giovedì 31 maggio 2012

Il latino del Concilio Vaticano II






di Filippo Rizzi

Cultore del latino ecclesiastico come di quello classico, soprattutto autorevole studioso di Sant’Ambrogio, nel lontano 1962 il cardinale Giovanni Coppa, divenuto anni dopo nunzio nella Repubblica Ceca, visse da testimone privilegiato l’inizio del Vaticano II portando la sua competenza di latinista: «La mia esperienza in quell’assise fu in verità molto limitata. Ero stato nominato esperto come latinista, ed era per me, allora molto giovane, una cosa esaltante poter entrare nella basilica Vaticana durante lo svolgimento dei lavori. Ancora oggi conservo la mia tessera di nomina a latinista al Concilio».
Una passione per il latino nata alla Cattolica di Milano col professor Riposati e il dottor Dal Santo e poi maturata sotto la direzione del suo «maestro di sempre» monsignor Amleto Tondini: «Fu lui a tenere in me vivo l’amore per questa lingua e grazie a lui collaborai alla prestigiosa rivista Latinitas. E non posso dimenticare un altro latinista di rango della Santa Sede come monsignor Guglielmo Zannoni».
Fu proprio la conoscenza del latino a consentire al giovane don Giovanni Coppa, originario di Alba, la provvidenziale permanenza nella Città eterna: «Fui chiamato in segreteria di Stato da monsignor Angelo Dell’Acqua nel 1958. Nel 1952 ero entrato nella Cancelleria Apostolica, provenendo dalla Cattolica di Milano, dove, senza volerlo, mi ero fatto una fama di "latinista" per aver superato i tremendi esami scritti di latino già nel primo biennio. Monsignor Amleto Tondini, che era reggente della Cancelleria, cercava dei collaboratori per la redazione delle Bolle Pontificie, ed ebbe il mio nome da Agostino Saba, che insegnava nella stessa università. Rimasi in Cancelleria per oltre cinque anni. Una straordinaria fucina di lavoro, dove non c’era tempo di annoiarsi, perché, come dicevo scherzosamente agli amici intimi, ci si doveva occupare de omnibus rebus et de quibusdam aliis. E lì rimasi fino alla partenza per Praga».
La permanenza effettiva del cardinale Coppa alle sessioni conciliari durò lo spazio di un mattino, o poco più, perché «monsignor Dell’Acqua si accorse delle mie assenze dall’ufficio e, giustamente, fece in modo di non lasciarmi mancare il lavoro in Segreteria di Stato…». Ma nonostante questo rimase vigile, come tutta la schiera dei latinisti al Concilio, a cominciare dal segretario di quell’assise Pericle Felici o dal cardinale Antonio Bacci affinché «in quell’aula il latino non subisse stravolgimenti nelle sue traduzioni per i documenti ufficiali».

 Perché la figura del latinista è stata così importante per il Concilio Vaticano II? 

«Prima di tutto perché i documenti ufficiali dovevano essere tradotti in latino. Noi latinisti eravamo necessari perché i testi non erano scritti tutti all’inizio in latino e quindi era necessaria una traduzione corretta e adeguata. E poi non dimentichiamo che in aula era essenziale saper parlare in latino per intervenire. Il nostro ruolo, assieme a quello dei periti, divenne fondamentale per capire in molti casi la dinamica dei lavori. In realtà, durante le quattro sessioni, eccettuato qualche raro caso, tutti i Padri usarono il latino che si confermò come lingua universale della Chiesa».

 Fu una scelta fortemente voluta da Giovanni XXIII. Può spiegare il perché?

«Prima che iniziasse il Concilio una delle questioni dibattute fu se il latino dovesse essere la lingua ufficiale dell’assise o se fosse più utile scegliere una delle lingue moderne di più ampia diffusione. Ad alimentare questo dibattito si aggiunse la decisione di molti Stati di sopprimere o limitare proprio in quegli anni l’insegnamento del latino nelle scuole medie. Tutto questo faceva apparire questa lingua anacronistica e superata. Vi era proprio una "animosità" contro il latino. E a vantaggio del mantenimento del latino come lingua ufficiale della Chiesa giocava il fatto che era studiata in tutti i seminari cattolici del mondo. Inoltre si deve sottolineare la scelta di Papa Roncalli di promulgare pochi mesi prima dell’indizione del Concilio la costituzione apostolica Veterum Sapientia in cui ribadiva l’importanza dello studio e della rinascita del latino nelle università ecclesiastiche. Una scelta per riaffermare che questa lingua rimaneva uno dei fulcri della cattolicità romana e non doveva essere vissuta come una lingua destinata a morire e parlata solo da una piccola élite di cattolici. Fu lo stesso Pontefice in un’allocuzione (alla commissione centrale preparatoria del Concilio nel giugno del 1961) a troncare ogni esitazione annunciando che il latino doveva considerarsi la lingua del Concilio pur ammettendo che, "data occasione e necessità, sarebbe stato consentito di esprimere e di veder raccolto il proprio pensiero nella lingua parlata"».

 Uno dei problemi di voi esperti era quello del latino da utilizzare nei documenti? 

«La posta in gioco era di mantenere lo stesso livello di qualità di traduzione e di stile linguistico del Concilio di Trento e del Vaticano I. Rammento che una delle preoccupazioni di monsignor Tondini era quella della fedeltà di traduzione, "precisione di terminologia" ma anche "attenzione alla forma". Non si esigeva certo un latino drappeggiato sui moduli delle orazioni ciceroniane, sarebbe bastato prendere come esempio i testi dei Padri della Chiesa d’Occidente, primi fra tutti Ambrogio e Agostino. L’obiettivo era servirsi di un latino semplice, sicuro, ecclesiastico che riuscisse però a conservare una certa affinità con lo stile biblico e patristico, ma che non alterasse il genio della lingua. Difendevamo insomma la correttezza di traduzione di una lingua morta, ma ancora piena di vita».

 Nella maggioranza dei testi la lingua di Cicerone diede buona prova di sé… 

«Vi fu molta cura e ricercatezza nelle traduzioni. Penso ad alcuni documenti o dichiarazioni come quello sulla libertà religiosa la Dignitatis Humanae o le costituzioni Dei Verbum, Lumen Gentium o la Sacrosanctum Concilium. In questi casi si legge un latino limpido, intriso di reminiscenze bibliche e patristiche. Insomma si tratta di testi, anche dal punto di vista formale, degni del Concilio. Dovevano avere l’andatura spoglia e lineare di un trattato teologico oltre a un forte approccio spirituale e liturgico, e sostanzialmente il risultato finale è stato buono».

 Ma proprio a conclusione del Concilio, sulle colonne de L’Osservatore Romano, lei fu molto critico verso certe "maldestre" traduzioni… 

«Fu l’allora direttore dell’Osservatore Raimondo Manzini a chiedermi di realizzare un articolo sul latino del Vaticano II. Così, mettendo in luce la ricchezza di molti testi evidenziai i limiti di altri. Un esempio? La Costituzione pastorale Gaudium et spes fu tradotta troppo in fretta e alcuni decreti lasciavano a desiderare riguardo al latino. Gli stessi Padri conciliari se ne lamentarono. Il segretario del Concilio Pericle Felici, da fine latinista qual’era, diede ragione a molte delle mie osservazioni».

 Quali furono gli abusi linguistici più evidenti? 

«Furono tanti soprattutto nei testi dove vi erano parole presenti nelle lingue moderne, ma non in quella latina. Gli esempi? Vennero fuori parole come Civilizatio, dissensiones raciales o industrializatio, opinio publica che non avevano nulla a che vedere con il latino autentico e con la sua costruzione sintattica. Per esempio la parola actuositas fu adoperata infinite volte per indicare l’attività generosa e zelante, quando, a tale scopo, il latino aveva a disposizione un vocabolario più ricco come industria, navitas o alacritas. Altro aspetto che notai, evidenziato anche da altri latinisti, fu l’eccesso di forme aggettivali quando invece il latino adopera più frequentemente il sostantivo al caso genitivo. Con un po’ di humour si trattò, in quel frangente, di veri neologismi, perché prima d’allora non si erano sentite tante parole nuove, trasportate di peso dalle lingue moderne e latinizzate nella desinenza».

 Come furono accolte le sue osservazioni?

«A quanto ricordo, ebbi telefonate di approvazione. Certo ci fu qualche critica, specie a Roma. Il segretario del Concilio Pericle Felici mi confidò che c’era stata qualche esitazione a far pubblicare quell’articolo sull’Osservatore, ma poi decise: "Se viene dalla Segreteria di Stato allora lo pubblichiamo…". La mia non era una critica ai contenuti ma solo allo stile. Pensi che la Gaudium et spes è stata ed è per i suoi contenuti una delle stelle polari della mia vita di sacerdote. Nei miei rilievi facevo presente che grandi documenti del Novecento dalla Rerum Novarum di Leone XIII all’Ecclesiam suam di Paolo VI (1964) sono lì a dimostrare la bellezza dell’uso moderno del latino senza scadere in discutibili contaminazioni».

 Eminenza, come visse il passaggio dal latino all’uso dell’italiano nella Messa? 

«Il passaggio dal latino alle lingue volgari rappresentò per me, come credo per quelli della mia generazione una benedizione perché capivamo forse più di altri l’anacronismo del latino nella Messa che non veniva capita dal popolo. Parlo solo del latino, non degli abusi che sono sorti in seguito in campo liturgico».


Avvenire   30 maggio 2012



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