ABORTO | CR 1848
di Fabio Fuiano, 22 Maggio 2024
Il 22 maggio 2024 ricorre un triste anniversario: quello della promulgazione dell’iniqua legge 194 che ha liberalizzato l’aborto nel nostro paese. Un tale anniversario non può passare sotto silenzio, a maggior ragione visto il dibattito che si è innescato nelle ultime settimane. Proprio a tal proposito, la circostanza fornisce un assist per riflettere sugli argomenti che sono stati posti sul tavolo. Non è utile soffermarsi su quelli del fronte abortista, sempre uguali dagli anni ’70, solo con toni più estremizzati. Ma una riflessione su quelli pro-life è d’obbligo. Il panorama pro-life italiano risente di una impostazione culturale tanto forte quanto equivoca che il prof. Mario Palmaro (1968-2014), nel suo libro Aborto & 194 (Sugarco, 2008), riassumeva in questo modo: «tutto ciò che è ormai legge dello Stato, e che gode di consenso diffuso nella società, deve essere accettato così com’è. Anzi: bisogna evitare di denunciare la sua ingiustizia per ragioni “strategiche”. Di più: bisogna cambiare il nostro sguardo, modificare il giudizio originario, e vedere in ciò che un tempo chiamavamo iniquo addirittura i segni del buono e del giusto» (p. 72).
Questa posizione pro-life coniuga una sorta di “indulto etico” per ciò che ormai è legge dello Stato (divorzio, contraccezione, aborto chirurgico, fecondazione artificiale) ad una notevole combattività contro ciò che ancora non è divenuto legge e prassi civile (si veda, ad esempio, la pratica dell’utero in affitto). Una linea predominante, affermava con amarezza Palmaro, che «guarda con fastidio a coloro che, invece, siano ancora convinti della necessità di proclamare la verità tutta intera su ciò che appartiene ormai al “paesaggio” della nostra civiltà: la legalizzazione del divorzio, dell’aborto, la legittimazione della contraccezione come stile e mentalità di vita […]» (p. 73). Ed ecco che chiunque non condivide tale analisi finisce marginalizzato ed escluso.
Secondo questa nuova impostazione, «dire “tutta la verità sulla 194” può essere considerato un atto pericoloso, addirittura controproducente perché se contesti frontalmente una legge provochi una reazione di chiusura e così non otterrai alcun risultato» (ivi). Ed ecco l’unico reale obiettivo di gran parte del mondo pro-life attuale: il cosiddetto “risultato”. Mario Palmaro osservava molto opportunamente che il pro-life moderno «si muove in una prospettiva mutuata essenzialmente dalla politica, fatta di astute strategie ed equilibrismi bizantini. La logica è che si possa rosicchiare qualcosa alla cultura della morte evitando di dire la verità. Per cui, vengono messe al bando le affermazioni di principio, considerate apodittiche e sintomo di personalità un tantino integraliste. Non si dirà più che “l’aborto è l’uccisione di un essere umano innocente” e che “nessuna legge umana può trasformare questo delitto in un diritto”. Ma si dirà: “L’aborto è un dramma della donna, la legge 194 ha il merito di aver fatto emergere il problema, vediamo di applicare meglio la legge”» (pp. 73-74).
Una volta rivestita dei suoi aspetti emotivi, tale operazione funziona, purtroppo, molto bene e riesce a convincere molti pro-life anche in perfetta buona fede. Al punto che, in poco tempo «la strategia si confonde e si sovrappone all’ortodossia; la tattica si mangia la verità. In sintesi, potremmo riassumere così la posizione di questa nuova “cultura della vita” (ma le virgolette sono d’obbligo): quello che è accaduto nel passato, accettiamolo e proviamo a leggerlo in chiave positiva; quello che deve ancora accadere, combattiamolo» (p. 74).
Il filosofo del diritto aveva ben compreso il problema insito in una tale prospettiva, la quale si adatta come un guanto alla strategia rivoluzionaria della cultura della morte: essa vuole «modificare continuamente “la linea del Piave morale”, obbligando chi prova a resistere a spostare continuamente la propria linea difensiva». Questo riadattamento della linea difensiva è già avvenuto innumerevoli volte. Infatti, «un tempo vi fu la battaglia per il divorzio, e la combattemmo, avendo ben presente che: o il matrimonio è indissolubile o non è. Per un po’ di tempo l’iniquità di quella legge è stata denunciata. Ma poi, il tempo ha attutito e poi zittito ogni critica. Sono passati più di 40 anni (ora 54 nda.), e oggi di questa verità non si parla più» (ivi).
In seguito, arrivò la legge sull’aborto e la battaglia fu aspra. All’epoca, tutto il fronte pro-life era consapevole della mostruosità di una tale norma, frutto di un becero femminismo che purtroppo rivive in alcune affermazioni del mondo pro-life attuale. Tutti sapevano che la 194 era fondata sul principio di autodeterminazione della donna come legittimazione alla uccisione di un innocente. In effetti, «per un po’ di tempo queste cose furono dette. Poi si è cominciato a tacere. Passarono gli anni, e anche quella posizione si è annacquata. Poi – nel linguaggio istituzionale del più importante movimento pro-life italiano – hanno fatto capolino “le parti buone della legge”. Che è come se un’associazione contro la pena di morte cominciasse a dire: “Beh, nella legge che regolamenta la pena di morte in California ci sono delle parti positive da applicare: il giusto processo; la rapidità dell’iniezione letale; il diritto del detenuto a confessarsi prima di morire…”» (pp. 74-75).
Ed ecco il problema, mutatis mutandis: cosa succederà con la legalizzazione del prossimo male intrinseco? Palmaro faceva l’esempio di una nuova legge che liberalizzi completamente l’eutanasia: «passano gli anni, e nella mentalità comune si diffonde la convinzione che uccidere gli ammalati in certi casi è cosa buona e giusta. Inoltre, la legge sull’eutanasia conterrà pure delle parti buone, come ad esempio consentire ai Neo-CAV (Centri di Aiuto al Vecchietto) di provare a dissuadere qualcuno dal farsi ammazzare» (p. 75). Cosa impedisce di pensare ad un grottesco epilogo in cui i pro-life del futuro arriveranno a difendere una tale legge visto il metodo che si applica oggi nei confronti della 194?
Chi mette in rilievo tali contraddizioni, di solito è accusato dai nuovi pro-life di «scegliere una comoda strada, quella dell’Aventino, su cui si ritirano rendendo la loro testimonianza senza combinare nulla di concreto. Che, detto a gente che vive controcorrente una vita intera, è l’offesa più grave che gli si possa rivolgere. Di peggio: quelli che ripetono ogni giorno che la legge 194 è intrinsecamente ingiusta verranno raffigurati in maniera caricaturale, quasi si trattasse di trogloditi armati di clava, capaci solo di ripetere come un mantra: “Abbasso la legge 194”. E del tutto avulsi dalla realtà in cui vivono» (ivi).
Ma non è così. È possibile fare entrambe le cose: «denunciare con forza e verità che la 194 non è una legge ma una “corruzione della legge” (nel senso tomistico dell’affermazione); e tentare le vie possibili di reformatio della legge in senso migliorativo». Come notava giustamente Palmaro, «non è pensabile di arrivare alla seconda fase, se nessuno si prende la briga di proclamare incessantemente l’iniquità della legge 194. Se diciamo infatti che “è buona”; o che “va solo applicata bene”, chi mai potrà pensare di cambiarla, anche un pochino?».
È umanamente comprensibile che dopo anni di lotte e di delusioni si possa essere tentati di salire sul carro di quelli che, solo apparentemente, sono i vincitori. Ma non possiamo farlo: lo dobbiamo a quei milioni di innocenti che hanno perso e continueranno a perdere non la battaglia, ma la stessa vita e lo dobbiamo, innanzitutto, alla verità e alla giustizia.
Oggi più che mai è necessario recuperare un vero senso di militanza: combattere nel concreto e pregare per riparare i terribili peccati commessi dall’umanità, la quale non avrà mai vera pace se non in quell’ordine naturale e divino che ci si ostina a voler infrangere.
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