, il pane della verità, il pane della virtù e il pane infinito delle anime», sull’esempio di Gesù Cristo, che ha moltiplicato i pani e i pesci per i discepoli e per i seguaci.
Don Stefano Stimamiglio, durante l’incontro, non si è mai riferito ad alcunché di religioso, né alla Dottrina sociale, completamente assente nel suo discorso, né ad un accenno generale alla necessità di una qualsiasi dottrina. È mancato ogni riferimento alla questione della verità, alla trascendenza, alla virtù personale e sociale, alla carità o a una qualunque caratteristica peculiare del cattolicesimo.
Il compromesso come processo irreversibile
Nelle Settimane sociali, almeno fino al secondo dopoguerra, la Dottrina sociale è sempre rimasta al centro, come insegnamento, non come principio ispiratore. Dall’inizio del XX secolo, si è discusso di movimento cattolico, di educazione e scuola, di organizzazione sindacale, di mondo del lavoro, di famiglia, di cultura, dello Stato nella dottrina cristiana e pure di democrazia. Ma di nessuna di queste tematiche se n’è fatto un assoluto o l’approdo definitivo del cristianesimo, come invece sembra accadere a Trieste.
Ne fa invece un assoluto il direttore di Famiglia Cristiana, che riassume il dramma della nostra epoca negli effetti: l’estinguersi della partecipazione alla cosa pubblica, mediante votazione democratica. Infatti – dice – «abbiamo questo tesoro, che è la Costituzione, e dobbiamo difenderlo da tutti i punti di vista». Non abbiamo come tesoro il Vangelo, che non cita mai, ma la Costituzione.
Gli apostoli sono rimpiazzati dai «padri costituenti», i quali «hanno concepito una costituzione che ha retto ottant’anni e che aveva un elemento in comune, che non era la fede – fede sì o fede no (da quando è caduto questo famoso non expedit[1] della Chiesa) –, ma era il bene comune, cioè il maggior bene possibile date le risorse disponibili». C’è quindi, secondo Stimamiglio, una Chiesa prima del non expedit (fino al 1919), fondata sulla fede e nemica della democrazia partecipata, e una Chiesa post non expedit, dove s’è imposta «la forma di partecipazione alla cosa pubblica che più ha a cuore la persona umana, senza essere confessionali».
Questo è il peccato mortale della Chiesa: essere confessionale. E la Chiesa, prima del 1919, «è passata per delle fasi in cui ha combattuto la democrazia»: considerava cioè la democrazia – afferma convinto don Stefano – «come una negazione quasi del principio teologico per cui tutto deriva da Dio e la verità non può essere oggetto di compromesso nell’arena politica». Caduto il Fascismo, la Chiesa è finalmente scesa al compromesso col mondo e si è democratizzata mediante un processo irreversibile.
Non poteva poi mancare, durante l’intervista, l’elogio della Rivoluzione francese, altro elemento che divide la storia in un ‘prima’ peggiore e in un ‘dopo’ migliore. Durante l’Ancien Régime[2], osserva l’intervistato, «il potere era incarnato dal monarca», «la partecipazione era zero e la gestione del potere politico era nelle mani di uno o di pochi». Per fortuna, la «Rivoluzione francese ha fatto fare un salto» e «la partecipazione al voto è un po’ aumentata», fino al Novecento.
Il popolo, nella società cristiana, è sempre stato coinvolto e partecipe
Il primo ad essere in disaccordo completo con questo schemino – per nulla originale, ma ripetuto senza modifiche dai democratisti contemporanei – è proprio il Toniolo e, con lui, tutti i Pontefici delle encicliche sociali. In Toniolo, la democrazia ha poco o nulla a che fare con le elezioni o la partecipazione ai suffragi universali[3]. Anzi, Toniolo (a differenza di don Stimamiglio) non parla neppure di democrazia, ma sempre e solo di «democrazia cristiana» e – sempre e solo – di un concetto politico per nulla applicabile al partito della Democrazia Cristiana storica o alla democrazia spuria e liberale di molti dei cattolici odierni.
La democrazia cristiana di Toniolo è il potere dei principi, che discende sempre da Dio e mai sale dal popolo, completamente rovesciato nel servizio al démos, cioè ai poveri, ai malati (prima) e alle persone di ogni ceto sociale (poi). Non c’entra nulla, con il pensiero di Toniolo, la decisione a maggioranza, né la scheda elettorale, né tantomeno il compromesso democratico/liberale con le ideologie politiche.
Toniolo, inoltre, non solo non distingue una Chiesa contro la rappresentanza da un’altra a favore, ma pone il massimo della partecipazione popolare e associata nel passato – nel medioevo, in particolare. I ceti inferiori, soprattutto, furono da sempre formati dalla Chiesa «a partecipare alla pubblica cosa» e la «rappresentanza» popolare si unì, col trascorrere dei secoli, al potere del principe, con grado di coinvolgimento sempre maggiore. Mai vennero meno, in ambito di Cristianità, il «petere» e l’«acclamare», ovvero i due massimi diritti del popolo. Ne vennero fuori i comuni, le corporazioni, le anse, i cantoni, le provincie unite, i fueros ed altre forme di istituzioni democratiche.
Non si trattava di una società che andava avanti a compromessi sui fini, ma l’orizzonte all’unico fine (Dio), innescava una pluralità armonica e ordinata di azioni e capacità diverse. Non ha senso allora, per Toniolo, una storia spaccata in due, dalla Rivoluzione francese o dal non expedit, dove il ‘prima’ è regresso e il dopo è ‘progresso’. Il progresso è solo dove c’è stata, c’è e ci sarà armonia tra potere politico e potere religioso (cattolico), non divisione.
Frainteso il “bene comune”
Un altro motivo di forte ambiguità è su come don Stimamiglio parla del bene comune, da lui definito (come su riportato) «il maggior bene possibile date le risorse disponibili». È una definizione assai riduttiva. Ma non basta, perché don Stefano approfondisce. Il bene comune si divide tra risorse e bisogni, con un esempio pratico: «Le risorse sono 100, i bisogni sono 170: noi possiamo spendere 100. Dove li spendiamo? Qual è l’urgenza principale? La sanità? L’economia? Il mercato delle armi?».
Ecco, il bene comune, a parere del direttore di Famiglia Cristiana, pare essere un bene esclusivamente materiale e si basa sulla suddivisione delle ricchezze. Questo, però, è il bene comune di una mentalità secolarizzata. Anche in questo caso, la Dottrina sociale della Chiesa dice ben altro: il bene comune è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente»[4]. Va da sé che le cose vanno a perfezione sia per via naturale e materiale ma, in modo decisivo, per via soprannaturale, di grazia.
La Chiesa si occupa, appunto, del soprannaturale e della grazia. Non si occupa, invece, delle decisioni prese a tavolino, sulla base di un miscuglio tra dottrina e ideologia, in cui si decidono insieme «le regole, secondo le quali il nostro vivere viene regolato per il bene di tutti» (Stimamiglio). Un bene comune fondato unicamente su di una dimensione orizzontale non è un bene, ma un male comune. Per questo è fonte di equivoco dire – come difatti don Stefano dice – che «la politica è il bene comune, a cui si arriva attraverso un discernimento che viene dal dialogo».
È vero che il fine della politica è il bene comune, ma non è sufficiente la politica per cercarlo e trovarlo. E nemmeno è sufficiente il dialogo che, semmai, può anche essere di ostacolo: è invece necessario l’ossequio della ragione alla verità rivelata, la cui diffusione è dovere della Chiesa, così come l’ascoltare è dovere della politica.
I grandi temi ci sono già e non sono banali
Don Stimamiglio fa una prolissa e puntuale disamina delle cause che hanno determinato la disaffezione dei cattolici verso la politica. Dà un quadro preciso della crisi dell’editoria e del giornalismo, dichiara il crollo della carta stampata, denuncia lo strapotere di internet e dell’informazione gratuita, rimpiange i tempi in cui i grandi temi erano dibattuti nelle sedi del partito, nei sindacati, nelle parrocchie. Tutto vero.
E dunque, a seguire: crisi dei giovani e loro incapacità di aggregarsi, apatia. «È una generazione sfiduciata», dice. Vede la soluzione nel ritorno alla capacità di aggregarsi, nel recupero del confronto su grandi temi e nelle politiche di lungo termine. È pochino, è banale. E chi dà ai giovani i grandi temi, su cui aggregarsi? Su che cosa si dovrebbe fondare una politica lungimirante e di lungo termine?
Quali grandi temi poi? La Costituzione? La democrazia? Può un sacerdote limitarsi a questo appiattimento? E dove sono, inoltre, i veri problemi sociali, taciuti perché ritenuti di poca importanza e invece fondamentali? Sono, tra l’altro, proprio le grandi democrazie liberali che hanno immiserito la scuola pubblica, gli spazi di aggregazione, lo spirito d’iniziativa, l’economia, il sindacato – il partito, persino, ora solo macchinetta di potere a gettone. È la democrazia liberale che ha portato la corruzione a sistema. Può a un giovane ardere il cuore quando sente parlare di democrazia o di partecipazione? O non sarà forse ben altro a farlo infuocare.
Alla Settimana sociale di Trieste si parlerà di Dottrina sociale, di formazione, di evangelizzazione, d’identità, di verità, di famiglia naturale? Si parlerà di fondare le virtù personali e sociali? Si parlerà delle scuole parentali? Si parlerà della centralità di Gesù Cristo nelle realtà sociali? Perché don Stimamiglio (assieme a molti altri) tace su tutto questo?
I gradi temi e le grandi idee sono belle e pronte, in attesa di essere comunicate. Li vogliamo moltiplicare o no i pani e i pesci?
Silvio Brachetta
(Foto: Wikipedia, Di FrancescoRSchillaci)
[1] «Non conviene» [ai cattolici partecipare alla vita politica dello Stato italiano, ndr]: coniato dalla Sacra Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari il 30/01/1868. L’astensionismo era proposto come opposizione intransigente al liberalismo e al democratismo risorgimentali. La Disposizione è stata ritirata da Benedetto XV nel 1919.
[2] L’Antico Regime è il nome dispregiativo che i rivoluzionari francesi attribuivano al passato: all’inizio al passato prossimo (assolutismo monarchico) ma, per estensione, al passato remoto, ovvero al passato tout court, tempo di barbarie e di superstizione religiosa. Ovviamente, i rivoluzionari di ogni tempo credono di vivere il Nouveai Régime (il Nuovo Regime), fatto di progresso e di vera libertà.
[3] Cf. Giuseppe Toniolo, Il concetto cristiano della democrazia, in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie», Vol. 14, Fasc. 55 (Luglio 1897). Da questa opera traggo, in questa sede, tutte le considerazioni relative a Toniolo.
[4] Costituzione pastorale Gaudium et Spes, n. 26, Concilio Vaticano II.
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