mercoledì 6 novembre 2013

Il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola







di Francesco Agnoli

Dall’inizio del suo pontificato uno degli argomenti su cui papa Francesco ritorna più spesso è il perdono di Dio, attraverso il sacramento della confessione. Recentemente, in una delle prediche a santa Marta, il papa ha messo l’accento sulla fatica che facciamo a riconoscerci peccatori: “Sempre cerchiamo una via di giustificazione: “Ma sì, siamo tutti peccatori”. Ma lo diciamo così, no? Questo lo dice drammaticamente: è la lotta nostra. E se noi non riconosciamo questo, mai possiamo avere il perdono di Dio”. E ha concluso che “vergognarsi davanti a Dio è una grazia”. E’ una grazia riconoscersi bisognosi di misericordia, recitare il proprio miserere, e, facendolo ottenere, inevitabilmente, quasi Dio ne fosse costretto, il perdono.
Viene in mente la bella storia dell’Innominato, descritta dal Manzoni con grande conoscenza della psicologia del peccatore.

L’Innominato è un incallito omicida che all’epoca dei primi soprusi ha provato, come tutti, un certo fastidio per le sue colpe. Ma poi, di delitto in delitto, la coscienza si è addormentata, si è placata, tanto da sembrare uccisa. Ma “una certa ripugnanza provata nei primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire”: la coscienza – quella voce che parla dentro di noi, ma come se venisse da fuori, che urla, da dentro, la nostra non autonomia, la nostra non indipendenza -, non è un abitudine, un insieme di costrizioni esterne, di condizionamenti culturali, ma è una realtà potente. Tanto che appena l’Innominato sente addosso la vecchiaia, appena sperimenta il suo limite, appena vede la morte incombente, quella voce torna a parlare, più forte di ogni tentativo di soffocarla: “Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento”, come qualcosa che c’è, nonostante il nostro tentativo di negarla. Così, incontrando Lucia, l’Innominato sente ripetere la parola che lo sconvolge: “Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio…”.
Qual è la nostra reazione, quando ci viene ricordato il nostro limite? Spesso ci adiriamo, ridicoli e presuntuosi, alziamo la voce, cerchiamo di sembrare giganti, e non nani. La sola parola “Dio” basta a far imbufalire chi pretende di ritenersi senza peccato. Ecco che l’Innominato reagisce, con violenza: “Dio, Dio, interruppe l’Innominato, sempre Dio… Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi…?”.

E’ sempre un po’ amara la medicina contro la nostra superbia. Ci fa sempre un po’ arrabbiare che ci sia qualcuno che umilmente, silenziosamente, ci sta sopra. Sono sempre utili, nella nostra vita, certe ferite, certi colpi, certe botte che prendiamo, proprio mentre procediamo baldanzosi, sussiegosi e sicuri: ci rimettono al nostro posto.
Ma ecco che dopo aver pronunciato la parola giusta, quella che sola può turbare davvero l’Innominato, Lucia fa intravedere al peccatore, che vede in Dio solo il suo giudice, perché finalmente ha visto il suo peccato, la tenerezza del Padre. Di qui la famosa frase, quella vincente, quella in cui Dio – che è comparso per un attimo nella sua potenza, che ha annichilito per un attimo con la sua grandezza l’inane superbia umana-, si fa vicino all’uomo: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia”.
Al peccatore che ha compreso il suo peccato, che lo ha guardato e lo ha pesato, rimane da compiere l’ultimo sforzo: affidarsi alla misericordia. Questo gesto di umiltà è l’unico che possa riscattare tanta superbia. Questo abbassarsi è l’unica cosa che possa riportare serenità nel cuore sconvolto. Qui l’Innominato, come Giuda, è posto di fronte ad una scelta definitiva: tra il suicidio, estrema affermazione della propria chiusura a Dio, e il pentimento. L’Innominato sceglie il secondo. E’ pronto ormai per confessarsi, dal cardinal Federigo Borromeo.

Anche a lui, però, l’Innominato chiede: “Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?“. E la risposta illumina ancora una volta il modo di procedere di un Dio che corteggia le sue creature così, atterrando e suscitando, affannando e consolando : “Voi me lo domandate? Voi? E chi piú di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?… E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento?…Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? E farvi salvo? E compire in voi l’opera della redenzione?…”.




  Il Foglio

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