martedì 7 maggio 2024

A Trieste il cardinale Zuppi scambia le esigenze della verità con le “dogane ideologiche”





Di Silvio Brachetta, 7 MAG 2024

Il 29 aprile scorso, il Cardinale Matteo Maria Zuppi, a Trieste su invito del Vescovo Enrico Trevisi, ha parlato sul tema della partecipazione dei cattolici alla costruzione della Chiesa e della città, intesa come polis, come società del vivere civile. Questo è uno tra i vari appuntamenti in preparazione della 50a Settimana sociale dei cattolici in Italia.

Gli argomenti trattati sono fondamentali, perché vanno a toccare il corpo mistico di Cristo, che è la sua Chiesa. Il Card. Zuppi, in particolare, ha commentato la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo (12, 12-30): è il punto della Lettera dove l’Apostolo parla del corpo e delle membra della Chiesa. La lettura che ne dà Zuppi è paolina, ovvero il corpo si tiene solo se tutte le membra sono concordi, se hanno cura le une delle altre, se c’è comunione e concordia.

Al contrario – afferma Zuppi – l’individualismo e il protagonismo egocentrico sono un danno per l’unità della Chiesa e, dunque, per l’unità del corpo mistico. Il danno è inteso anche nel senso di «partecipazione», perché il partecipare è possibile solo in una comunità di persone. Da qua l’altro grande tema teologico, toccato da Zuppi, della zizzania e della divisione: il «divisore» – il diavolo, cioè diàbolos (divisore, accusatore, in greco) – corrompe l’unità del corpo mistico con uno «zelo mal posto».

Esclusa la questione della verità

L’esegesi del Cardinale è precisa ma parziale e trascura diversi punti importanti. Non c’è un cenno, nelle sue parole, allo zelo ben posto, che è il centro della vita di santità. Una cosa, infatti, è lo zelo satanico e un’altra lo zelo dei santi.

Tutto il corpo mistico si tiene, secondo Zuppi, sull’amore: «Solo l’amore può generare un corpo che è pensarsi insieme». No, non solo l’amore, ma accanto all’amore c’è la verità, che egli non pronuncia mai per tutto l’intervento, se non in negativo, nel senso che Zuppi reputa un male che il mondo sia «pieno di torri di guardia e di mura difensive». Il rimando va immediatamente alla nota teoria delle «dogane ideologiche», più volte richiamate dal progressismo teologico degli ultimi due decenni (almeno) e che vede con sospetto – se non con avversione completa – l’apologetica e la difesa della verità.

Eppure è lo stesso Gesù Cristo che associa l’unità della Chiesa alla verità, ad esempio nel Vangelo di Giovanni (17, 11-19): «Padre santo, custodiscili nel tuo nome […], perché siano una sola cosa, come noi. […] Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità».

Gesù, nella sua preghiera sacerdotale, ripete «verità» tre volte e proprio in relazione all’«ut unum sint» («perché siano una sola cosa»). È chiaro che l’esegesi non si fa su un solo verso del Vangelo e, quindi, l’unità del corpo mistico – nel senso teologico più ampio – si realizza solo nell’unione tra «verità» e «carità», cioè tra verità e amore. Non è dunque possibile parlare di unità del corpo mistico senza nominare la verità e l’amore, oppure nominando solo la verità o solo l’amore.

Non va dimenticato che lo Spirito Santo è Spirito d’amore, per appropriazione, ma in quanto Dio è lo «Spirito di verità» (Gv 16, 13). Non è possibile rimuovere la questione della verità nemmeno parlando dell’azione dello Spirito Santo.

La città terrena è sempre «permixta»


Altra fonte di ambiguità è l’insistere del Card. Zuppi sul concetto di «città degli uomini», che ripete in modo martellante per tutto l’intervento. Dal momento che «la Chiesa e la città hanno un legame profondissimo» – dice ad esempio Zuppi – «la riflessione nelle Settimane sociali è proprio dire: che cosa la città degli uomini ci chiede e che cosa significa essere cristiani? Che cosa dobbiamo donare alla città degli uomini?».

Sant’Agostino, ne La città di Dio, parla sempre e solo di «civitas permixta» (città mista, composita), che è la società umana e in cui convivono commischiate – fino alla fine dei tempi, fino alla parusia del Cristo – la «città terrena» e la «città di Dio». La pólis, quindi, per Agostino e per la teologia classica è sempre una civitas permixta, in cui la mentalità mondana (Babilonia) deve convivere con la mentalità convertita dei santi (Gerusalemme). Le due mentalità sono inconciliabili e, di fatto, non si concilieranno mai, perché l’empio sarà condannato e il santo sarà salvo in eterno.

La teologia contemporanea (non Zuppi, che si limita a ripetere), al traino della svolta antropologica rahneriana, ha invece introdotto il concetto goffo di «città dell’uomo», per tentare, in modo maldestro, di conciliare Gerusalemme e Babilonia, sacro e profano, benedizione e maledizione, amore e odio. Si vuole cioè giungere, con la nuova teologia riformata, al compromesso tra verità e menzogna.

Anche dal punto di vita grammaticale, la «città dell’uomo» è una banalità: la città terrena è ovviamente la città dell’uomo – le tautologie hanno sempre un secondo fine malcelato. L’obiettivo di questa teologia spuria è appunto la ricerca del compromesso civile e politico, che finora ha portato solo danni all’uomo, poiché si sono imposte legislazioni che, pur apparendo giuste, sono ingiuste e opposte al vero bene comune.

Di tutta l’erba un fascio


Quando il Cardinale parla di «zelo mal posto» si riferisce a tutto un mondo cattolico, per nulla entusiasta dell’eterodossia teologica contemporanea, penetrata anche nei settori del magistero. E, a proposito dello «zelo mal posto», specifica: «qualcuno avrebbe detto offensivo».

Così come ci sono due significati di «offendere», ci sono pure due generi di «offesa». C’è l’offesa dello zelo satanico, che è un ingiuriare, un insolentire, un oltraggiare, un vilipendere. Ma c’è anche l’«offendere» dei santi, che deriva dall’etimologia militare propria del termine. In questo senso, l’«offendere» è il «fendere» con un’arma, il colpire, l’urtare. E infatti la verità può essere divisiva, sgradevole, dolorosa, indigesta, mortificante.

È lo stesso Gesù a presentarsi come «divisore» e «separatore»: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione» – «Putatis quia pacem veni dare in terram? Non, dico vobis, sed separationem» (Lc 12, 51). L’Agnello è colui al quale esce dalla bocca «una spada affilata a doppio taglio» (Ap 1, 16). A questo proposito, sant’Agostino dice che «i santi muovono guerra, sguainano le spade a due tagli, e avvengono stragi, uccisioni, separazioni» (Esposizione del Salmo 149). In tempi recentissimi, un altro Cardinale (Angelo Bagnasco, La Stampa, 08/12/2016) ha detto che è necessario «annunciare la verità di Cristo, anche se può apparire divisiva».

Zuppi, al contrario, mescola ogni cosa e non distingue lo zelo mal posto da quello ben posto; non distingue tra irrisione e argomentazione o tra insulto e critica. Se poi si volesse capire a chi Zuppi si riferisce con precisione, è lui stesso che fuga il dubbio: «Non accettiamo mai delle logiche di divisione, che si nutrono di malevolenza, […] come appunto quello zelo mal posto […] di coloro che non sapevano più riconoscere la grandezza nella storia, che guardavano al passato».

Per avere, dunque, uno zelo ben posto bisogna essere progressisti, guardare al futuro e avere uno sguardo non retrospettivo. Essere insomma accomodanti su tutto, tranne con chi guarda al passato. Bisogna scendere al compromesso col mondo e non dire mai nulla senza soppesarlo, perché si correrebbe il rischio di essere «divisori». Bisogna cercare l’«armonia con tutti», come san Francesco d’Assisi, che però cercava Dio e diceva la verità senza compromessi. Ovvero, bisogna fare di tutta l’erba un fascio e giudicare maligna e malevola ogni parola che non piace.

Dogane escatologiche

Provvidenzialmente il Cardinale pare contraddirsi e convenire con Agostino: «La Chiesa stessa si misura sempre con la Babilonia, ma la rende un cuore solo e un’anima sola se piena e unita dal suo Spirito. Ecco perché la Chiesa è sempre, come a Gerusalemme, dentro la città degli uomini. Non chiude la porta per essere se stessa. Sempre con la porta aperta, come a Pentecoste». Tutto giusto, a parte Gerusalemme (la città di Dio), che non è dentro la città degli uomini, ma permixta assieme alla città terrena.

Quanto ai muri e alle porte, sono sempre presenti, tanto a Babilonia, quanto a Gerusalemme. Persino la Gerusalemme celeste (il Paradiso) ha mura e porte. Gerusalemme, in particolare, «è cinta da un grande e alto muro» (Ap 21, 12). È vero che il Paradiso non ha motivo di difendersi da nulla, ma le mura della Gerusalemme celeste, oltre a dichiararne i confini, dichiarano anche che – alla parusia – sarà deciso un dentro e un fuori, un’inclusione e una esclusione da essa.

Resteranno quindi, ben visibili, i confini, le mura e le «dogane» della città di Dio: dogane non «ideologiche», ma escatologiche, per la distinzione del vero dal falso.

Silvio Brachetta

(Foto: Wikipedia Di Francesco Pierantoni)




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