di Vittorio Messori
Alcune delle molte cose dette da papa Francesco e alcune sue scelte inedite -a cominciare dal rifiuto del palazzo vaticano e della villa di Castelgandolfo- stanno risvegliando un mito antico e sempre ricorrente tra i cattolici. Il sogno, cioè, di un ritorno alla Chiesa primitiva, tutta povertà, fraternità, semplicità, assenza di strutture gerarchiche, di leggi canoniche. Uno snello, democratico “movimento“, insomma, non una pesante Chiesa, soffocatrice dello Spirito. Si smantelli l’istituzione clericale, basta con il Vaticano, la sua curia, le sue banche, i suoi diplomatici, si torni finalmente alla comunità di Gerusalemme dopo la Pentecoste!
In verità, il mito delle origini è smentito già dagli stessi Atti degli Apostoli: due tra i primissimi convertiti, i coniugi Anania e Saffira, fanno i furbetti sul prezzo del campo che dicono di avere venduto per la comunità e Pietro assiste addirittura alla loro morte immediata. Le lettere di Paolo sono roventi verso i comportamenti riprovevoli delle comunità da lui fondate o, in ogni caso, sorte da pochissimo. Chi conosce la storia della Chiesa primitiva sa che è anche una storia di lotte tra correnti, di mutue accuse di eresia, di scismi, talvolta di violenze interne, di martiri ma pure di disertori in tal numero che divenne centrale la disputa se e come riammettere nella comunità la folla dei lapsi, quelli che rinnegavano la fede per paura. Sin dall’inizio, secondo l’avvertimento di Gesù stesso, il buon grano si mescolò con l’infestante zizzania.
Ma la nostalgia ricorrente, e che oggi sembra rilanciata, per una Chiesa delle origini egualitaria, povera, dove la fede sia libera da sovrastrutture –a cominciare dalla Curia vaticana- non va solo contro la testimonianza della storia. Va anche contro una legge implacabile che i sociologi ben conoscono. La legge per la quale le grandi realtà sociali nascono come “movimenti“, di solito ad opera di una persona carismatica, ma si dissolvono sempre e presto se, raffreddati gli entusiasmi iniziali, non accettano di trasformarsi in istituzioni gerarchiche, in strutture solide e ordinate. Solo queste assicurano la durata e la possibilità di incidere sulla società.
La politica fornisce continue conferme di quanto siano illusori i bollori di chi si scaglia contro la istituzione-partito, bollata come gerarchica, burocratica, dogmatica, costosa. Occorre liberarsi da capi, tessere, cassieri, disciplina interna! Di quelle chimere abbiano proprio ora l’esempio vistoso nello show-man passato alla politica, Beppe Grillo. Costui ha predicato, e predica, come novità dirompente (mentre è vecchia e logora come il mondo) la possibilità di opporre ai malefici partiti un “movimento“, nato e guidato dal basso, avendo oggi, tra l’altro, a disposizione la Grande Rete, dove tutti possono illudersi di essere eguali. Grillo, però, è stato subito vittima del peggior infortunio per un tribunus plebis: un successo elettorale inaspettato ed eccessivo. Finché si trattava di appellarsi alle viscere delle folle nelle piazze, tra urla e insulti, sembrava -almeno ai semplici– che il “movimentismo“ fosse la soluzione. Ma si può essere gratificati dagli applausi solo quando si è al riparo in una nicchia, quando si grida no a tutto e si sta ai margini. Quando, non avendo responsabilità di governo, ci si può permettere di non fare i conti con la realtà. E, invece, allo sfortunato Grillo proprio questo è capitato: una fastidiosa responsabilità, che ha subito mostrato che il “movimento“ non funziona, non può funzionare e che due sole sono le prospettive. O l’inazione e poi la dissoluzione coll’esodo dei delusi e coll’anarchia di sètte l’un contro l’altra armata; oppure, rassegnarsi e trasformarsi in uno di quei partiti già coperti di insulti.
Tutte le ideologie politiche che hanno devastato il secolo scorso (comunismo, fascismo, nazionalsocialismo), tutte si presentarono, agli inizi, come “movimenti“, contro la perfida casta partitica. E tutte divennero assai presto partiti unici, crearono regimi oppressivi, totalitari, come mai si era visto. In nome degli entusiasmi “movimentisti“, crearono nomenklature privilegiate e gerarchie intoccabili come mai si erano viste.
Ma allora, per tornare alla Chiesa: nella prospettiva di fede, nella logica dell’incarnazione, Dio ha voluto avere bisogno degli uomini, ha affidato loro la Parola e i Sacramenti della salvezza perché li annunciassero e li gestissero con una comunità.
Comunità che –sempre per la dialettica del Deus incarnatus– nella sua struttura visibile, esterna non è esentata dalle dinamiche che reggono ogni altra realtà umana.
Dunque, all’inizio fu il “Movimento del Cristo”, fu il “Gruppo del Nazareno“, animato direttamente dagli apostoli, tra grandi entusiasmi. Ma, terminato lo “stato nascente“, si passò rapidamente e necessariamente alla istituzione, alla struttura con una comunità gerarchica e, via via, organizzata con leggi interne ed esterne, e con proprietà mobili e immobili. Così come, in politica, il movimento iniziale -se vuol durare e contare- diventa necessariamente partito, qui si passò alla Chiesa come struttura stabile, organizzata, docente con autorità. Non fu, come pretendono gli utopisti, una deviazione, una deformazione, un tradimento del Cristo servo e povero, fu una evoluzione inevitabile, anzi doverosa per le realtà umane. E la Chiesa cattolica è una di esse, anche se qui –caso ovviamente unico- la struttura istituzionale non è che un contenitore, esiste solo per servire il Mistero di un Dio che insegna e redime.
Insomma, è una illusione quella dei cristiani che, oggi più che mai numerosi, auspicano il ritorno alla semplicità degli inizi. Indietro non si può tornare. Dunque, non vi è posto per certa animosità pregiudiziale verso la Curia vaticana, verso coloro che, giorno dopo giorno, gestiscono la struttura ecclesiale. Non ha senso il manicheismo di chi volesse distinguere tra un “Pontefice buono“ e una “Curia cattiva“. Papa Francesco, gesuita, viene dal più compatto ordine ecclesiale ed è il primo a rifiutare una simile contrapposizione: anzi, ha più volte ringraziato i suoi collaboratori, verso i quali si dice pienamente solidale. Certo, Ecclesia semper reformanda, almeno nella sua struttura umana: la “macchina vaticana“ va di continuo adattata ai tempi, semplificata nei metodi, migliorata (se possibile) nel suo personale, dal cardinale sino al minutante. Non dimenticando però che, senza la trasformazione in solida istituzione, del “Movimento di Cristo“ sarebbe rimasto solo un cenno in qualche testo di storia antica dell’ebraismo.
Corriere della Sera, 10 novembre 2013
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