Erano i più battaglieri sulle questioni che papa Francesco ha retrocesso in secondo piano. E ora si ritrovano sotto pressione, perché cambino la loro agenda e i loro leader
di Sandro Magister
CITTÀ DEL VATICANO, 1 novembre 2013 – Papa Francesco mostra di avere ben chiare in mente sia le battaglie che vuole combattere sia quelle per le quali non vede la necessità di farlo. Sia "ad intra", cioè nel corpo ecclesiale di cui è diventato il pastore supremo e in particolare nella curia romana, sia "ad extra", nel mondo.
Riguardo a queste ultime, papa Jorge Mario Bergoglio ha detto chiaro e tondo, nell'intervista a "La Civiltà Cattolica", di non ritenere prioritarie le battaglie su temi antropologici come le questioni "legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi".
Ciò costituisce indubbiamente un cambio di linea rispetto agli ultimi pontificati: non solo di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II, ma anche di Paolo VI, il papa della "Humanae Vitae e della strenua resistenza contro l’introduzione del divorzio in Italia.
È un cambio di linea, questo di papa Francesco, che pur non avendo finora cancellato neppure uno iota della dottrina ha nondimeno suscitato ampie aspettative tra i settori più progressisti del cattolicesimo mondiale.
Ma è un cambio di linea che ha anche messo alle strette quegli episcopati – della Spagna, degli Stati Uniti, dell'Italia – che nel passato erano considerati dei modelli nel modo di affrontare sulla scena pubblica le sfide antropologiche presenti nel mondo contemporaneo, ma che ora si trovano ad essere additati come “poco allineati” alla nuova leadership papale.
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In Spagna, un segnale è venuto da un editoriale del sito "Religión Digital" che esordisce con questa domanda retorica: "La gerarchia spagnola è in sintonia con Francesco e con la nuova aria che soffia da Roma?”:
¿Está la jerarquía española en sintonía con Francisco?
"Religión Digital" è un sito di informazione religiosa iberico da sempre critico nei confronti del cardinale di Madrid Antonio María Rouco Varela, da circa un ventennio leader incontrastato dell’episcopato e portatore di una linea teologicamente ortodossa e politicamente avversa alla rivoluzione antropologica introdotta con determinazione soprattutto da Rodríguez Zapatero, nonché contraria alle derive indipendentiste molto forti anche nel corpo ecclesiale della Catalogna e di altre regioni.
Negli Stati Uniti ha provveduto il settimanale liberal "National Catholic Reporter" a sottolineare quanto le parole pronunciate da Francesco contro la "corrente 'ossessione' pastorale sul matrimonio gay, l’aborto e la contraccezione” manifestino uno "squilibrio" tra il papa e i vescovi USA che arriva a "minare" anche la vigorosa campagna per la libertà religiosa intrapresa da questi ultimi contro gli aspetti moralmente inaccettabili della riforma sanitaria dell’amministrazione Barack Obama riguardo agli enti ecclesiali a stelle e strisce:
Imbalance between Francis, U.S. bishops undermines religious liberty campaign
In Italia, infine, sul quotidiano "La Stampa" il vaticanista Andrea Tornielli ha dato per assodato che con papa Francesco "si chiude un'epoca: quella inaugurata dal cardinale Camillo Ruini e proseguita dal suo successore Angelo Bagnasco, chiamato ora ad aprirne un'altra":
Così il Papa fa cambiare i vescovi
Questa stessa svolta è stata salutata positivamente anche dallo storico Alberto Melloni, che ha notato come nel suo primo incontro con tutti vescovi italiani del maggio scorso il papa "ha pronunciato un discorso morbido nelle forme ma duro nella sostanza, e ha indicato una linea diversa da quella seguita fino ad ora". L’esponente della cosiddetta scuola di Bologna – propugnatrice di una lettura progressista del Vaticano II – ha aggiunto: "Negli ultimi decenni è stato proposto dalla conferenza episcopale italiana un progetto pastorale e politico. Ora il papa pone al centro dell'attenzione un modello di vescovo. Per l'Italia è un grande salto".
Lo spagnolo, lo statunitense e l’italiano sembrano essere quindi tre episcopati sotto tiro, in questa nuova stagione ecclesiale.
Quali saranno gli effetti di questa nuova situazione, inimmaginabile fino a otto mesi fa, potrà essere verificato presto.
IN SPAGNA
Dal 18 al 22 novembre si terrà l’assemblea generale dei vescovi spagnoli. In quella occasione si dovrà votare per il nuovo segretario generale della conferenza episcopale.
L’uscente, il vescovo Juan Antonio Martinez Camino – gesuita come Bergoglio ma in piena sintonia col poco "bergogliano" Rouco Varela –, non può essere rieletto. Ora bisognerà vedere se i vescovi sceglieranno il successore tra – per usare il linguaggio del succitato sito iberico – "los candidatos de Rouco" o "los candidatos franciscanos". Come voteranno i vescovi spagnoli, e quanto soffi forte a Madrid "la nuova aria da Roma" si vedrà quindi tra non molto.
Ma papa Francesco potrà intervenire sulla leadership episcopale iberica anche in modo più diretto, quando nominerà il successore a Madrid di Rouco Varela, che ha già superato i 77 anni e il cui mandato come presidente dell’episcopato scade a marzo.
Un candidato forte alla successione, non amato da Rouco, sembra essere il cardinale di curia, attuale prefetto della congregazione per il culto divino, Antonio Cañizares Llovera, più incline al dialogo in campo politico. Probabilmente il papa prenderà la sua decisione su Madrid dopo aver ricevuto i vescovi spagnoli in visita "ad limina" tra la fine febbraio e gli inizi di marzo.
NEGLI STATI UNITI
Dall’11 al 14 novembre si riunirà anche l’assemblea dei vescovi degli Stati Uniti, la USCCB. E anche questa sarà un'assise elettorale. I presuli americani dovranno scegliere il loro nuovo presidente e il loro nuovo vice per il prossimo triennio.
Tre anni fa i vescovi, rompendo a sorpresa una consolidata tradizione, non elessero presidente il vice uscente – il vescovo di Tucson, che era stato ausiliare del compianto cardinale di Chicago, il "liberal" Joseph L. Bernardin, per decenni leader indiscusso della USCCB – ma gli preferirono il battagliero arcivescovo di New York, Timothy M. Dolan.
Ora il vice è il moderato Joseph E. Kurtz, arcivescovo di Louisville, e bisognerà vedere se sarà fatto presidente o se invece gli sarà preferito un altro, ad esempio il cardinale Daniel N. DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston. I candidati attualmente in corsa sono dieci, quasi tutti di impostazione moderata o conservatrice.
Anche negli Stati Uniti papa Francesco potrà intervenire direttamente nella leadership episcopale. Si avvicina infatti il momento della scelta del titolare dell’importante sede di Chicago, dove il cardinale Francis E. George compirà 77 anni a gennaio.
Ma si avvicina anche la data del primo concistoro dell’attuale pontificato, previsto per febbraio e quindi con i nomi dei nuovi cardinali annunciati a gennaio. Sarà interessante vedere su quali ecclesiastici punterà il pontefice, per verificare se negli Stati Uniti ci sarà o no un ritorno all’era Bernardin, come sembra prefigurare e auspicare il "National Catholic Reporter":
Pope Francis breathes new life into Bernardin's contested legacy
IN ITALIA
Infine l'Italia. Qui un segnale di ritorno all’epoca pre-Ruini sembra esserci già stato con la nomina del segretario generale del prossimo sinodo straordinario sulla pastorale della famiglia. Papa Francesco ha assegnato l’incarico all’arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte, che da teologo fu l’autore della relazione introduttiva respinta da Giovanni Paolo II a Loreto nel 1985, nel convegno della Chiesa italiana che segnò l’inizio dell’era Ruini nella conferenza episcopale.
Francesco, come vescovo di Roma e primate d’Italia, ha inoltre già inciso nella stessa "governance" della CEI. Intanto ha semplicemente "prorogato" il segretario generale giunto a scadenza, il vescovo Mariano Crociata. E poi ha avviato una consultazione per rinnovare lo statuto dell'organismo.
L’intenzione, all’insegna di una maggiore collegialità, è quella di ridurre il potere della presidenza della CEI a favore dei consigli episcopali regionali – le cui presidenze sono tutte elettive tranne quella del Lazio attualmente spettante al vicario generale di Roma "pro tempore", il cardinale Agostino Vallini –, nonché il potere degli uffici centrali della CEI, attualmente nominati dalla presidenza e alle sue dirette dipendenze, a favore dei corrispettivi consigli episcopali, tutti elettivi.
Papa Francesco ha infine chiesto che i vescovi italiani discutano e decidano se vogliono che a nominare il loro presidente sia il papa, come avviene ora, o se invece preferiscano adottare un’altra procedura.
Non è la prima volta che i vescovi italiani sono chiamati ad esprimersi sull’argomento. Successe già nel 1983 con Giovanni Paolo II.
Quell'anno, nel corso dei lavori per l'approvazione del nuovo statuto della CEI – che tra l’altro avrebbe innalzato da tre a cinque anni la durata del mandato – i vescovi furono invitati "per superiore disposizione" a procedere a una "votazione consultiva" circa la nomina del presidente e del segretario generale della conferenza, "da consegnare al Santo Padre, rimettendosi alla decisione del papa".
In quell'occasione, la proposta che il presidente della CEI fosse eletto dall'assemblea ottenne i seguenti risultati: su 226 aventi diritto i votanti furono 185, i "placet" furono 145, i "non placet" 36, le schede bianche 4.
Quindi a favore di un presidente eletto si espresse la maggioranza assoluta dei vescovi, anche se non venne superato, per soli sei voti, il quorum dei due terzi richiesto per le modifiche statutarie.
In ogni caso nel 1984 Giovanni Paolo II fece sapere che avrebbe riservato a sé la nomina del presidente e del segretario della conferenza episcopale, "facendo notare come questa prassi costituisca un segno ulteriore di attenzione e benevolenza da parte del Santo Padre verso i vescovi e la CEI".
Come voteranno questa volta i vescovi e cosa deciderà poi papa Francesco ancora è presto per dirlo.
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