In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 30 aprile, il giornalista e saggista Federico Rampini affronta il tema del crollo demografico. Un problema che sta diventando allarmante per i paesi industrializzati specie in occidente. Il calo vertiginoso delle nascite ha infatti degli effetti devastanti sull’economia del paese e sulla sua sostenibilità ma è ormai opinione comune che sia anche un sintomo di una stanchezza esistenziale e di una mancanza di fiducia nel futuro. Merito di Rampini è quello di portare all’attenzione dei lettori italiani l’analisi condotta dal giornalista John Burn-Murdoch del Financial Times che riassume gli esiti si diversi studi in materia demografica.
In estrema sintesi gli studi dimostrano che gli incentivi economici che i governi offrono ai cittadini per favorire la natalità sono del tutto irrilevanti per le coppie in età fertile alle prese con la decisione di mettere o non mettere al mondo un (o un altro) figlio. Una conclusione che, banalmente, anche il buon senso può confermare se si pensa che “i tassi di fertilità e natalità rimangono più elevati in paesi più poveri, quindi non è certo la mancanza di mezzi a giustificare il crollo delle nascite nei paesi ricchi”.
La maggior parte dei paesi che oggi affrontano il rigido inverno demografico che attraversa il primo mondo, hanno capito l’alta posta in gioco e cercano di invertire la rotta con misure economiche volte a incentivare la nascita di nuovi bambini. Persino la Cina che per anni imposto l’iniqua legge del figlio unico (per la quale hanno pagato con la vita milioni di bambini, specie di sesso femminile, e per la quale oggi mancano all’appello 400 milioni di bambini cinesi) è oggi costretta a fare marcia indietro e a offrire sussidi alle coppie intenzionate a procreare al fine di cercare di invertire la rotta.
Ma i dati mostrano che la generosità dei governi non paga. Non è dunque solo una questione di soldi ma di cultura, di visione della vita e di priorità personali e familiari. Questo non significa che gli aiuti economici non siano utili e necessari, scrive Rampini, “basta non illudersi che servano a invertire la tendenza alla denatalità” perché, è evidente che “i fattori culturali intervengono a monte nelle decisioni, molto prima che i costi di allevare un figlio siano presi in considerazione”.
Tra i fattori che determinano la decisione di non fare figli, “il più importante di tutti sembra essere la fiducia nel futuro. Una generazione convinta di essere alla vigilia dell’Apocalisse, o di vivere in una civiltà malvagia, in un mondo infernale segnato dalle peggiori ingiustizie, perché mai dovrebbe fare figli?”.
Un altro fattore culturale può riassumersi nella esagerata attenzione che si pretende, o si pensa, di dover offrire al bambino in qualità “cure, investimenti, attenzione, educazione…”. Uno standard così alto da scoraggiare i genitori di fronte a tale (troppo alta) responsabilità. Fattore che, in un contesto sociale sempre più agitato e accelerato, contribuisce ad aumentare il grado di stress vissuto dalla generazione chiamata oggi a generare figli.
C’è poi la questione delle priorità personali. Troppo spesso infatti in cima alla pianificazione familiare c’è la realizzazione professionale della coppia (che richiede tempo, fatica e investimenti) e difficilmente si concilia con una gravidanza e con la nascita di un figlio che richiede dei sacrifici (in termini economici, fisici e organizzativi) che rallenterebbero inevitabilmente (o per lo meno distrarrebbero) i genitori nel perseguimento del loro primo obiettivo, quello della carriera. A conferma di questo dato è l’età media, sempre più alta, delle donne che hanno la prima (e spesso l’ultima) gravidanza: dato evidente dalle statistiche e confermato empiricamente dai reparti di maternità degli ospedali italiani.
Un elemento importante da tenere in considerazione è il costante stato di allarme che le giovani generazioni sono costrette a subire da una narrazione catastrofica che negli ultimi anni ha diffuso paura e angoscia per il futuro del pianeta. “In America, in Europa, in Estremo Oriente, la generazione sotto i trent’anni è più impaurita dal futuro e più stressata rispetto alle altre generazioni”.
È ciò che emerge con chiarezza anche nel recente “Rapporto Giovani” promosso dall’Istituto Toniolo e riportato da Avvenire in un articolo di Massimo Calvi pubblicato l’1 maggio. Il rapporto ha rilevato in particolare “una preoccupazione maggiore per il futuro ambientale ed economico nel nostro Paese” rispetto agli altri paesi del continente.
Nello studio del Toniolo la questione climatica non è l’unico elemento che condiziona le scelte delle nuove generazioni, tuttavia emerge come fattore nuovo e spesso determinante nelle scelte dei giovani europei – ed in particolare di quelli italiani – tanto da portare gli analisti a parlare di “eco-ansia” che condizionerebbe le scelte familiari delle giovani famiglie. L’idea – ripetuta come mantra da alcune scuole di pensiero e riportata ciclicamente (e acriticamente) dai media – secondo la quale i figli danneggerebbero il pianeta e metterebbero a rischio la sopravvivenza della specie ha creato nelle giovani generazioni, specie in coloro che mancano di una discreta capacità critica, uno stato di frustrazione e di sfiducia che ha come prima conseguenza quello di non considerare la procreazione come un bene ma, al contrario, come un gesto eticamente irresponsabile, da evitare.
Nel rapporto del Toniolo emergono in ordine le maggiori preoccupazioni dei giovani: “per la propria situazione economica (70%), ma anche per quello che troverà in futuro il proprio eventuale figlio come situazione economica (68%) e climatica (62%). Così come l’incapacità di voler ‘abbandonare un certo stile di vita’ (61%)”.
Questi risultati a prima vista possono sembrare in contraddizione con quelli riportati da Burn-Murdoch (e ripresi da Rampini sul Corriere). Tuttavia confermano che l’aspetto economico non è l’unico fattore dirimente della questione denatalità. La crescente preoccupazione per il clima è un elemento nuovo che nasce da una narrazione pressante, mentre la ricerca della propria realizzazione nel lavoro e di un certo stile di vita, confermano che il problema fondamentale è l’incapacità di rinunciare al progetto “personale” per realizzare un progetto “familiare”.
Complice, forse, un progressivo disgregarsi del concetto di famiglia come valore. Tirata in ballo per campagne ideologiche e snaturata per modellarla su richiesta delle nuove esigenze e mode, la famiglia non rappresenta più un campo dove poter realizzare la propria vita ma, al contrario, un intralcio per la realizzazione di un progetto di crescita e affermazione personale.
In termini spirituali si potrebbe decifrare anche la completa assenza di capacità di sacrificio, parola ormai desueta e spesso utilizzata per ricordare le gesta di nonni e genitori anziani che hanno dato tutto per le future generazioni; gesta che le giovani generazioni non mettono in conto di dover (o poter) imitare, preferendo rinunciare ai figli per salvare il proprio stile di vita e – magari – anche il pianeta.
Si potrebbe affermare che più allarmante del calo demografico sono i motivi che lo provocano. Sono dati preoccupanti (e in un certo senso sconfortanti) che mostrano l’urgenza di un cambio radicale di mentalità (in termini spirituali: di una conversione) per il quale non saranno sufficienti i bonus, gli sgravi fiscali e i diversi incentivi che pur fanno comodo alle famiglie che decidono di aprirsi alla vita.
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