mercoledì 6 novembre 2013

La sinfonia incompiuta del musicista Francesco







La conversazione iniziata dal papa su "La Civiltà Cattolica" continua a più voci. Ecco due esempi: un chiarimento autorevole su Bergoglio "mistico" e la lettera aperta di un teologo di New York 



di Sandro Magister

ROMA, 5 novembre 2013 – L'intervista di papa Francesco alla rivista dei gesuiti di Roma "La Civiltà Cattolica" appare sempre più come la "ouverture" di un concerto a più voci.

Un concerto che è tuttora in pieno svolgimento, sia sviluppando dei motivi appena accennati dal papa, sia arricchendoli di contrappunti.

In quell'intervista, ad esempio, nel confermare il suo essere e sentirsi pienamente gesuita, Jorge Mario Bergoglio aveva preso le distanze dall'immagine corrente di sant'Ignazio di Loyola come severo asceta della Controriforma:

"Io sono invece vicino alla corrente mistica, quella di Louis Lallemant e di Jean-Joseph Surin. E Favre era un mistico".

A un non esperto, questa battuta suonava di ardua comprensione. Ebbene, ha provveduto "La Civiltà Cattolica" a spiegarne il significato, in un articolo sul suo numero del 2 novembre, scritto dal gesuita Giandomenico Mucci e intitolato: "Papa Francesco e la spiritualità ignaziana".

Ogni articolo de "La Civiltà Cattolica" è da sempre stampato con il previo controllo delle autorità vaticane, un controllo che Pio XII esercitava di persona, che i papi successivi delegarono alla segreteria di Stato ma che ora tende a tornare nelle mani di papa Francesco, almeno per le questioni che gli stanno più a cuore e lo riguardano personalmente.

È difficile infatti immaginare che "La Civiltà Cattolica" abbia descritto con tale sicurezza e con tale ricchezza di dettagli la spiritualità ignaziana propria di papa Bergoglio senza averne avuta da lui la convalida.

Padre Mucci spiega che "è giusto distinguere due correnti, storicamente individuabili e definibili, all'interno dell’unica spiritualità ignaziana".

La prima la descrive così.

"La corrente ascetica si fonda sulla meditazione discorsiva e sull’esercizio metodico delle singole virtù. Inculca i grandi princìpi della vita spirituale, ma insiste sullo sforzo di combattere uno dopo l’altro i difetti, sviluppando una dopo l’altra le virtù".

E la seconda:

"La corrente mistica insiste invece, dopo l’iniziale rigorosa ascesi, sulla docilità all’azione dello Spirito Santo. La lotta contro i vizi e la pratica delle virtù occupano un secondo piano".

Prosegue padre Mucci:

"Entrambe le correnti hanno pieno diritto di cittadinanza nella Compagnia di Gesù e gli autori dell’una e dell’altra sono tutti discepoli di sant’Ignazio. Nel corso dei secoli, le direttive ufficiali della Compagnia, fino ai nostri giorni, hanno privilegiato la prima corrente, forse perché è stata giudicata spiritualmente più sicura e non propensa a favorire quelle illusioni che sempre, o quasi, si annidano dove si parla di mistica senza discernimento. Tuttavia, la corrente mistica non è stata mai proscritta o sconsigliata. Né si sarebbe potuto farlo, sia per l’universale stima di cui hanno goduto e godono i suoi autori, sia per i frutti di santità che ha prodotto. Si pensi soltanto ai santi martiri del Canada che furono allievi del Lallemant. E di tanto autore si dichiara oggi allievo il papa".

In un altro passaggio dell'articolo, padre Mucci esplicita ulteriormente il significato della mistica:

"La mistica, nel suo significato teologico più ampio, è la disposizione nello spirito umano a ricevere i lumi e le mozioni dello Spirito Santo causate da un’attività distinta da quella umana ordinaria. Questi lumi e mozioni attuano i doni dello Spirito Santo già infusi da Dio nell’anima. La vita mistica, così intesa, nient’altro è che la docilità abituale allo Spirito di Dio".

Questo fu dunque sant'Ignazio: un mistico, prima che un asceta.

E questo è papa Francesco. Per capire i suoi atti, la mistica ignaziana è una chiave di lettura dalla quale non si potrà prescindere..

*

Ma oltre ad esplicitazioni come quella sopra citata, l'intervista di Francesco a "La Civiltà Cattolica" sta dando vita anche a interventi che aggiungono questioni a questioni.

È uno sviluppo tipico di qualsiasi conversazione aperta. Ed essendo questa la modalità utilizzata da papa Francesco per annunciare il suo programma di pontificato, è naturale che anche le reazioni non si limitino all'ascolto, all'accettazione, alla critica o al rifiuto, ma interloquiscano direttamente con lui, in un dialogo che continua.

Un esempio tutt'altro che banale di come tale dialogo si può sviluppare è l'intervento riprodotto qui di seguito, ospitato dalla rivista dei gesuiti di New York "America" assieme a una dozzina di altri commenti dell'intervista di papa Francesco a "La Civiltà Cattolica".

L'autore, Robert P. Imbelli, è sacerdote dell'arcidiocesi di New York e professore di teologia al  Boston College. È stato tra i fondatori della Catholic Common Ground Initiative intitolata allo scomparso cardinale Joseph Bernardin. È tra le firme de "L'Osservatore Romano".

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UNA CONVERSAZIONE CHE CONTINUA


Qualche domanda in più a papa Francesco


di Robert P. Imbelli


Negli anni Cinquanta, quando cominciai ad appassionarmi della musica classica, non c'era penuria di leggendari direttori d'orchestra. Ma due si stagliavano sulla sommità del pantheon: l'italiano Arturo Toscanini e il tedesco Wilhelm Furtwängler.

Di Toscanini si diceva che iniziava un brano con la sua "logica" musicale ben fissa nella sua mente e l'esecuzione diventava un ininterrotto e coerente sviluppo di quella logica. Mentre all'opposto lo stile di Furtwängler assomigliava a una incessante conversazione tra i musicisti e le parti musicali, che si costruiva grado per grado fino a una drammatica e talvolta sorprendente conclusione.

Il riferimento di papa Francesco a Furtwängler, nella sua intervista a "La Civiltà Cattolica", ha riacceso in me quel ricordo giovanile. L'opzione preferenziale di Francesco per la "narrazione", il "discernimento" e la "mistica" sembra più in armonia con il direttore d'orchestra tedesco che con l'italiano. Mentre, paradossalmente, lo stile del suo predecessore tedesco, Benedetto XVI, con la sua enfasi sul "logos", sembra più in sintonia con Toscanini. Certo, entrambi i direttori – come entrambi i papi – rispettano e servono i medesimi testi canonici. Le note sono le stesse, ma gli accenti e i ritmi possono variare sensibilmente.

Il gesuita Antonio Spadaro ha incontrato tre volte papa Francesco e abilmente ha tessuto le parole del papa in un tutto unitario. Egli fa due annotazioni su questa sua esperienza, che non sono riportate nella precisa traduzione inglese dell'intervista pubblicata da "America", ma che si possono leggere nella versione stampata su "La Civiltà Cattolica".

Nelle sue righe introduttive, Spadaro fa questa osservazione: "È chiaro che papa Francesco è abituato più alla conversazione che alla lezione". E nel concludere le sue riflessioni Spadaro chiosa: "In realtà la nostra è stata una conversazione più che un'intervista".

Ritengo importante citare queste annotazioni, poiché collocare le affermazioni del papa nel genere della conversazione può fare meglio da guida all'interpretazione che se ne dà. La conversazione è intercorsa tra due credenti, tra due confratelli gesuiti, che condividono un impegno, una visione e un comune linguaggio. Nondimeno, essa è intercettata da un mondo che è avido di individuare ogni indizio di cambiamento nell'insegnamento della Chiesa, ma è spesso sordo al più profondo linguaggio della fede. È sotto i nostri occhi la prevedibile fissazione dei media laici sulle questioni dell'aborto e del matrimonio gay, gli stessi oggetti dai quali essi accusano porzioni della gerarchia d'essere ossessionata.

Come molti hanno già notato, papa Francesco non discute ciò che è divenuto insegnamento consolidato del magistero al riguardo. "Il parere della Chiesa lo si conosce – afferma – e io sono figlio della Chiesa". Ma è significativo il suo riposizionameno di questi insegnamenti morali rispetto al cuore della questione, che è la proclamazione da parte della Chiesa della buona novella che "Gesù Cristo ti ha salvato!". Sebbene egli non usi qui il termine, sembra evidente che ciò che Francesco ritiene essere il bisogno urgente del nostro tempo è una nuova evangelizzazione, una rinnovata proclamazione dell'amore e della misericordia di Dio incarnati e resi accessibili in Gesù Cristo.

Qui si può apprezzare il forte richiamo del papa alla dimensione mistica della vita cristiana. Come Benedetto XVI, Francesco insiste sul fatto che il cristianesimo non può essere ridotto a un codice morale. È prima di tutto una relazione con una persona: la persona di Gesù Cristo. Analoga è la sua sottolineatura che Ignazio di Loyola (che ha un posto di rilievo in questa conversazione tra due gesuiti) non è in primo luogo un asceta, ma un mistico. E che l'apprezzata pratica ignaziana del discernimento non è una tecnica da applicarsi meccanicamente, ma "uno strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo più da vicino".

Qui possiamo anche situare la stimolante presentazione che il papa fa del beato Pietro Favre come modello. Ciò che colpisce di Favre è la sua capacità di congiungere "l'esperienza interiore, l’espressione dogmatica e la riforma strutturale" in una inseparabile unità. Come in Favre, così in Francesco.

Ma l'insistenza del papa sulla centralità di Gesù Cristo, sul discernimento come amore d'essere suoi discepoli, su Favre come esemplare nella sua capacità di integrare inseparabilmente elementi della vita della Chiesa, rischia di essere ignorata dal ristretto concentrarsi dei media sulle "questioni bollenti". Così, sebbene questa fraterna conversazione affascini e conquisti, quando è trasposta nell'orizzonte esclusivamente laico degli organi di stampa, le parole possono essere facilmente distorte.

Se "America" mi affidasse di dare un seguito alla conversazione con papa Francesco, ecco qui alcune delle preoccupazioni che gli esprimerei.

Padre Santo, nella conversazione Lei sembra più critico dei "restaurazionisti" e dei "legalisti" che dei "relativisti" (che tanto preoccupavano il Suo illustre predecessore). Lei fa un breve cenno al "relativismo" solo per sostenere che il Dio della Bibbia, che noi incontriamo "nel cammino", trascende il relativismo. Penso che i molti ascoltatori della conversazione trarrebbero un grande profitto da ulteriori delucidazioni del Suo pensiero in proposito. Come possiamo parlare oggi del Dio rivelato in Gesù Cristo come di un "assoluto"?

Lei rivolge inoltre un forte richiamo alla Compagnia che porta il nome di Gesù perché sia "decentrata" da se stessa e centrata invece su "Cristo e la sua Chiesa". Ma quali sono le implicazioni del proclamare Cristo come centro? Non ci costringe ciò ad andare al di là della narrazione per arrivare al cuore della verità, al di là della pratica per arrivare al suo fondamento contemplativo? Avendo seguito le Sue omelie a Santa Marta sulla lettera ai Colossesi, che proclama Cristo come "l'immagine del Dio invisibile… nel quale tutte le cose sussistono", posso certo prevedere la Sua risposta. Ma una Sua ulteriore riflessione su questo tema arricchirebbe molto e aiuterebbe a continuare la conversazione, specialmente tra coloro che si trovano nel "cortile dei gentili".

Collegandosi a quest'ultimo punto, Lei esprime la Sua forte preferenza per la "speranza" più che per l'"ottimismo". Ma, probabilmente per mancanza di tempo, Lei non dice altro per descrivere questa speranza, salvo parlarne come di una "virtù teologale" e "in definitiva un regalo di Dio". Ma so che un mondo spesso vuoto di speranza (e anche di ottimismo) anela di conoscere le dimensioni e la ricchezza di questa speranza e di ascoltare "una ragione (logos) della speranza che è in noi".

Infine, al temine della conversazione, Spadaro ha posto una domanda sui cambiamenti nella comprensione dell'uomo, nei secoli. Lei ha raccolto l'argomento e ha portato esempi di differenti periodi storici per illustrare la cosa. Nello stesso tempo, come un avveduto direttore spirituale, Lei riconosce che gli uomini e le donne sono spesso inclini a ingannare se stessi. Mi consenta di dirLe che noi tutti ricaveremmo un considerevole profitto da un'ulteriore conversazione che illustri quei principi che possono guidare il nostro discernimento di ciò che costituisce un'autentica fioritura dell'umano. Poiché, come ricordo ai miei studenti, "trovare Dio in tutte le cose" è il frutto delle prime tre settimane degli esercizi ignaziani, non il punto di partenza.

Padre Santo, nonostante la Sua forte preferenza per Furtwängler, confido che non trovi fuori luogo queste preoccupazioni di un appassionato di Toscanini. Come Lei ha spesso fatto capire, lo Spirito Santo si scopre meglio in una ricca armonia di voci.






http://chiesa.espresso.repubblica.it/

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