NOTIZIE
Di Vladimir Kosic, 8 MAG 2024
Non occorre essere inglesi per capire che l’attuale modello di Europa, in realtà, non piace più a nessuno. Tra le molte ragioni che hanno portato a questo fallimento vi è, secondo me, un vizio d’origine cui non si presta sufficiente attenzione. Rileggendo la pubblicazione ”Filosofia per tutti” (S. Fontana, Fede & Cultura) a pag. 6 leggiamo: “un piccolo errore all’inizio è grande nella conclusione; nessuno si dà ciò che non ha”. Credo che una riflessione sul “…piccolo errore all’inizio…” potrebbe aiutarci a capire una questione poco (o nulla) presa in considerazione. Quale è l‘errore iniziale? Dopo la Brexit, protagonista sempre a modo suo, il 22 agosto 2016, Renzi portò sull’isola di Ventotene il Presidente Hollande e la Cancelliera Merkel “per deporre fiori europei sulla tomba di Altiero Spinelli”, da tutti, ormai, considerato il padre dell’UE in quanto uno degli estensori del Manifesto di Ventotene. Nessuno richiamò l’attenzione sull’appartenenza politica degli autori del Manifesto originariamente redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il titolo “Per un’Europa libera e unita”. Il Progetto di un manifesto nacque nel 1941, quando, com’è noto, per motivi politici furono confinati a Ventotene molti oppositori del regime fascista. Altri confinati antifascisti sull’isola contribuirono alle discussioni che portarono alla definizione del testo. All’epoca della stesura erano confinate sull’isola circa 800 persone, 500 classificate come comunisti, 200 come anarchici ed i restanti prevalentemente giellini e socialisti.
No comment sullo spessore morale ed etico (de mortui nihil nisi bono) di coloro che vengono ormai da tutti riconosciuti come i padri dell’UE. Ma è proprio per questa “paternità” dell’UE che l’UE non piace e quindi non funziona. Il centralismo di Bruxelles (la Commissione) è figlio del centralismo democratico (il comitato centrale del partito comunista) ed è inconciliabile con l’idea di democrazia liberale dell’Europa occidentale al punto da assomigliare più ad una dittatura che ad un governo rispettoso delle identità su cui poggia la sovranità popolare. Ed è sempre per questo che l’UE rischia la fine che meritano tutte le dittature, come è successo con l’Unione sovietica. Uno degli equivoci del perché l’UE non sia in grado, o non voglia o non possa reagire ai motivi demografici (la popolazione autoctona è in costante declino, i tassi di fecondità fra le donne musulmane, ad es. sono 2,5-4 volte superiori a quelli delle donne europee), politici (l’Europa è debole e irrilevante nelle relazioni internazionali non avendo una politica estera condivisa), economici (i Paesi dell’UE, al loro interno, hanno rapporti/interessi inconciliabili, ad es. nei confronti dei Paesi musulmani, subendo ricatti vitali), culturali (il rinnegare le proprie radici giudaico-cristiane e greco-romane la rende priva di qualsiasi riferimento; non è un riferimento sufficiente la Carta dei diritti di Nizza). Proviamo solo a pensare che il Parlamento europeo non approva le leggi, perché le vere leggi sono le Direttive approvate dalla Commissione che è composta da nominati (non eletti). Il fatto che il Consiglio richieda l’unanimità per cambiare l’attuale sistema ci fa capire perché l’attuale Presidente della Commissione sia stata nominata con nove voti di scarto, come tutti sanno, da rappresentanti politici (i grillini) tanto sprovveduti quanto inaffidabili.
Le parti politiche in gioco lasciateci in eredità dal secolo breve sono, secondo me, due: la socialdemocrazia ed il liberalismo, imponendo la dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” (Card. J. Ratzinger). Credo che la socialdemocrazia europea, dopo essere stata accusata dalla scuola ortodossa di avere tradito il suo popolo in nome di un mondo senza frontiere al servizio di un devastante ultra-liberismo, sia al capolinea. Il cammino che li avrebbe portati fatalmente alla sconfitta era iniziato in Germania nel 1959. Durante il congresso del Partito socialdemocratico tedesco (SPD) di Bad Godesberg fu sancita la rottura con il marxismo e l’adesione all’economia di mercato. Da allora, con risultati ondivaghi fino al 1989, la socialdemocrazia europea (PCI compreso) ha vissuto della rendita garantita dalla “minaccia” che l’URSS rappresentava per l’Occidente quale alternativa, in astratto, possibile. Tony Blair (New Labour) e Gerard Schroeder (Programma di Berlino) erano riusciti a risvegliare le socialdemocrazie nazionali ed europee dopo che Ronald Reagan e Margaret Thatcher riuscirono ad imporre che si giocasse sul loro campo con le loro regole: libero mercato e, soprattutto, la globalizzazione. Ma la sinistra europea ha avuto il suo de profundis, soprattutto con il fenomeno migratorio quando è stata costretta, de facto, a scontare la miope e rigida (strumentale?) adesione ad una finalità ed a una ideologia più utile alla globalizzazione imposta dalle minoranze del grande capitale internazionale e delle classi privilegiate piuttosto che alla maggioranza della popolazione europea.
Ma c’è una domanda ancora più importante alla quale l’Europa non sa rispondere: esiste una relazione diretta di incompatibilità tra democrazia, Stato nazionale e globalizzazione? Sì! Durante il World Economic Forum, svoltosi a Davos a fine gennaio del ’18, assistemmo ad uno scontro tra Donald Trump e Angela Merkel. Trump confermò la scelta protezionistica mentre la Merkel, contraria ad ogni forma di “egoismo nazionale” (sic), sostenne la “cooperazione” in favore del neoliberismo no limits. Oggi appare evidente a tutti che il neoliberismo imperante, basato su una concorrenza sfrenata e spregiudicata che non distingue le merci dalle persone, non differenzia i cicli dei prodotti dalla vita toccata in sorte alla gente, ci sta scavando la fossa perché né la Cina, né l’India potranno mai rinunciare al proprio interesse nazionale. La globalizzazione imperniata sulla competizione ha aumentato il divario tra ricchi e poveri per cui abbassare significativamente la pressione fiscale, adottando un sistema di tassazione più agevole e “leggero” è prioritario, soprattutto per il nostro Paese. Ma come sappiamo anche su questo l’UE non ci permette di fare ciò che ci sarebbe più utile bensì ci costringe a subire le conseguenze dei dazi imposti dagli Stati Uniti d’America all’UE perché la Francia e la Germania hanno violato (Airbus) le regole del WTO. La dittatura neoliberista spesso usa per difendersi dalla globalizzazione le stesse armi di cui questa si serve per imporsi. Fondamentale è che chi impugna le armi sia in grado di maneggiarle con cura. Ahimè, ho paura che oggi queste armi siano cadute nelle mani sbagliate sia a livello nazionale che a livello europeo.
Sic stantibus rebus il trilemma di D. Rodrik sembra ineludibile: “Se vogliamo far progredire la globalizzazione dobbiamo rinunciare o allo Stato/nazione o alla democrazia politica. Se vogliamo difendere ed estendere la democrazia, dovremo scegliere fra lo Stato/nazione e l’integrazione economica internazionale. E se vogliamo conservare lo Stato/nazione e l’autodeterminazione dovremmo scegliere fra potenziare la democrazia e potenziare la globalizzazione”. Possiamo combinare due a scelta delle tre, ma mai avere tutte e tre contemporaneamente nella loro pienezza.
C‘è speranza, esiste una qualche possibilità di impostare una soluzione auspicabile? Ritengo che l’economia sia un ottimo pilota automatico ma io non rinuncerei mai che il timoniere faccia a meno della cultura, la sola capace di affrontare gli scogli, i mari in burrasca e soprattutto le derive. Il liberalismo ha oggi maggiori opportunità di sostituire al timone il pilota automatico se le priorità dominanti nei contesti nazionali (Paesi) e sovranazionali (UE) riusciranno a riprendere (la sola dichiarazione di intenti non basta) la funzione commutativa nella redistribuzione della ricchezza a livello europeo e globale, nonché il perseguimento della piena occupazione, da una parte, e se, ancora più importante, ritroverà le radici comuni su cui poggia la civiltà europea. Perché, sia chiaro, l’UE così com’è non ha futuro ma abbiamo più bisogno d’Europa che del nazionalismo. Il male del nazionalismo non consiste nel suo rispettoso e leale legame alle tradizioni del passato, né nella rivendicazione di un’unità nazionale e nel diritto all’autodeterminazione. Ciò che è sbagliato nel nazionalismo è la fusione tra l’appartenenza ad una nazione europea che comporta anche la contrapposizione con le altre nazioni europee. Così l’unità nazionale si identifica con l’autarchia totale che comprende anche la cultura che è, invece, il frutto di una dimensione sovranazionale almeno quando parliamo di Europa. Il punto di caduta finale della nostra cultura non si esaurisce nello stato nazionale ma in una dimensione europea. Basterebbe pensare alle epoche artistiche, per esempio. È vero che con l’UE non abbiamo ancora raggiunto una forma politica appropriata, e forse non la raggiungeremo mai; ma se guardiamo la società reale e non l’astrazione intellettuale comprendiamo che è solo grazie alla comunione delle culture nazionali sorte in una dimensione europea reale che le differenti culture nazionali hanno potuto crescere e svilupparsi fino a raggiungere la loro forma attuale. Non c’è dubbio che si sia sottovalutata questa unità al punto da trasformarla più in un’ideologia che in una forma aggiornata di governo politico perché la civiltà europea credeva di aver raggiunto un tale prestigio che sembrava non potesse avere rivali e che fosse essa stessa la rappresentazione della civiltà in generale. Ma la questione oggi è molto differente, dal momento che l’egemonia europea viene sfidata da tutte le parti; quando la Russia e gli USA non possono essere più considerate estensioni coloniali della cultura europea, dato che hanno superato l’Europa sia per ciò che riguarda la popolazione e la ricchezza e sia per il fatto che stanno sviluppando culture indipendenti proprie; quando i popoli dell’Oriente stanno riaffermando le pretese della cultura orientale, e quando noi stessi perdiamo la fiducia nella superiorità delle nostre tradizioni. L’UE così com’è non piace più a nessuno (ai nominati piace) e ci si deve mettere al lavoro per non buttare via, come si suol dire, il bambino con l’acqua sporca, errore che il nazionalismo corre il rischio di ripetere. Sovranismo e nazionalismo, in politica, non sono sinonimi. Siamo stati capaci di ricostruire l’Europa dopo due guerre mondiali e dopo contrapposizioni che poggiavano sull’equilibrio del terrore atomico. Tutto ciò l’abbiamo superato perché siamo rimasti sovrani ed europei ed è su questa strada che vogliamo continuare ad esprimere il nostro impegno.
Vladimir Kosic
Nessun commento:
Posta un commento