Il riso è molto apprezzato nella società di oggi. Sono molto stimati coloro che sanno far ridere la gente. Pensiamo per esempio agli spettacoli televisivi. Si cerca il ridere come distrazione dai propri problemi. A volte il ridere sembra il massimo delle aspirazioni della persona. Anche nelle comunità religiose, dove un tempo vigeva una grande serietà, si amava la solitudine e il silenzio, la penitenza e il raccoglimento, oggi il riso e il chiasso sono diffusissimi: ironie, battute di spirito, risate scoppiettanti, scherzi e barzellette. Essere sempre di “buon umore” in ogni circostanza. Ricordo la raccomandazione dei Focolarini, tanti anni fa: “sempre sorridere”.
Si cerca sistematicamente il ridere, anche in certe comunità religiose laddove si richiederebbe una maggiore serietà. Per cui si finisce per apprezzare soprattutto le persone allegrone e scherzose: Dante Alighieri (forse con un po’ di ironia) avrebbe detto: “I frati gaudenti”. Tali persone sono candidate a ricoprire incarichi in quanto li si vede maestre nel ridere e si pensa che così allegre non esigano dalle comunità troppi sacrifici e rendano la vita gradevole.
Si educano i giovani al ridere, si esige da loro quasi perentoriamente che sappiano ridere, di fare battute o raccontare storielle buffe come se si trattasse di un valore importantissimo, e se non abbondano nel ridere o non sanno far ridere, si dubita circa la validità della loro vocazione cominciando col dire che non sanno stare in compagnia e non amano la “vita comune”. Si guarda con sospetto la serietà o la taciturnità come se fosse una specie di broncio, o segno di incapacità di comunicare, di individualismo o di scarsa vivacità.
Ma da dove è venuto fuori questo prepotente ideale del ridere ad ogni costo? Si tratta infatti di un fenomeno caratteristico dell’età moderna. Negli Antichi, si tratti di cristiani o di pagani, il ridere certo non è ignorato, ma è molto scarso ed è tenuto ai margini della vita personale e sociale, gli si dà poca o pochissima importanza. Provate a leggere la letteratura antica, la Bibbia, gli antichi trattati della perfezione spirituale, l’esempio dei Santi del passato, la vita stessa di Cristo e degli Apostoli.
Difficilmente troverete episodi da far ridere, raramente troverete la presenza dello scherzo, della battuta, della ridicolaggine, delle storielle buffe o delle spiritosaggini. L’umorismo è quasi assente e di barzellette non se ne parla neppure. Alcuni dicono: tutto ciò era sottinteso, ma, data la poco importanza che a ciò si attribuiva, i biografi e gli storici non ne parlano. Ciò può essere anche vero in parte, ma nel contempo conferma per lo meno il fatto che al ridere non si dava importanza.
Certo un conto è il riso pagano e un conto è il riso cristiano. Il primo nasce da una reazione disperata alla disperazione, dall’attaccamento ai piaceri carnali, al divertimento per le disgrazie altrui. Il ridere cristiano invece è legato alla pace dell’anima, al saper portare la croce, alla buona coscienza, al rallegrarsi per le cose belle e sante, al gusto per l’amicizia, alla gioia di vivere con Cristo e per Cristo. Il cristiano sa ironizzare su ciò su cui si deve ironizzare e sa prendere sul serio le cose serie, secondo quel motto popolare “scherza con i fanti e lascia stare i santi”.
Lo gnostico Spinoza sosteneva con la sua dura seriosità di chi crede di determinare le sorti dell’umanità dall’alto del suo panteismo, che “il saggio non piange e non ride”. Ma viceversa il grande Biagio Pascal, profonda anima di cristiano, gli rispose, pensando evidentemente alla saggezza cristiana, la scientia crucis: “No! Il saggio piange e ride”.
Il ridere pagano, oggi purtroppo ritornato di moda anche in ambienti cristiani e religiosi, non è vero ridere, ma piuttosto un deridere. Il vero ridere, quello sano e costruttivo, è un ridere con qualcuno. Il deridere, che è ridere malsano e peccaminoso, distruttivo del rapporto sociale e dell’amicizia, è un ridere di qualcuno. Tra questi due modi di ridere, già presi in considerazione nella Sacra Scrittura, c’è una grande differenza, che vorrei qui descrivere brevemente affinchè noi pratichiamo il primo tipo del ridere ed evitiamo il secondo.
Innanzitutto chiediamoci: che cosa è il ridere? Che definizione ne diamo? Da cosa nasce il ridere? Il ridere ha un qualche fine?
S.Tommaso d’Aquino, con l’acutezza che sempre lo contraddistingue, osserva come la capacità di ridere suppone la razionalità. Il ridere è un fenomeno che nasce dall’esercizio della ragione. In che senso? Come? Il ridere nasce dall’opportuna e studiata messa a confronto di due cose o due nozioni in opposizione tra di loro secondo uno speciale criterio: è questo congiungimento insolito ed arguto che provoca il ridere. Per questo il far ridere in tal senso, ridere intelligente e sano, non quello sciocco o amaro o sarcastico dei malevoli e degli invidiosi, suppone in chi sa far ridere una notevole dose di saggezza, di finezza, di agilità mentale, di fantasia, di intelligenza e, perché no? di carità. Questo è il buon umore dei santi, particolarmente apprezzato nella agiografia moderna, soprattutto postconciliare.
Si racconta per esempio del grande e dottissimo teologo domenicano francese il Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange, il quale, benchè avesse vissuto per molti decenni in Italia, non si ridusse mai ad imparare bene l’italiano, per cui un giorno, trovandosi alla stazione ferroviaria con dei bagagli da trasportare, volendo chiamare il facchino, disse invece gridando da lontano. “finocchio!”.
Ora indubbiamente Padre Reginaldo sarà stato il primo a ridere di questo piccolo involontario incidente, e per questo qui il ridere è indubbiamente sano ed innocente. Si potrebbe questo chiamare il ridere con l’altro. Invece le cose prendono un’altra piega quando si ride di una buona azione, per quanto essa a tutta prima possa sembrare paradossale o incredibile. Qui allora abbiamo quel ridere dell’altro, che offende l’altro ed è quel peccato di “derisione” del quale parla S.Tommaso nella Somma Teologica, II-II, q.75.
Qui gli esempi biblici abbondano, come quando la gente al sentire Gesù il quale dice che la fanciulla che egli sta per risuscitare non è morta, ma “dorme”, si mette a ridere, ossia, come diremmo oggi, “lo presero in giro” ovvero “si presero gioco di lui” (Mt 9,24). Il verbo greco è: kataghelào, che vuol dire appunto: “derido, rido di, schernisco, mi faccio beffe, beffeggio”. Oppure come quando gente miope o incredula deride gli Apostoli (At 2,13) o S.Paolo (At 17,32).
Il deridere di per sé non è necessariamente peccato se deridiamo chi se lo merita. Per questo la Bibbia dice che persino Dio ride. Egli infatti “ride dell’empio” (Sal 37, 13) o dice a coloro che finiscono tragicamente per averGli disobbedito: “Riderò della vostra sventura” (Pr 1,26). Peccato invece, per la Bibbia, è quando si deride il giusto o il povero o lo sventurato o la persona pia.
Un’ultima considerazione, con la quale riprendo il discorso dell’inizio. Una forte crescita di stima per il ridere è uno dei fenomeni caratteristici della modernità. Come tutti i fenomeni nuovi della storia, osserva giustamente il Maritain, comporta un aspetto positivo e uno negativo.
Di positivo l’aumentata stima per il ridere ha il fatto che essa è connessa con la serenità d’animo, col benessere, col buon carattere, con l’ottimismo, col buon andamento delle cose e soprattutto il sano ridere è legato all’abbandono nelle mani della Provvidenza, alla bontà d’animo ed all’amore per il prossimo, tutte virtù e condizioni che sono particolarmente presenti nella vita del cristiano, il quale giudica buone condizioni di vita anche quelle che gli portano sofferenza, per cui anche in queste, serenamente unito a Cristo, trova la forza di ridere e di scherzare.
Viceversa, col sorgere del Rinascimento, del luteranesimo e poi dell’illuminismo, comincia a farsi strada l’antico modo pagano del ridere, legato alla gioia sensuale, al successo mondano, al potere, al diffondersi dell’empietà. La gioia luterana sembra fondata sulla fiducia nella Provvidenza, ma in realtà appare molto più come un atteggiamento forzato, che cerca nel piacere sensuale di coprire l’intima angoscia di problemi interiori irrisolti e dei sensi di colpa non eliminati.
La gioia e l’esultanza dell’illuminismo nascono dall’illusione razionalistica dell’uomo che comincia credere di poter fare a meno di Dio ed irride i dogmi e le pratiche religiose: questo ridere certamente non è sano, ma corrosivo e distruttore del rapporto con Dio e della serena vita sociale.
Il Concilio di Trento, senza dimenticare la tristezza di questa valle di lacrime e la consapevolezza dei nostri peccati, si fa promotore di autentica serenità interiore ed anche psicologica, fondandosi sulla speranza della salvezza e sull’esperienza dell’unione con Cristo, Redentore Misericordioso. Già la spiritualità medioevale aveva posto le premesse per questo stato d’animo che porta al ridere sano ed all’esultanza autentica. Ma il medioevo presenta ancora lo stile di una certa riservatezza e sobrietà.
Sarà con la riforma tridentina che si troverà un nuovo equilibrio tale da generare da una parte un sano buon umore nel cristiano che gode del proprio vivere cristiano: esempio per tutti un S.Filippo Neri col suo “scrupoli e malinconia fuori di casa mia”.
Il Concilio Vaticano II prosegue su questa via della promozione di un’umanità serena e gioiosa in forza dell’unione con Cristo ed accentua questo buon umore cristiano facendo leva sul fatto che il viere cristiano è fin da adesso un inizio della risurrezione, è una vita “escatologica”. La stessa liturgia, come sappiamo, insiste sull’aspetto della festa e dell’esultanza, persino nei riti funebri.
Il rischio dell’oggi, come accennavo all’inizio, è quello di una stolta esagerazione nel ridere e nel far festa, soprattutto in quegli ambienti che maggiormente, per la loro stessa vocazione, dovrebbero dare esempio di serena compostezza, senso di responsabilità, spirito di penitenza, compassione per i poveri e i sofferenti, preoccupazione per i grandi problemi della Chiesa e della società.
Viceversa l’eccesso del ridere, oggi purtroppo frequente, fa subito pensare all’antico saggio proverbio risus abundat in ore stultorum, fa pensare più alla figura del ricco epulone che del povero Lazzaro, fa fortemente temere che tale sguaiatezza chiassosa, sia il segno di una grave per non dire imperdonabile irresponsabilità nei confronti dei propri doveri e una specie di fuga dalle proprie responsabilità. Il riso, in questo caso, non è più frutto di vera gioia ed equilibrio interiore, ma di stolta incoscienza e viltà davanti ai doveri che incombono.
E’ vero, come dice l’altro proverbio, che “il riso fa buon sangue”, ma a patto che esso nasca da un cuore puro, amante del bene, di Dio e del prossimo, a patto che sia un riso non semplicemente istintivo e frutto di una carattere allegrone, ma severa conquista, in nome della fede, per essersi liberati, in nome della fede, dal peso dei propri peccati e per saper vedere nella croce quotidiana la presenza di un Dio di giustizia e di misericordia.
Non si tratta di ritrovare, come forse alcuni tradizionalisti vorrebbero, quell’eccessiva serietà della spiritualità medioevale o antica, ma, sulla base del tesoro di sapienza che essa ci ha lasciato, di esplicitare quei tesori di sano umorismo e schietta allegria che tale spiritualità implicitamente contiene per la consapevolezza che Cristo è risorto, ci ha liberati dal peccato e ci ha promesso la vita eterna.
Libertà e Persona
Si cerca sistematicamente il ridere, anche in certe comunità religiose laddove si richiederebbe una maggiore serietà. Per cui si finisce per apprezzare soprattutto le persone allegrone e scherzose: Dante Alighieri (forse con un po’ di ironia) avrebbe detto: “I frati gaudenti”. Tali persone sono candidate a ricoprire incarichi in quanto li si vede maestre nel ridere e si pensa che così allegre non esigano dalle comunità troppi sacrifici e rendano la vita gradevole.
Si educano i giovani al ridere, si esige da loro quasi perentoriamente che sappiano ridere, di fare battute o raccontare storielle buffe come se si trattasse di un valore importantissimo, e se non abbondano nel ridere o non sanno far ridere, si dubita circa la validità della loro vocazione cominciando col dire che non sanno stare in compagnia e non amano la “vita comune”. Si guarda con sospetto la serietà o la taciturnità come se fosse una specie di broncio, o segno di incapacità di comunicare, di individualismo o di scarsa vivacità.
Ma da dove è venuto fuori questo prepotente ideale del ridere ad ogni costo? Si tratta infatti di un fenomeno caratteristico dell’età moderna. Negli Antichi, si tratti di cristiani o di pagani, il ridere certo non è ignorato, ma è molto scarso ed è tenuto ai margini della vita personale e sociale, gli si dà poca o pochissima importanza. Provate a leggere la letteratura antica, la Bibbia, gli antichi trattati della perfezione spirituale, l’esempio dei Santi del passato, la vita stessa di Cristo e degli Apostoli.
Difficilmente troverete episodi da far ridere, raramente troverete la presenza dello scherzo, della battuta, della ridicolaggine, delle storielle buffe o delle spiritosaggini. L’umorismo è quasi assente e di barzellette non se ne parla neppure. Alcuni dicono: tutto ciò era sottinteso, ma, data la poco importanza che a ciò si attribuiva, i biografi e gli storici non ne parlano. Ciò può essere anche vero in parte, ma nel contempo conferma per lo meno il fatto che al ridere non si dava importanza.
Certo un conto è il riso pagano e un conto è il riso cristiano. Il primo nasce da una reazione disperata alla disperazione, dall’attaccamento ai piaceri carnali, al divertimento per le disgrazie altrui. Il ridere cristiano invece è legato alla pace dell’anima, al saper portare la croce, alla buona coscienza, al rallegrarsi per le cose belle e sante, al gusto per l’amicizia, alla gioia di vivere con Cristo e per Cristo. Il cristiano sa ironizzare su ciò su cui si deve ironizzare e sa prendere sul serio le cose serie, secondo quel motto popolare “scherza con i fanti e lascia stare i santi”.
Lo gnostico Spinoza sosteneva con la sua dura seriosità di chi crede di determinare le sorti dell’umanità dall’alto del suo panteismo, che “il saggio non piange e non ride”. Ma viceversa il grande Biagio Pascal, profonda anima di cristiano, gli rispose, pensando evidentemente alla saggezza cristiana, la scientia crucis: “No! Il saggio piange e ride”.
Il ridere pagano, oggi purtroppo ritornato di moda anche in ambienti cristiani e religiosi, non è vero ridere, ma piuttosto un deridere. Il vero ridere, quello sano e costruttivo, è un ridere con qualcuno. Il deridere, che è ridere malsano e peccaminoso, distruttivo del rapporto sociale e dell’amicizia, è un ridere di qualcuno. Tra questi due modi di ridere, già presi in considerazione nella Sacra Scrittura, c’è una grande differenza, che vorrei qui descrivere brevemente affinchè noi pratichiamo il primo tipo del ridere ed evitiamo il secondo.
Innanzitutto chiediamoci: che cosa è il ridere? Che definizione ne diamo? Da cosa nasce il ridere? Il ridere ha un qualche fine?
S.Tommaso d’Aquino, con l’acutezza che sempre lo contraddistingue, osserva come la capacità di ridere suppone la razionalità. Il ridere è un fenomeno che nasce dall’esercizio della ragione. In che senso? Come? Il ridere nasce dall’opportuna e studiata messa a confronto di due cose o due nozioni in opposizione tra di loro secondo uno speciale criterio: è questo congiungimento insolito ed arguto che provoca il ridere. Per questo il far ridere in tal senso, ridere intelligente e sano, non quello sciocco o amaro o sarcastico dei malevoli e degli invidiosi, suppone in chi sa far ridere una notevole dose di saggezza, di finezza, di agilità mentale, di fantasia, di intelligenza e, perché no? di carità. Questo è il buon umore dei santi, particolarmente apprezzato nella agiografia moderna, soprattutto postconciliare.
Si racconta per esempio del grande e dottissimo teologo domenicano francese il Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange, il quale, benchè avesse vissuto per molti decenni in Italia, non si ridusse mai ad imparare bene l’italiano, per cui un giorno, trovandosi alla stazione ferroviaria con dei bagagli da trasportare, volendo chiamare il facchino, disse invece gridando da lontano. “finocchio!”.
Ora indubbiamente Padre Reginaldo sarà stato il primo a ridere di questo piccolo involontario incidente, e per questo qui il ridere è indubbiamente sano ed innocente. Si potrebbe questo chiamare il ridere con l’altro. Invece le cose prendono un’altra piega quando si ride di una buona azione, per quanto essa a tutta prima possa sembrare paradossale o incredibile. Qui allora abbiamo quel ridere dell’altro, che offende l’altro ed è quel peccato di “derisione” del quale parla S.Tommaso nella Somma Teologica, II-II, q.75.
Qui gli esempi biblici abbondano, come quando la gente al sentire Gesù il quale dice che la fanciulla che egli sta per risuscitare non è morta, ma “dorme”, si mette a ridere, ossia, come diremmo oggi, “lo presero in giro” ovvero “si presero gioco di lui” (Mt 9,24). Il verbo greco è: kataghelào, che vuol dire appunto: “derido, rido di, schernisco, mi faccio beffe, beffeggio”. Oppure come quando gente miope o incredula deride gli Apostoli (At 2,13) o S.Paolo (At 17,32).
Il deridere di per sé non è necessariamente peccato se deridiamo chi se lo merita. Per questo la Bibbia dice che persino Dio ride. Egli infatti “ride dell’empio” (Sal 37, 13) o dice a coloro che finiscono tragicamente per averGli disobbedito: “Riderò della vostra sventura” (Pr 1,26). Peccato invece, per la Bibbia, è quando si deride il giusto o il povero o lo sventurato o la persona pia.
Un’ultima considerazione, con la quale riprendo il discorso dell’inizio. Una forte crescita di stima per il ridere è uno dei fenomeni caratteristici della modernità. Come tutti i fenomeni nuovi della storia, osserva giustamente il Maritain, comporta un aspetto positivo e uno negativo.
Di positivo l’aumentata stima per il ridere ha il fatto che essa è connessa con la serenità d’animo, col benessere, col buon carattere, con l’ottimismo, col buon andamento delle cose e soprattutto il sano ridere è legato all’abbandono nelle mani della Provvidenza, alla bontà d’animo ed all’amore per il prossimo, tutte virtù e condizioni che sono particolarmente presenti nella vita del cristiano, il quale giudica buone condizioni di vita anche quelle che gli portano sofferenza, per cui anche in queste, serenamente unito a Cristo, trova la forza di ridere e di scherzare.
Viceversa, col sorgere del Rinascimento, del luteranesimo e poi dell’illuminismo, comincia a farsi strada l’antico modo pagano del ridere, legato alla gioia sensuale, al successo mondano, al potere, al diffondersi dell’empietà. La gioia luterana sembra fondata sulla fiducia nella Provvidenza, ma in realtà appare molto più come un atteggiamento forzato, che cerca nel piacere sensuale di coprire l’intima angoscia di problemi interiori irrisolti e dei sensi di colpa non eliminati.
La gioia e l’esultanza dell’illuminismo nascono dall’illusione razionalistica dell’uomo che comincia credere di poter fare a meno di Dio ed irride i dogmi e le pratiche religiose: questo ridere certamente non è sano, ma corrosivo e distruttore del rapporto con Dio e della serena vita sociale.
Il Concilio di Trento, senza dimenticare la tristezza di questa valle di lacrime e la consapevolezza dei nostri peccati, si fa promotore di autentica serenità interiore ed anche psicologica, fondandosi sulla speranza della salvezza e sull’esperienza dell’unione con Cristo, Redentore Misericordioso. Già la spiritualità medioevale aveva posto le premesse per questo stato d’animo che porta al ridere sano ed all’esultanza autentica. Ma il medioevo presenta ancora lo stile di una certa riservatezza e sobrietà.
Sarà con la riforma tridentina che si troverà un nuovo equilibrio tale da generare da una parte un sano buon umore nel cristiano che gode del proprio vivere cristiano: esempio per tutti un S.Filippo Neri col suo “scrupoli e malinconia fuori di casa mia”.
Il Concilio Vaticano II prosegue su questa via della promozione di un’umanità serena e gioiosa in forza dell’unione con Cristo ed accentua questo buon umore cristiano facendo leva sul fatto che il viere cristiano è fin da adesso un inizio della risurrezione, è una vita “escatologica”. La stessa liturgia, come sappiamo, insiste sull’aspetto della festa e dell’esultanza, persino nei riti funebri.
Il rischio dell’oggi, come accennavo all’inizio, è quello di una stolta esagerazione nel ridere e nel far festa, soprattutto in quegli ambienti che maggiormente, per la loro stessa vocazione, dovrebbero dare esempio di serena compostezza, senso di responsabilità, spirito di penitenza, compassione per i poveri e i sofferenti, preoccupazione per i grandi problemi della Chiesa e della società.
Viceversa l’eccesso del ridere, oggi purtroppo frequente, fa subito pensare all’antico saggio proverbio risus abundat in ore stultorum, fa pensare più alla figura del ricco epulone che del povero Lazzaro, fa fortemente temere che tale sguaiatezza chiassosa, sia il segno di una grave per non dire imperdonabile irresponsabilità nei confronti dei propri doveri e una specie di fuga dalle proprie responsabilità. Il riso, in questo caso, non è più frutto di vera gioia ed equilibrio interiore, ma di stolta incoscienza e viltà davanti ai doveri che incombono.
E’ vero, come dice l’altro proverbio, che “il riso fa buon sangue”, ma a patto che esso nasca da un cuore puro, amante del bene, di Dio e del prossimo, a patto che sia un riso non semplicemente istintivo e frutto di una carattere allegrone, ma severa conquista, in nome della fede, per essersi liberati, in nome della fede, dal peso dei propri peccati e per saper vedere nella croce quotidiana la presenza di un Dio di giustizia e di misericordia.
Non si tratta di ritrovare, come forse alcuni tradizionalisti vorrebbero, quell’eccessiva serietà della spiritualità medioevale o antica, ma, sulla base del tesoro di sapienza che essa ci ha lasciato, di esplicitare quei tesori di sano umorismo e schietta allegria che tale spiritualità implicitamente contiene per la consapevolezza che Cristo è risorto, ci ha liberati dal peccato e ci ha promesso la vita eterna.
Libertà e Persona
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