Negli anni Trenta (1931-1939), la Chiesa e i Cattolici in Spagna furono vittime di leggi discriminatorie, torture e massacri
di Alberto Rosselli
Come scrisse lo storico Gregorio Marañón y Posadillo,
«la Seconda Repubblica Spagnola, proclamata nel 1931, instaurò un sistema che,
dietro una facciata di democraticità, si rivelò assolutamente irrispettoso di
ogni libertà individuale e religiosa», situazione che durante la Guerra Civile
(1936-1939) peggiorò a tal punto che il 1° luglio 1937 l’episcopato spagnolo fu
costretto ad inviare in Vaticano una lunga e dettagliata relazione sulla
«sistematica violazione da parte del governo repubblicano di tutti i diritti
fondamentali della persona umana: violazione che ha avuto inizio nel 1934, in
concomitanza con la cosiddetta “rivoluzione rossa di ottobre” scoppiata nelle
Asturie, sommossa che aveva come scopo l’instaurazione di un regime comunista
ateo e l’eliminazione del Cattolicesimo». Tale denuncia fu avvalorata dalle
osservazioni di molti diplomatici stranieri presenti in Spagna e da altrettanti
uomini di cultura iberici, anche lontani dalle posizioni franchiste. «In
seguito alla violenta rivoluzione del 1934 – annotò il funzionario d’ambasciata
e letterato don Salvador de Madariaga – la Sinistra spagnola perse addirittura
qualsiasi autorità morale per condannare la ribellione franchista del luglio
1936». Accusa, questa, confermata da una serie infinita di documentati soprusi
perpetrati dalle autorità repubblicane e dai gruppi organizzati
anarchico-comunisti ai danni dei Cattolici. Durante la cosiddetta «rivoluzione
delle Asturie», bande di anarchici e marxisti lasciate libere di agire
assassinarono trentasette fra sacerdoti, seminaristi e religiosi ed
incendiarono cinquantotto chiese. Il «massacro» delle Asturie ufficializzò, se
così si può dire, l’inizio del lungo martirio della Chiesa Iberica che nel
1931, tramite i suoi Vescovi, aveva riconosciuto come legittimo il nuovo
esecutivo repubblicano.
L’atteggiamento violentemente antireligioso di buona
parte dello schieramento politico repubblicano ebbe dunque modo di manifestarsi
– contrariamente a quanto sostenuto per decenni dalla pubblicistica di Sinistra
– ben prima della cosiddetta «rivolta franchista». In concomitanza con gli
assalti alle chiese da parte dei gruppi anarchico-marxisti delle Asturie, il
governo madrileno emanò infatti una sequenza di leggi direttamente o
indirettamente anticattoliche. Basti pensare all’importante organismo istituzionale
delle «Cortes Constituyentes» della Repubblica, i cui seggi furono totalmente
occupati da elementi massoni violentemente anticlericali, da comunisti e in
misura minore da anarchici. Secondo il gesuita Ferrer Benimeli, uno dei
maggiori esperti in materia, nella prima metà degli anni Trenta ben 183
esponenti della massoneria più anticlericale entrarono nelle «Cortes
Constituyentes», fornendo un valido contributo alla lotta contro la Chiesa
Cattolica e le sue istituzioni. La massoneria ebbe quindi un notevole influsso
nell’elaborazione della legislazione anticattolica, o meglio atea, della
Repubblica. D’altra parte, uno dei padri della Seconda Repubblica Spagnola,
Manuel Azaña, era convinto che lo Stato dovesse diventare laicista nel senso
più radicale ed esasperato del termine. Egli voleva una Chiesa mansueta e
sottomessa, dominata e controllata dallo Stato, e se ciò non fosse risultato
possibile si sarebbe dovuto eliminarla. Azaña non era solo contro il
Cattolicesimo spagnolo nella sua forma storica concreta, ma contro il
Cristianesimo in quanto tale.
La quasi totalità dei leader repubblicani vedeva nella
Chiesa di Cristo un pericoloso ostacolo alla realizzazione di un Nuovo Stato
totalmente laicista e ateo. Non a caso, nel 1931, la Repubblica varò una serie
di leggi atte a paralizzare l’attività della Chiesa, abolendo anche
associazioni e ordini importanti, come la Compagnia di Gesù. La dissoluzione di
quest’ordine fu giustamente interpretata dai Vescovi spagnoli non soltanto come
un abuso, ma come un vero e proprio attacco alla Santa Sede. Il decreto di
scioglimento della Compagnia è un esempio paradigmatico della violenta
discriminazione repubblicana nei confronti della Chiesa, senza considerare che
il provvedimento in questione andava contro la stessa Costituzione che
riconosceva i diritti fondamentali degli ordini religiosi.
D’altra parte, fino dall’insediamento al potere del
governo repubblicano, la gerarchia cattolica iberica percepì il rapido
evolversi di una drammatica situazione di intolleranza, come dimostra il
rapporto del 16 ottobre del ’31 dell’Arcivescovo di Tarragona, Cardinale Vidal
y Barraquer, al nunzio apostolico vaticano, Cardinale Eugenio Pacelli (il
futuro Papa Pio XII). Ciononostante – e probabilmente dietro indicazioni del
Vaticano – la Chiesa Spagnola tentò per mesi e con tutti i mezzi di addivenire
ad un’intesa con il governo madrileno.
Ma nulla valse a modificare l’atteggiamento del
governo che il 2 giugno 1932 per tutta risposta varò la legge sulle
«Confesiones y Congregaciones religiosas» che di fatto minacciava il patrimonio
ecclesiastico e aboliva l’insegnamento religioso nelle scuole. A questo
proposito, la Santa Sede inviò ai Vescovi spagnoli una nota – la Gravis
theologi sententia (redatta proprio dal nunzio, Cardinale Pacelli) – in cui si
davano ai Vescovi alcuni orientamenti sul modo di reagire di fronte a questi
soprusi. I Vescovi, che all’inizio si erano dimostrati prudenti e concilianti,
presero finalmente una posizione più ferma, intervenendo ufficialmente, come
nel caso della Declaración (25 maggio 1933) siglata dai metropoliti, un
documento che denunciava tutte le offese e le violazioni compiute dallo Stato
nei confronti del Cattolicesimo.
Pur non condividendo le tesi franchiste (e tanto meno
quelle degli alleati di Franco, prima fra tutte la Germania di Hitler) il 19
marzo 1937, Papa Pio XI – ormai edotto circa la politica fortemente
anticlericale del governo repubblicano spagnolo – fu costretto a pronunciarsi
con l’enciclica Divini Redemptoris contro il «comunismo ateo», mettendo in
evidenza il pericolo rappresentato da due dottrine – il panteismo
nazionalsocialista e l’ateismo marxista – che si richiamavano entrambe ad un
nichilismo distruttivo ed autodistruttivo.
D’altra parte, in quegli anni bui la Chiesa Spagnola
era ben consapevole di dovere difendere a tutti i costi i principi fondamentali
della giustizia e della pace di fronte all’affermarsi nella società iberica di
ideologie violente ed opposte. Il 18 luglio 1936, quando ebbe inizio la Guerra
Civile – conseguenza logica della violenta e caotica situazione nazionale
venutasi a creare all’indomani delle elezioni del febbraio dello stesso anno,
in seguito alle quali il Fronte Popolare (coalizione composta da socialisti,
comunisti, anarchici ed altri elementi estremisti e violenti) aveva preso il
potere – la posizione della Chiesa Spagnola si fece addirittura drammatica. Il
composito e frazionato governo repubblicano aveva da tempo dimostrato la sua
sostanziale inettitudine nell’affrontare la complessa realtà sociale spagnola,
e dopo alcuni mesi caratterizzati da grande instabilità politica e da disordini
di tutti i tipi, una parte dell’esercito, al comando dei Generali Emilio Mola,
José Sanjurjo e Francisco Franco e appoggiata da gran parte del ceto
aristocratico, borghese e contadino, si sollevò in armi per abbattere un
esecutivo, quello repubblicano, dominato a tutti gli effetti dalla forte
componente comunista e sindacalista. Come spiega senza tante perifrasi l’illustre
storico e politologo cattolico Estanislao Cantero Nuñez «la versione “politica”
e “ideologica”, diffusa in Spagna soprattutto dopo la nuova restaurazione che
ha rotto con la legalità precedente, secondo cui l’alzamiento fu soltanto la
sollevazione – illegale – dei militari contro la legittimità della Repubblica,
è semplicemente propaganda, ma non storia, anche se buona parte di quanti si
definiscono storici, e tali sono generalmente considerati, ha contribuito a
diffonderla. Ancor meno si può sostenere che fu una sollevazione del fascismo
contro la democrazia; e neppure una reazione borghese o delle classi dominanti
in difesa dei loro privilegi di classe, come con assoluta sfacciataggine
afferma Manuel Tuñón de Lara, il tutto dovuto al fatto che la Destra non
accettò la propria sconfitta elettorale nel febbraio del 1936; oppure che si
trattò di una ribellione dei militari, delle classi conservatrici e della
Chiesa contro la ragione e la libertà incarnate in una Repubblica, che aveva
tentato senza successo di condurle a una soluzione moderna, come con completo
misconoscimento dei fatti ha proposto Aldo Garosci. L’alzamiento fu soltanto un
pronunciamento o golpe militare contro un sistema politico che aveva dimostrato
in modo inequivocabile non solo la propria inettitudine, ma la propria
arbitrarietà e conculcato le basi elementari di ogni Stato di diritto. In se
stesso, fu solamente la reazione di alcuni militari, che non potevano assistere
inerti alla distruzione della loro patria nel disordine, nel settarismo, nel
partitismo e nell’anarchia, tutto questo tollerato, auspicato e perfino
provocato dallo stesso governo della Nazione. Quando si verificò l’alzamiento,
il governo era privo di ogni legittimità d’esercizio e il sistema instaurato
con il golpe dell’aprile del 1931 aveva mostrato in modo definitivo la sua
radicale incapacità di garantire la convivenza. Tanto l’uno che l’altro erano
falliti facendo scomparire le sia pur minime condizioni di imparzialità, di
mantenimento dell’ordine pubblico e di orientamento della res publica al bene
comune, esigibili da ogni governo».
Fino agli inizi del novembre del 1936, la Santa Sede
mantenne il suo rappresentante a Madrid. Il Cardinale Tedeschini, era partito
un mese prima dell’inizio della guerra, e monsignor Filippo Cortesi non giunse
mai nella Spagna Repubblicana presso la quale era stato nominato nunzio.
Il 16 maggio 1938 monsignor Gaetano Cicognani fu
nominato nunzio apostolico nella Spagna presso il governo nazionale di
Salamanca. Con questa nomina la Santa Sede riconosceva ufficialmente la giunta
militare presieduta dal Generale Franco, quando ormai erano trascorsi quasi due
anni di guerra civile. Ma nel frattempo il quadro della situazione religiosa
nella Spagna Repubblicana si era fatto intollerabile. Nei soli primi sei mesi
di Guerra Civile i repubblicani avevano eliminato oltre 6.500 tra preti, suore,
distruggendo e profanando chiese e cimiteri. In certe diocesi, come quella
aragonese di Barbastro (la città del Beato Escrivà de Balaguer), venne
trucidato l’88% del clero locale. Per la precisione, tra il luglio 1936 e il
marzo 1939, vennero torturati e massacrati 4.184 tra preti e seminaristi
diocesani, 2.365 frati, 283 suore, tredici Vescovi, per un totale di 6.834
vittime. Mentre le diocesi completamente distrutte furono ventisette e otto
quelle saccheggiate. Soltanto ventidue vennero risparmiate. Va infine notato
che a portare a compimento tali efferatezze non furono soltanto i
raggruppamenti armati di miliziani comunisti (sia stalinisti che trotzkisti) o
anarchico-sindacalisti, ma anche quelli socialisti, come testimonia il diario
del leader Pietro Nenni impegnato a quel tempo sul fronte aragonese: «Purtroppo
non si è riusciti a sfondare le difese di Saragozza, ad incendiare la grande
basilica del Pilar e a fare piazza pulita del clero».
Buona parte degli storici è concorde nell’affermare
che il sollevamento militare nazionalista contro il governo della Repubblica
(18 luglio 1936) prese alla sprovvista la Chiesa, mettendola in un certo
imbarazzo. Ciò è vero. Nonostante le innumerevoli vessazioni e discriminazioni
subite a partire dal 1931 dai Cattolici Spagnoli, sulle prime la Chiesa, fedele
alle norme evangeliche, tentò di mantenersi neutrale, respingendo l’idea della
rivolta e della guerra: atteggiamento che poi fu costretta però ad abbandonare
in quanto il governo repubblicano non solo volle mantenere in vigore tutte le
norme restrittive nei confronti del clero, ma – dietro pressione dei comunisti,
degli anarco-sindacalisti e di buona parte dei socialisti – incominciò a
perseguitare tutti gli esponenti della Chiesa. Alla luce di questa violenta
svolta, ci si interroga su quale atteggiamento avrebbe dovuto prendere la
Chiesa, amante sì della pace e della convivenza, ma anche ridotta sull’orlo del
dissolvimento. Furono le circostanze e la necessità a spingere il clero, e il
Vaticano, a schierarsi dalla parte dei cosiddetti «ribelli» falangisti,
nazionalisti e monarchici: una scelta difficile, dolorosa, ma inevitabile e più
che giustificata.
Va ricordato che il 13 agosto 1936, cioè poco dopo lo
scoppio della Guerra Civile, il Cardinale Gomá inviò a Roma un dettagliato
rapporto nel quale il prelato illustrava la genesi della sollevazione militare
e le cause di una guerra resa inevitabile dalla fallimentare politica economica
(e soprattutto agraria) varata dal governo repubblicano, dalle ripetute e
violente discriminazioni del Fronte Popolare nei confronti dei Cattolici, ma
anche degli esponenti dei gruppi liberali e moderati spagnoli: discriminazioni
diventate ancora più dure in seguito alle elezioni del febbraio del 1936. Gomá
rammentò l’assassinio da parte dei comunisti dello statista nazionalista Calvo
Sotelo (la scintilla che fece innescare la guerra) e i piani, elaborati dalle
fazioni governative marxiste, per prendere il potere con la forza già a partire
dal luglio del ’36. Gomá mise al corrente il Vaticano circa l’esistenza di
fitte liste di proscrizione: elenchi di Vescovi, prelati, sacerdoti e attivisti
cattolici da eliminare fisicamente. Il Cardinale esaminava poi la natura e il
carattere della «rivolta» franchista identificandola alla stregua di una
spontanea «reazione, condivisa da larghi strati della società civile, nei
confronti del “regime repubblicano”». Gomá si soffermò poi a lungo sulla
difficile posizione della Chiesa Spagnola per nulla incline ad atti di
vendetta, ma timorosa di venire schiacciata dalla repressione «rossa». Il
Cardinale paragonò gli eccessi antireligiosi dei repubblicani a quelli dei
rivoluzionari francesi, russi bolscevichi e messicani. E si interrogava,
infine, sulle possibili conseguenze in caso di sconfitta del movimento
nazionalista. Se Franco avesse perso la guerra – annotò Gomá – per la Chiesa
Spagnola si sarebbe aperto un periodo ancora più drammatico, in quanto il
governo repubblicano (aiutato militarmente ed economicamente da Stalin) si
sarebbe sicuramente spostato su posizioni totalmente subalterne all’Unione
Sovietica. Era convinzione del Cardinale (ma anche di molti altri prelati) che
in caso di vittoria, la Repubblica si sarebbe presto trasformata in un regime
rigidamente comunista, con tutte le conseguenze del caso. Gomá non credeva
infatti che la componente cosiddetta «moderata», e comunque minoritaria,
dell’esecutivo Azaña potesse sopravvivere a lungo.
Va ricordato che a pensarla in questa maniera non era
solo il Cardinale Gomá. Il 6 agosto, l’8, il 15 e il 16 settembre 1936, i
Vescovi di Vitoria, Pamplona, Maiorca, Valencia, Tuy si schierarono infatti
dalla parte degli insorti e attraverso altri diciassette interventi episcopali
successivi, fra i quali quello del Beato Anselmo Polanco, Vescovo di Teruel, la
stragrande maggioranza degli alti prelati spagnoli si pronunciò allo stesso
modo. In questo senso, l’intervento più significativo fu quello del Vescovo di
Salamanca, futuro Arcivescovo Cardinale di Toledo e Primate di Spagna, Enrique
Pla y Deniel (1876-1968), noto per il suo impegno in favore dei diritti sociali
degli operai. La sua lettera pastorale Las dos ciudades fu infatti uno dei
testi episcopali più chiari circa la definitiva posizione assunta dalla Chiesa
Spagnola, ma anche dal Vaticano, nei confronti della guerra. D’altra parte, già
attraverso l’enciclica Dilectissima Nobis, del 3 giugno 1933, Papa Pio XI era
intervenuto direttamente sulla situazione in Spagna, denunciando la politica
anticlericale del governo repubblicano.
Seguirono altri puntuali interventi, fino a giungere,
a guerra civile inoltrata (il 1° luglio 1937), alla Carta Colectiva del
Episcopado Español a los obispos del mundo entero, promossa dal Cardinale
Primate Gomá. Il documento, che di fatto costituì la somma di tutti i
precedenti proclami, venne firmato da quarantatre Vescovi e cinque vicari
capitolari, ma non ottenne la sigla di cinque Vescovi assenti dalle loro
diocesi, fra i quali Francesco Vidal y Barraquer che, pur condividendone il
contenuto, temeva che la sua pubblicazione desse il destro al governo
repubblicano per inasprire la sua politica anticlericale. Anche il Vescovo di
Vitoria, monsignor Múgica, ebbe delle riserve circa l’opportunità di rendere
nota la lettera, e di conseguenza non la firmò. Va comunque detto che,
nonostante l’evidente carisma e influenza esercitati da Gomá, questi lasciò del
tutto liberi i Vescovi, non facendo alcuna pressione affinché si adeguassero al
suo pensiero, come confermò lo stesso Segretario di Stato vaticano.
Con il documento di Gomá i Vescovi non pretesero di
dimostrare o sostenere una tesi politica in favore di una delle fazioni in
lotta, ma tentarono di esporre a grandi linee le reali motivazioni e le
caratteristiche di un confronto armato deprecabile, assurdo, fratricida, ma
forse ineluttabile. Ribattendo alle accuse lanciate contro la Chiesa Spagnola
da parecchi intellettuali antifascisti europei e perfino da circoli cattolici,
i Vescovi invitarono tutti a riflettere attentamente sulle ragioni della loro
difficile scelta, sottolineando, in ogni caso, che non sarebbe mai potuta
esistere «ragionevole proporzione tra i beni emblematici ottenibili con una
guerra e gli enormi mali che da essa sempre derivano».
Terminata la guerra civile (1° aprile 1939), e con
essa lo sterminio dei Cattolici Spagnoli, al Vaticano non rimase che fare la
drammatica conta dei morti e delle devastazioni e ad iniziare una minuziosa
raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti. Gli orrori, e soprattutto lo
straordinario coraggio dimostrato dalla totalità degli uomini di Chiesa
torturati e assassinati (nessuno di essi abiurò mai la propria fede di fronte
ai carnefici), indusse Papa Pio XI ad avviare una serie di processi di beatificazione.
Processi che nel secondo dopoguerra, nel 1964, Papa Paolo VI bloccò nel timore
di polemiche e di strumentalizzazioni e per la pressione esercitata dal Partito
Comunista e da parte di quelli socialista e democristiano. Bisognò quindi
attendere il coraggioso pontificato di Giovanni Paolo II (uomo che aveva
sperimentato sulla propria pelle i rigori dei regimi comunisti) per vedere
riprendere l’iter della beatificazione ad imperituro ricordo di tante vittime.
Per la cronaca, fu il 22 marzo del 1986, che Papa Giovanni Paolo II decretò,
per primo, il martirio di tre carmelitane di Guadalajara, cerimonia di
beatificazione che venne presto seguita da molte altre, fino ai giorni nostri.
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