di Michele Colombo*
L’umiltà non è propriamente una categoria linguistica, sebbene la storia della Chiesa sia segnata dall’importanza attribuita al sermo humilis, cioè alla lingua semplice adatta a rivolgersi a tutti i fedeli. Eppure, proprio l’umiltà e la mitezza sono i segni sotto i quali, mi pare, si è presentata la parola pubblica di Benedetto XVI, a cominciare dal primo saluto pronunciato nel giorno dell’elezione. In tale occasione il ricordo del predecessore si può dire un elemento consueto, che si ritrova anche nei primi saluti di Giovanni Paolo II e Francesco; ma è caratteristico di Benedetto XVI lo sminuirsi in confronto a papa Wojtyla, attribuendosi con una metafora di ascendenza evangelica il modesto ruolo dell’operaio: «Cari fratelli e sorelle, dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore».
L’umiltà non è propriamente una categoria linguistica, sebbene la storia della Chiesa sia segnata dall’importanza attribuita al sermo humilis, cioè alla lingua semplice adatta a rivolgersi a tutti i fedeli. Eppure, proprio l’umiltà e la mitezza sono i segni sotto i quali, mi pare, si è presentata la parola pubblica di Benedetto XVI, a cominciare dal primo saluto pronunciato nel giorno dell’elezione. In tale occasione il ricordo del predecessore si può dire un elemento consueto, che si ritrova anche nei primi saluti di Giovanni Paolo II e Francesco; ma è caratteristico di Benedetto XVI lo sminuirsi in confronto a papa Wojtyla, attribuendosi con una metafora di ascendenza evangelica il modesto ruolo dell’operaio: «Cari fratelli e sorelle, dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore».
Accenti dimessi
Non sembra casuale che, il 28 febbraio del 2013, nelle ultime parole pronunciate pubblicamente a Castel Gandolfo prima dello scoccare del termine stabilito per le dimissioni dal pontificato, di nuovo papa Benedetto abbia voluto parlare di sé con una metafora che ne dipingeva la figura con accenti dimessi: «Voi sapete che questo giorno mio è diverso da quelli precedenti; non sono più Pontefice Sommo della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera sono ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra».
Toni pacati
Tornando al primo saluto dopo l’elezione del 19 aprile 2005, l’umiltà schiva di cui si diceva si rispecchia anche nella concisione che restringe il discorso a una settantina di parole, contro le circa centocinquanta del predecessore e le più di duecento del successore al soglio pontificio. E la mitezza si coglie inoltre in modo immediato nell’eloquio che, in tutti i discorsi pubblici tenuti da Benedetto XVI nei suoi quasi otto anni di pontificato, si mantiene su toni pacati, sia quando si tratta di testi stesi in precedenza, come nei grandi discorsi pronunciati all’Università di Regensburg, al Collège des Bernardins di Parigi e al Reichstag di Berlino, sia nel caso di interventi in cui manca una traccia scritta, come la rievocazione del Concilio Vaticano II rivolta al clero romano il 14 febbraio 2013.
Scritto e parlato
Per inciso, si può appunto notare che tra le caratteristiche della parola pubblica di papa Ratzinger figura una forte omogeneità tra i discorsi letti e quelli improvvisati, non solo nel modo di porgere ma anche dal punto di vista della complessità sintattica: in entrambi i casi si incontrano sia frasi brevi e incisive, anche in serie (come nel discorso al Reichstag, qui citato in traduzione: «L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto?») sia periodi dalle ampie volute, sempre però strutturati in maniera chiara (per esempio, ricordando a braccio il Concilio, Benedetto XVI è in grado di mettere in campo passaggi articolati come il seguente: «Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nella Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, che erano non brutti, erano fatti secondo il cuore delle genti, così che si cercava di tradurre i continenti [per ‘contenuti’] alti, il linguaggio alto della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo, ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, e i laici, che pregavano nella Messa con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa realizza [per ‘si realizza’] nell’altare»).
Le domande dei papi
I mezzi di comunicazione hanno spesso designato Benedetto XVI come il «papa professore»: una definizione da respingere qualora voglia alludere a una supposta albagia, ma certo azzeccata se riferita a nitidezza e profondità speculative e a un modo di parlare che ricorda più la lezione universitaria che l’arringa. Emblematico è in proposito l’uso delle domande retoriche, che in Benedetto XVI rivestono spesso la funzione di introdurre il tema del discorso e di marcare i punti salienti dell’argomentazione, facendo procedere il ragionamento. Ne è un buon esempio l’udienza del mercoledì 5 dicembre 2012, dedicata alla catechesi per l’Anno della Fede, nella quale, alla citazione della preghiera con cui san Paolo benedice Dio nel principio della Lettera agli Efesini, segue il quesito «Perché l’Apostolo eleva a Dio, dal profondo del suo cuore, questa benedizione?», da cui si sviluppa la descrizione della vita dell’uomo come iscritta nel disegno salvifico di Dio. «Ma qual è lo scopo ultimo di questo disegno misterioso? Qual è il centro della volontà di Dio?»: queste nuove domande portano a indicare Cristo e la Sua gloria come il centro del progetto divino. «In questa prospettiva, che cos’è dunque l’atto della fede?»: il terzo interrogativo segna il passaggio al tema della risposta dell’uomo alla rivelazione divina, con cui si chiude il discorso. Un simile uso didattico delle interrogative era assai meno presente in Giovanni Paolo II, mentre ritorna nelle udienze di papa Francesco; il quale d’altra parte, a differenza del predecessore, mostra spesso di impiegare domande che potremmo chiamare di tipo pastorale, come quelle dell’udienza del 2 ottobre 2013: «La Chiesa a tutti offre la possibilità di percorrere la strada della santità, che è la strada del cristiano [...]. Chiediamoci, allora: ci lasciamo noi santificare? Siamo una Chiesa che chiama e accoglie a braccia aperte i peccatori, che dona coraggio, speranza, o siamo una Chiesa chiusa in sé stessa? Siamo una Chiesa in cui si vive l’amore di Dio, in cui si ha attenzione verso l’altro, in cui si prega gli uni per gli altri?».
Sozusagen, per così dire
L’attenzione di Benedetto XVI a farsi comprendere si riflette anche in un piccolo segnale come l’uso dell’espressione per così dire, specchio dell’avverbio tedesco sozusagen, che ricorre con una certa frequenza nei suoi discorsi: la si ritrova, per esempio, nell’udienza del 5 dicembre 2012 già citata (in Gesù Cristo noi «esistiamo, per così dire, già da sempre»; il disegno di benevolenza del Padre «non è rimasto, per così dire, nel silenzio di Dio») come pure in quella del 17 ottobre 2012 che ha aperto le catechesi dell’Anno della Fede («è importante che il Credo venga, per così dire, “riconosciuto”» esistenzialmente, non solo conosciuto con un’operazione meramente intellettuale; «Non è così lontano oggi il rischio di costruire, per così dire, una religione del “fai-da-te”»). Sono tutti casi nei quali per così dire marca lo sforzo di papa Benedetto nel divulgare temi complessi ricorrendo a espressioni figurate (il silenzio di Dio) o usate in un’accezione o in un contesto inusuale (religione del “fai-da-te”). È un’operazione che ricorda da vicino quella che lo stesso Ratzinger ha descritto parlando nell’omelia pavese del 22 aprile 2007 del santo che più gli è caro: chiamato al servizio pastorale nella città di Ippona, Agostino «non poteva più dedicarsi solo alla meditazione nella solitudine. Doveva vivere con Cristo per tutti. Doveva tradurre le sue conoscenze e i suoi pensieri sublimi nel pensiero e nel linguaggio della gente semplice della sua città». Si tratta di un movimento dettato dall’umiltà, che ancora si propone come caratteristica del papato di Benedetto XVI.
Letture
Antonella Pilia, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI tra lingua e comunicazione: continuità nella diversità, in L’italiano nella Chiesa fra passato e presente, a cura di Massimo Arcangeli, Umberto Allemandi & c., Torino 2010, pp. 191-268.
*Michele Colombo insegna Storia della lingua italiana all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Brescia. Sulla lingua della Chiesa ha già pubblicato diversi contributi ed è in corso di stampa un suo volumetto intitolato Dio in italiano. Bibbia e predicazione nell'Italia moderna (EDB, Bologna).
http://www.treccani.it
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