giovedì 31 maggio 2012

Termine del mese mariano



Il giorno di questa festa magnifica della “Visitazione di Maria” che coincide con la fine del mese mariano, vi proponiamo delle “perle mariane”.









L’offertorio di Maria

Dopo la visita dell’Angelo, Maria si recò da sua cugina Elisabetta, anche lei in attesa di un bambino. Il nascituro, Giovanni Battista, trasalì nel seno di Elisabetta. Che meraviglia ! Dio Onnipotente ha scelto un nascituro per annunciare la venuta di suo Figlio !
Maria, con i misteri dell’Annunciazione e della Visitazione, rappresenta lo stesso modello di vita che dovremmo seguire. All’inizio accoglie Gesù nella sua esistenza ; in seguito, ciò che aveva ricevuto lo ha condiviso.
Tale è stata dunque la prima Eucaristia: l’offerta di Maria di suo Figlio in lei, lei in cui si era stabilito il primo altare. Maria, la sola che poteva affermare in assoluta fiducia : « questo è il mio corpo », a partire da questo momento ha offerto il suo proprio corpo, la sua forza, tutto il suo essere, alla formazione del Corpo di Cristo.
Santa Teresa di Calcutta



Due persone, che vivono così intimamente in unione, hanno insieme una sola e medesima vita.
Gesù Cristo possiede due nature, la divina e l’umana, unite da una sola persona divina (è la stessa espressione del dogma). L’Immacolata è così unita allo Spirito Santo che non ci è possibile comprendere tale unione. Ciononostante, si può affermare, malgrado tutto, che lo Spirito Santo e l’Immacolata sono due persone che vivono così intimamente in unione, hanno insieme una sola e medesima vita.
San Massimiliano Kolbe



Maria e i doni dello Spirito Santo: il dono della saggezza

Il più perfetto dei doni dello Spirito Santo è il dono della saggezza, che perfeziona la virtù di carità e risiede, allo stesso tempo, nell’intelligenza e nella volontà, perché diffonda nell’anima la luce ed il calore, verità e amore. Riassume tutti gli altri doni, come la carità riassume in se tutte le altre virtù.
Come Maria ha ricevuto in larga parte le virtù della carità divina, Maria possiede più di qualsiasi altra creatura, con una incomparabile perfezione, il dono della saggezza. Con questo dono, seppe discernere, quasi per istinto, le cose divine dalle cose umane. Questa saggezza celeste colmò la sua anima di una dolcezza infinita, poiché « non vi è nulla di amaro parlando con saggezza e coabitarvi, non produce noia, ma consolazione e felicità ».

Maria e i doni dello Spirito Santo: il dono della scienza

L’oggetto del dono di scienza, sono le cose create che ci conducono a Dio, da cui provengono e per il quale sono conservate. Sono come un cammino per arrivare a Lui.
Alla madre del suo divino Figlio, Dio non solo ha concesso una vasta conoscenza delle cose naturali e sovrannaturale, ma ha infuso l’istinto divino che la rende capace di giudicare con sicurezza il valore delle cose divine e come tutta la conoscenza umana indica la fonte di tutta la verità, che è Dio. Ne sono prova le profonde parole che Maria pronunciò quando Elisabetta la salutò come Madre del Verbo.

Maria e i doni dello Spirito Santo: il dono del timore

Il dono del timore perfeziona allo stesso tempo la virtù della speranza e quella della temperanza : la virtù della speranza, facendoci temere di dispiacere a Dio e d’essere da Lui separati ; la virtù della temperanza, distaccandoci dai falsi piaceri che ci potrebbero far perdere Dio. È quindi un dono che spinge la volontà al rispetto filiale di Dio, ci allontana dal peccato perché gli dispiace, e ci fa sperare nel suo aiuto.
Il timore di Maria fu grande, ma non servile. Piena di grazia e tutta pura, tutta santa, Lei non poteva temere una punizione, come non poteva temere di perdere Dio con il peccato. Il timore di Maria è un timore reverenziale, provenendo da un sentimento molto vivo della maestà infinita di Dio e della sua infinita potenza.
Gabriele M. Roschini, OSM



Il latino del Concilio Vaticano II






di Filippo Rizzi

Cultore del latino ecclesiastico come di quello classico, soprattutto autorevole studioso di Sant’Ambrogio, nel lontano 1962 il cardinale Giovanni Coppa, divenuto anni dopo nunzio nella Repubblica Ceca, visse da testimone privilegiato l’inizio del Vaticano II portando la sua competenza di latinista: «La mia esperienza in quell’assise fu in verità molto limitata. Ero stato nominato esperto come latinista, ed era per me, allora molto giovane, una cosa esaltante poter entrare nella basilica Vaticana durante lo svolgimento dei lavori. Ancora oggi conservo la mia tessera di nomina a latinista al Concilio».
Una passione per il latino nata alla Cattolica di Milano col professor Riposati e il dottor Dal Santo e poi maturata sotto la direzione del suo «maestro di sempre» monsignor Amleto Tondini: «Fu lui a tenere in me vivo l’amore per questa lingua e grazie a lui collaborai alla prestigiosa rivista Latinitas. E non posso dimenticare un altro latinista di rango della Santa Sede come monsignor Guglielmo Zannoni».
Fu proprio la conoscenza del latino a consentire al giovane don Giovanni Coppa, originario di Alba, la provvidenziale permanenza nella Città eterna: «Fui chiamato in segreteria di Stato da monsignor Angelo Dell’Acqua nel 1958. Nel 1952 ero entrato nella Cancelleria Apostolica, provenendo dalla Cattolica di Milano, dove, senza volerlo, mi ero fatto una fama di "latinista" per aver superato i tremendi esami scritti di latino già nel primo biennio. Monsignor Amleto Tondini, che era reggente della Cancelleria, cercava dei collaboratori per la redazione delle Bolle Pontificie, ed ebbe il mio nome da Agostino Saba, che insegnava nella stessa università. Rimasi in Cancelleria per oltre cinque anni. Una straordinaria fucina di lavoro, dove non c’era tempo di annoiarsi, perché, come dicevo scherzosamente agli amici intimi, ci si doveva occupare de omnibus rebus et de quibusdam aliis. E lì rimasi fino alla partenza per Praga».
La permanenza effettiva del cardinale Coppa alle sessioni conciliari durò lo spazio di un mattino, o poco più, perché «monsignor Dell’Acqua si accorse delle mie assenze dall’ufficio e, giustamente, fece in modo di non lasciarmi mancare il lavoro in Segreteria di Stato…». Ma nonostante questo rimase vigile, come tutta la schiera dei latinisti al Concilio, a cominciare dal segretario di quell’assise Pericle Felici o dal cardinale Antonio Bacci affinché «in quell’aula il latino non subisse stravolgimenti nelle sue traduzioni per i documenti ufficiali».

 Perché la figura del latinista è stata così importante per il Concilio Vaticano II? 

«Prima di tutto perché i documenti ufficiali dovevano essere tradotti in latino. Noi latinisti eravamo necessari perché i testi non erano scritti tutti all’inizio in latino e quindi era necessaria una traduzione corretta e adeguata. E poi non dimentichiamo che in aula era essenziale saper parlare in latino per intervenire. Il nostro ruolo, assieme a quello dei periti, divenne fondamentale per capire in molti casi la dinamica dei lavori. In realtà, durante le quattro sessioni, eccettuato qualche raro caso, tutti i Padri usarono il latino che si confermò come lingua universale della Chiesa».

 Fu una scelta fortemente voluta da Giovanni XXIII. Può spiegare il perché?

«Prima che iniziasse il Concilio una delle questioni dibattute fu se il latino dovesse essere la lingua ufficiale dell’assise o se fosse più utile scegliere una delle lingue moderne di più ampia diffusione. Ad alimentare questo dibattito si aggiunse la decisione di molti Stati di sopprimere o limitare proprio in quegli anni l’insegnamento del latino nelle scuole medie. Tutto questo faceva apparire questa lingua anacronistica e superata. Vi era proprio una "animosità" contro il latino. E a vantaggio del mantenimento del latino come lingua ufficiale della Chiesa giocava il fatto che era studiata in tutti i seminari cattolici del mondo. Inoltre si deve sottolineare la scelta di Papa Roncalli di promulgare pochi mesi prima dell’indizione del Concilio la costituzione apostolica Veterum Sapientia in cui ribadiva l’importanza dello studio e della rinascita del latino nelle università ecclesiastiche. Una scelta per riaffermare che questa lingua rimaneva uno dei fulcri della cattolicità romana e non doveva essere vissuta come una lingua destinata a morire e parlata solo da una piccola élite di cattolici. Fu lo stesso Pontefice in un’allocuzione (alla commissione centrale preparatoria del Concilio nel giugno del 1961) a troncare ogni esitazione annunciando che il latino doveva considerarsi la lingua del Concilio pur ammettendo che, "data occasione e necessità, sarebbe stato consentito di esprimere e di veder raccolto il proprio pensiero nella lingua parlata"».

 Uno dei problemi di voi esperti era quello del latino da utilizzare nei documenti? 

«La posta in gioco era di mantenere lo stesso livello di qualità di traduzione e di stile linguistico del Concilio di Trento e del Vaticano I. Rammento che una delle preoccupazioni di monsignor Tondini era quella della fedeltà di traduzione, "precisione di terminologia" ma anche "attenzione alla forma". Non si esigeva certo un latino drappeggiato sui moduli delle orazioni ciceroniane, sarebbe bastato prendere come esempio i testi dei Padri della Chiesa d’Occidente, primi fra tutti Ambrogio e Agostino. L’obiettivo era servirsi di un latino semplice, sicuro, ecclesiastico che riuscisse però a conservare una certa affinità con lo stile biblico e patristico, ma che non alterasse il genio della lingua. Difendevamo insomma la correttezza di traduzione di una lingua morta, ma ancora piena di vita».

 Nella maggioranza dei testi la lingua di Cicerone diede buona prova di sé… 

«Vi fu molta cura e ricercatezza nelle traduzioni. Penso ad alcuni documenti o dichiarazioni come quello sulla libertà religiosa la Dignitatis Humanae o le costituzioni Dei Verbum, Lumen Gentium o la Sacrosanctum Concilium. In questi casi si legge un latino limpido, intriso di reminiscenze bibliche e patristiche. Insomma si tratta di testi, anche dal punto di vista formale, degni del Concilio. Dovevano avere l’andatura spoglia e lineare di un trattato teologico oltre a un forte approccio spirituale e liturgico, e sostanzialmente il risultato finale è stato buono».

 Ma proprio a conclusione del Concilio, sulle colonne de L’Osservatore Romano, lei fu molto critico verso certe "maldestre" traduzioni… 

«Fu l’allora direttore dell’Osservatore Raimondo Manzini a chiedermi di realizzare un articolo sul latino del Vaticano II. Così, mettendo in luce la ricchezza di molti testi evidenziai i limiti di altri. Un esempio? La Costituzione pastorale Gaudium et spes fu tradotta troppo in fretta e alcuni decreti lasciavano a desiderare riguardo al latino. Gli stessi Padri conciliari se ne lamentarono. Il segretario del Concilio Pericle Felici, da fine latinista qual’era, diede ragione a molte delle mie osservazioni».

 Quali furono gli abusi linguistici più evidenti? 

«Furono tanti soprattutto nei testi dove vi erano parole presenti nelle lingue moderne, ma non in quella latina. Gli esempi? Vennero fuori parole come Civilizatio, dissensiones raciales o industrializatio, opinio publica che non avevano nulla a che vedere con il latino autentico e con la sua costruzione sintattica. Per esempio la parola actuositas fu adoperata infinite volte per indicare l’attività generosa e zelante, quando, a tale scopo, il latino aveva a disposizione un vocabolario più ricco come industria, navitas o alacritas. Altro aspetto che notai, evidenziato anche da altri latinisti, fu l’eccesso di forme aggettivali quando invece il latino adopera più frequentemente il sostantivo al caso genitivo. Con un po’ di humour si trattò, in quel frangente, di veri neologismi, perché prima d’allora non si erano sentite tante parole nuove, trasportate di peso dalle lingue moderne e latinizzate nella desinenza».

 Come furono accolte le sue osservazioni?

«A quanto ricordo, ebbi telefonate di approvazione. Certo ci fu qualche critica, specie a Roma. Il segretario del Concilio Pericle Felici mi confidò che c’era stata qualche esitazione a far pubblicare quell’articolo sull’Osservatore, ma poi decise: "Se viene dalla Segreteria di Stato allora lo pubblichiamo…". La mia non era una critica ai contenuti ma solo allo stile. Pensi che la Gaudium et spes è stata ed è per i suoi contenuti una delle stelle polari della mia vita di sacerdote. Nei miei rilievi facevo presente che grandi documenti del Novecento dalla Rerum Novarum di Leone XIII all’Ecclesiam suam di Paolo VI (1964) sono lì a dimostrare la bellezza dell’uso moderno del latino senza scadere in discutibili contaminazioni».

 Eminenza, come visse il passaggio dal latino all’uso dell’italiano nella Messa? 

«Il passaggio dal latino alle lingue volgari rappresentò per me, come credo per quelli della mia generazione una benedizione perché capivamo forse più di altri l’anacronismo del latino nella Messa che non veniva capita dal popolo. Parlo solo del latino, non degli abusi che sono sorti in seguito in campo liturgico».


Avvenire   30 maggio 2012



Scola: Famiglia bene comune da promuovere








Un anticipo dell'intervista al cardinale di Milano Angelo Scola che uscirà sul numero di Tempi in edicola da giovedì. Famiglia risorsa decisiva.

di Luigi Amicone

Questo il titolo dell’ultimo libro del cardinale arcivescovo di Milano Angelo Scola. Volume uscito alla vigilia di queste giornate internazionali della famiglia e presentato dallo stesso Scola al recente Salone del libro di Torino. Nulla di più naïf, si direbbe. Anche solo scorrendone l’indice (“Maschio e femmina li creò”, “Per sempre o finché dura?”, “Pudore e castità: ‘oggetti’ smarriti?” eccetera), si capisce che l’assertività pro famiglia è tra le maggiori “questioni disputate” del nostro tempo. E non tanto in linea di principio. Quanto piuttosto nel prosaico quotidiano. I giovani tendono alle convivenze. I legami affettivi durano una stagione e, diciamo così, gli affetti adolescenziali, insistono ormai anche nell’età adulta. I divorzi sono in crescita esponenziale, in Italia e ovunque in Occidente. Mentre i matrimoni religiosi sono in drastico calo (nella ex cattolicissima Spagna le unioni civili hanno superato le nozze in chiesa) e sembrano appannaggio di società arcaiche. Non ultimo, si va affermando la cultura e l’istruzione di massa al cosiddetto “gender”. Ovvero il paradigma secondo cui non esisterebbero identità e differenze biologiche ma solo culturali. Ragion per cui, si apprestano a registrare anche le polizze delle grandi assicurazioni internazionali, non si deve più indicare la distinzione tra “maschio” e “femmina”, ma il “genere” a cui liberamente l’individuo decide di appartenere. I sociologi (forse anche per mascherare la loro adesione a quella specie di “summa teologica” del relativismo che è l’agenda gaylesbotransgender) chiamano tutto ciò “società liquida”.

Eminenza, quando la Chiesa pone un fatto così socialmente rilevante e spettacolare come le giornate dedicate alla famiglia, un evento internazionale anche confortante per tanti uomini e donne che si riconoscono nel senso umano e cristiano della vita, in che senso essa non testimonia un attaccamento, commovente certo, ma destinato a essere travolto dallo Zeitgeist, l’inesorabile spirito del tempo? In altre parole: in che senso queste giornate non rappresentano un disperato sforzo etico che la Chiesa fa per resistere a un processo di omologazione che invece sembra irresistibile, e irresistibile proprio perché insito nei processi sociali, culturali ed economici di produzione di “nuova umanità”? Non ha forse ragione il ministro Elsa Fornero quando dice che «la famiglia tradizionale rischia di diventare un’eccezione, non una regola» e dunque lo Stato deve attrezzarsi a legiferare intorno alle diverse forme di famiglie e unioni?

Al di là delle diversità con cui si manifesta nelle varie culture e società, la famiglia fondata sul matrimonio, fedele ed aperto alla vita, tra un uomo ed una donna, continua ad imporsi come la via maestra per la generazione e l’educazione della persona. Un conto è costatare determinati trend sociali, un altro è affermare come cosa buona la crescita di certi fenomeni. La parola “crisi” significa giudizio ed evoca crinale, trasformazione, cambiamento. Ebbene: nessuno può negare che la famiglia, sociologicamente parlando, si presenti oggi assai diversa da quella che abbiamo conosciuto in un recente passato. Un solo dato, tra i tanti: il livello di istruzione delle donne tra i 20 e i 30 anni è già mediamente superiore a quello degli uomini. Il che, ovviamente, pone domande nuove sull’equilibrio lavoro-casa, sulla distribuzione dei compiti familiari, sui compiti educativi…
Dunque, le forme di vita della famiglia cambiano. Ma la voglia di famiglia non è sparita. La quarta indagine European Values Study sui valori in cui credono gli europei evidenzia che la famiglia è ritenuta importantissima dall’84 per cento degli europei e addirittura dal 91 per cento degli italiani. In ben 46 paesi su 47 viene messa al primo posto, precedendo aspetti centrali del vivere sociale. Aggiungo che anch’io, nella mia esperienza di pastore, riscontro continuamente un diffuso desiderio di “famiglia”, anche se non privo di contraddizioni…
Quel che mi preme dire, rispondendo alla sua domanda, è che se è vero che le “forme esterne”, le condizioni sociali della famiglia possono mutare, quel che permane è il proprium della famiglia. Esso consiste nel matrimonio di un uomo e di una donna inteso come unione stabile, che si promette il “per sempre”. Questa unione è aperta alla vita: i figli rappresentano precisamente la seconda differenza costitutiva dell’umano che la famiglia custodisce – la prima è la differenza sessuale –, ovvero quella fra le generazioni, tra chi genera (padre e madre) e chi è generato (figli). Riaffermare oggi queste verità elementari – in un clima di riflessione, testimonianza e festa, come avverrà nei giorni del VII Incontro mondiale – non significa affatto, per citare le sue parole, compiere «un disperato sforzo etico», bensì offrire una rinnovata prospettiva positiva e pro-positiva di vita buona all’intera società.
La famiglia, come tale, è “patrimonio dell’umanità” e dunque un bene da custodire e promuovere. Del resto, proprio per i caratteri che la differenziano da altre forme di convivenza (trattandosi di un legame tra un uomo e una donna, pubblico, stabile, fedele e aperto alla vita, custodito dall’indissolubilità), il matrimonio garantisce un salto di qualità all’amore tra l’uomo e la donna e questo ha, evidentemente, una ricaduta sociale positiva. Recenti studi hanno appurato, attraverso una rigorosa analisi empirica, che la famiglia “normocostituita”, marito, moglie e due figli, è la più felice. Per queste ragioni parlo serenamente di famiglia come “risorsa decisiva”.

Qualche anno fa, uno dei più brillanti editorialisti del Daily Telegraph, James Bartholomew, in un saggio (The welfare state we’re in) che è stato accolto da Milton Friedman come «una devastante critica allo Stato assistenziale», ha sostenuto che uno dei motivi non secondari della disgregazione della famiglia sono proprio le politiche di welfare. E questo perché tali politiche di “non discriminazione” tendono a sostenere, appunto, “indiscriminatamente”, qualsiasi tipo di unione. Perciò, nei fatti, rendono non conveniente (quando non addirittura controproducente, ad esempio sul piano fiscale) il matrimonio che impegna le persone alla durata, stabilità e responsabilità anche in relazione al buon ordine e alla vita di una società, all’educazione dei figli, al cespite fiscale eccetera. Eminenza, non sarà che il liberismo è più amico della famiglia del solidarismo?

Gli “-ismi”, per definizione, non rappresentano dei valori, ma – al più – delle loro caricature. In un contesto di travaglio sociale e di crisi economica non passeggera, che impone necessariamente la decisa rilettura delle forme attuali di welfare, la soluzione dei problemi non sta nell’abbracciare ideologicamente un modello piuttosto di un altro. Sta invece nell’attuare adeguatamente due criteri decisivi: la sussidiarietà e la solidarietà. Detto in altro modo: se la famiglia viene riconosciuta davvero per quello che la Costituzione prevede, ossia un elemento insostituibile della “cosa pubblica”, è chiaro che temi quali il “quoziente familiare” o proposte simili non verranno più interpretati come richieste di parte, quanto piuttosto come una modalità innovativa di impostare il rapporto tra cittadino, corpi intermedi e istituzioni. Mettere al centro dell’azione politica e dell’economia la famiglia non significa puntare su uno schema ideologico bensì mutare il paradigma, spostare il baricentro, in un’ottica di bene comune. E farlo attraverso un welfare di comunità che veda uniti gli sforzi dello Stato e del cosiddetto “privato sociale”.

Con il suo pronunciamento a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, il presidente americano Barack Obama ha segnato un bel punto a favore della ulteriore legittimazione sul piano antropologico, politico e culturale, di quella agenda Lgbt che, sospinta verso il basso dalle élite, tende ad essere acquisita nel patrimonio di valori della cultura di massa occidentale. Pare evidente che se Obama verrà confermato presidente degli Stati Uniti, ne usciranno rafforzati gli organismi internazionali che già oggi spingono per l’acquisizione a livello di Carta Onu di quelli che l’agenda Lgbt proclama essere “diritti umani”. La Chiesa si troverà nella situazione in cui non si sono trovati neppure i primi cristiani sotto l’impero romano: cioè davanti a leggi internazionali non soltanto indifferenti alla visione che della vita e dell’uomo sono emersi e sono stati codificati da duemila anni di cristianesimo, ma “al di là del bene e del male”, al di là di Socrate e di ogni evidenza naturale. Come valuta questa prospettiva?

Il processo di legittimazione culturale dell’«agenda Lgbt» non è nuovo e si alimenta, in primis, di un’antropologia che annulla di fatto quella differenza sessuale di cui si parlava poc’anzi, fattore insuperabilmente costitutivo di ogni persona umana in quanto tale. La differenza sessuale, infatti, è la dimensione interna all’io che ne esprime l’apertura. La differenza sessuale è intrapersonale, per questo non può mai essere superata. Lo dicono, tra l’altro, accurati studi di psicologia del profondo. Non ha nulla a che fare con la diversità che è interpersonale. Passo dopo passo, questo processo sta ricevendo dalla politica riconoscimenti indebiti. Quanto alla politica di Obama e alle sue scelte recenti, consiglio di considerare attentamente le prese di distanza dei vescovi americani.
Ma torniamo al dato culturale. Cito, ancora una volta, un antropologo, Claude Lévy-Strauss, non certo sospettabile di simpatie cattoliche, il quale affermava: «Un’unione socialmente approvata tra un uomo e una donna e i loro figli è un fenomeno universale presente in ogni e qualunque tipo di società». Ebbene, è a questo “universale” che si addice propriamente il nome di famiglia. Le “cose” e le parole nascono insieme. Altre forme di convivenza potranno ricevere altri nomi, ma non si possono chiamare famiglia e, quindi, non possono esigere un primato solo ad essa dovuto.
È evidente che siamo qui in presenza di un circolo vizioso: da un lato si fanno strada una cultura e un’antropologia “altre” che chiedono alla politica una legittimazione; la politica, per ragioni ideologiche e di consenso, interviene spesso, in materie sensibili come questa, avvalorando abusivamente determinate richieste. La somma di queste due spinte produce un cambiamento radicale nell’ethos collettivo e questo non può non interpellarci, come cittadini e come cristiani. Come cristiani, siamo chiamati ad un impegno affascinante: testimoniare la bellezza della fede, che esalta in pieno la nostra umanità, non escludendo nulla di ciò che ci sta a cuore, a partire dall’io e dalle sue relazioni fondamentali. Tra queste il biblico “bell’amore” è determinante ed avvincente.



 Family 2012. Intervista a Scola | Tempi.it


mercoledì 30 maggio 2012

La parola del Papa su "Vatileaks"


Discorso di Benedetto XVI a conclusione dell'Udienza generale di mercoledì 30 maggio 2012








Gli avvenimenti successi in questi giorni, circa la Curia e i miei collaboratori, hanno recato tristezza nel mio cuore, ma non si è mai offuscata la ferma certezza che, nonostante la debolezza dell’uomo, le difficoltà e le prove, la Chiesa è guidata dallo Spirito Santo e il Signore mai le farà mancare il suo aiuto per sostenerla nel suo cammino.

Si sono moltiplicate, tuttavia, illazioni, amplificate da alcuni mezzi di comunicazione, del tutto gratuite e che sono andate ben oltre i fatti, offrendo un’immagine della Santa Sede che non risponde alla realtà. Desidero, per questo, rinnovare la mia fiducia e il mio incoraggiamento ai miei più stretti collaboratori e a tutti coloro che, quotidianamente, con fedeltà, spirito di sacrificio e nel silenzio, mi aiutano nell’adempimento del mio Ministero.








 © Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana




Don Ivan, il parroco morto per aver tentato di portare in salvo la statua della Madonna




Il sacerdote stava perlustrando la sua chiesa lesionata, ma si è attardato per recuperare l’opera d’arte sacra.




 MILANO – È morto per seguire quello che gli diceva il suo cuore e la sua fede. Don Ivan Martini è deceduto nel crollo della chiesa della Stazione di Novi, a Rovereto, nel Modenese, dove era parroco, perchè avrebbe tentato di mettere in salvo una piccola statua della Madonna durante il sisma che ha distrutto la sua chiesa. 

 LA MORTE - Don Martini era in sopralluogo con i vigili del fuoco ma si sarebbe attardato a prendere la statuetta. Poi una scossa di assestamento. E Don Ivan è rimasto schiacciato da una grossa trave caduta durante il successivo crollo. Mentre il paese di Rovereto verifica i crolli e presta soccorso ad alcune persone, soprattutto anziane, che non sono riuscite ad uscire di casa, si piange quindi per Don Ivan, al momento unica vittima accertata in questo paesino che, se non aveva subito pesantissimi danni nel sisma del 20 maggio, è stato uno dei più colpiti da queste nuove scosse. 

 LA PARROCCHIA - Don Ivan è morto proprio come i due frati di Assisi (padre Angelo Api e il seminarista polacco Borowec Zdzislaw), deceduti il 26 settembre 1997 insieme a due funzionari della soprintendenza delle belle arti (Claudio Bugiantella e Bruno Brunacci) sepolti dagli affreschi di una delle chiese più belle del mondo crollati durante un sopralluogo all’altare maggiore. Don Ivan voleva bene alla sua chiesa e a ciò che c’era dentro. La parrocchia di Santa Caterina era stata danneggiata e resa inagibile dal precedente sisma, ma si doveva fare un sopralluogo per salvare un po’ di arredi che c’erano dentro. Così stamattina, accompagnato da due vigili del fuoco, è entrato nella chiesa per cercare di salvare alcune statue fra cui, in particolare, come detto, una statua della Madonna alla quale molti dei suoi parrocchiani erano particolarmente devoti. 


 Fonte: Corrispondenza Romana del 30 maggio 2012 
Pubblicato su Corriere della Sera del 29-05-2012


Le carte rubate del Papa





 colloquio con il sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Angelo Becciu





Amarezza e dispiacere per quanto è accaduto negli ultimi giorni in Vaticano, ma anche determinazione e fiducia nell’affrontare una situazione francamente difficile. Sono questi i sentimenti che si avvertono nel sostituto della Segreteria di Stato — l’arcivescovo Angelo Becciu, che per il suo ufficio ogni giorno lavora a stretto contatto con il Pontefice — durante un colloquio con «L’Osservatore Romano» sul tema che attira l’attenzione di moltissimi media in tutto il mondo, e cioè l’arresto, il 23 maggio scorso, di Paolo Gabriele, aiutante di camera di Benedetto XVI, per il possesso di un gran numero di documenti riservati appartenenti al Papa. Cosa dire dello stato d’animo di chi lavora nella Santa Sede? «Con le persone incontrate in queste ore — risponde il sostituto — ci siamo guardati negli occhi e certo vi ho letto sconcerto e preoccupazione, ma ho visto anche decisione nel continuare il servizio silenzioso e fedele verso il Papa». Un atteggiamento che si respira ogni giorno nella vita degli uffici della Santa Sede e del piccolo mondo vaticano, ma che ovviamente non fa notizia nel diluvio mediatico scatenatosi a seguito dei gravi e per molti versi sconcertanti fatti di questi giorni. In questo contesto, monsignor Becciu misura con attenzione le parole per sottolineare «l’esito positivo» dell’indagine, anche se si tratta di un esito amaro. Le reazioni in tutto il mondo, poi, per un verso giustificate, dall’altro «preoccupano e rattristano per le modalità dell’informazione, che scatenano fantasie senza alcuna rispondenza nella realtà».


Si poteva reagire con più rapidità e completezza?
Vi è stato, vi è e vi sarà un rispetto rigoroso delle persone e delle procedure previste dalle leggi vaticane. Non appena accertato il fatto, il 25 maggio la Sala Stampa della Santa Sede ha diffuso la notizia, anche se è stato uno choc per tutti e questo ha creato un po’ di smarrimento. Del resto l’indagine è ancora in corso.

Come ha trovato Benedetto XVI?
Addolorato. Perché, stando a quanto sinora si è potuto appurare, qualcuno a lui vicino sembra responsabile di comportamenti ingiustificabili sotto ogni profilo. Certo, prevale nel Papa la pietà per la persona coinvolta. Ma resta il fatto che l’atto da lui subito è brutale: Benedetto XVI ha visto pubblicate carte rubate dalla sua casa, carte che non sono semplice corrispondenza privata, bensì informazioni, riflessioni, manifestazioni di coscienza, anche sfoghi che ha ricevuto unicamente in ragione del proprio ministero. Per questo il Pontefice è particolarmente addolorato, anche per la violenza subita dagli autori delle lettere o degli scritti a lui indirizzati.

Può formulare un giudizio su quanto avvenuto?
Considero la pubblicazione delle lettere trafugate un atto immorale di inaudita gravità. Soprattutto, ripeto, perché non si tratta unicamente di una violazione, già in sé gravissima, della riservatezza alla quale chiunque avrebbe diritto, quanto di un vile oltraggio al rapporto di fiducia tra Benedetto XVI e chi si rivolge a lui, fosse anche per esprimere in coscienza delle proteste. Ragioniamo: non sono state semplicemente rubate delle carte al Papa, si è violentata la coscienza di chi a lui si rivolge come al vicario di Cristo, e si è attentato al ministero del successore dell’apostolo Pietro. In parecchi documenti pubblicati, ci si trova in un contesto che si presume di totale fiducia. Quando un cattolico parla al Romano Pontefice, è in dovere di aprirsi come se fosse davanti a Dio, anche perché si sente garantito dalla assoluta riservatezza.

Si è voluta giustificare la pubblicazione dei documenti in base a criteri di pulizia, trasparenza, riforma della Chiesa.
I sofismi non portano molto lontano. I miei genitori mi hanno insegnato non solo a non rubare, ma a non accettare mai cose rubate da altri. Mi sembrano principi semplici, forse per qualcuno troppo semplici, ma certo è che quando qualcuno li perde di vista, facilmente smarrisce se stesso e porta anche altri alla rovina. Non vi può essere rinnovamento che calpesti la legge morale, magari in base al principio che il fine giustifica i mezzi, un principio che tra l’altro non è cristiano.

E cosa rispondere a chi rivendica il diritto di cronaca?
Penso che in questi giorni, da parte dei giornalisti, insieme al dovere di dare conto di quanto sta avvenendo, ci dovrebbe essere anche un sussulto etico, cioè il coraggio di una presa di distanza netta dall’iniziativa di un loro collega che non esito a definire criminosa. Un po’ di onestà intellettuale e di rispetto della più elementare etica professionale non farebbe certo male al mondo dell’informazione.

Secondo diversi commenti le carte pubblicate rivelerebbero un mondo torbido all’interno della Chiesa, in particolare della Santa Sede.
Dietro ad alcuni articoli mi pare di trovare un’ipocrisia di fondo. Da una parte si accusa il carattere assolutista e monarchico del governo centrale della Chiesa, dall’altra ci si scandalizza perché alcuni scrivendo al Papa esprimono idee o anche lamentele sull’organizzazione del governo stesso. Molti documenti pubblicati non rivelano lotte o vendette, ma quella libertà di pensiero che invece si rimprovera alla Chiesa di non permettere. Insomma, non siamo mummie, e i diversi punti di vista, persino le valutazioni contrastanti sono piuttosto normali. Se qualcuno si sente incompreso ha tutto il diritto di rivolgersi al Pontefice. Dov’è lo scandalo? Obbedienza non significa rinunciare ad avere un proprio giudizio, ma manifestare con sincerità e sino in fondo il proprio parere, per poi adeguarsi alla decisione del superiore. E non per calcolo, ma per adesione alla Chiesa voluta da Cristo. Sono elementi basilari della visione cattolica.

Lotte, veleni, sospetti: è davvero così il Vaticano?
Io quest’ambiente non lo percepisco e spiace che del Vaticano si abbia un’immagine tanto deformata. Ma questo ci deve far riflettere, e stimolare tutti noi a impegnarci a fondo per far trasparire una vita più improntata al Vangelo.

Cosa dire insomma ai cattolici e a quanti guardano comunque con interesse alla Chiesa?
Ho parlato del dolore di Benedetto XVI, ma devo dire che nel Papa non viene meno la serenità che lo porta a governare la Chiesa con determinazione e chiaroveggenza. Si sta per aprire a Milano l’incontro mondiale delle famiglie. Saranno giornate di festa dove si respirerà la gioia di essere Chiesa. Facciamo nostra la parabola evangelica che Papa Benedetto ci ha ricordato pochi giorni fa: il vento si abbatte sulla casa, ma questa non crollerà. Il Signore la sostiene e non vi saranno tempeste che potranno abbatterla.
g.m.v.


L'Osservatore Romano    30 maggio 2012

martedì 29 maggio 2012

Il battesimo, mistero di luce



Il fondatore dei Francescani dell'Immacolata commenta il primo mistero luminoso






di padre Stefano M. Manelli F.I.


 In questo “mistero della luce” possiamo contemplare le due grandi verità della vita cristiana che stanno all’origine di ogni uomo e che accompagnano l’intera vita dell’uomo redento su questa terra.
La prima verità è quella del Battesimo, che è il primo sacramento di vita da cui ogni altro sacramento dipende e acquista valore salvifico per la rigenerazione di tutti gli uomini, figli di Adamo peccatore.
Il Battesimo, infatti, è la «luce della vita» (Gv 8,12) di ogni uomo redento; è la nascita del cristiano che da semplice uomo diventa figlio di Dio, diventa fratello di Gesù Cristo, il «Primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).

Senza il Battesimo, come si sa, gli uomini rimangono nello stato di peccato per la colpa dei progenitori, ossia nello stato di «figli dell’ira» (Ef 2,3), perché il peccato mette contro Dio e allontana da Dio.
Con il Battesimo, invece, l’uomo riacquista l’innocenza dell’anima liberata dal peccato dei progenitori, animata e rivestita della grazia divina del Redentore.
Con il Battesimo l’anima viene investita dalla grazia di Dio, viene innestata nella vita divina, che è Gesù, viene incorporata nel Corpo mistico di Cristo, rigenerata come «nuova creatura» (2 Cor 5,17) configurata a Cristo, rifatta realmente a sua «immagine e somiglianza» (cf. Gn 1,27).

Nella vita di san Francesco di Sales si legge che quando era ancora fanciullo, il Santo interrompeva talvolta il gioco per guidare i suoi compagni in chiesa, radunandoli attorno al Fonte battesimale, e qui diceva: «Ecco il luogo che deve esserci più caro di ogni altro, perché qui siamo diventati tutti “figli di Dio”. Cantiamo tutti insieme il Gloria al Padre». Subito dopo, ognuno si avvicinava al sacro Fonte e lo baciava con grande devozione.

In Gesù che riceve il Battesimo nel fiume Giordano possiamo dunque vedere ogni battezzato, ogni uomo che riceve il sacramento del Battesimo per rinascere “figlio di Dio”, ossia figlio nel “Figlio Gesù” nel quale Dio Padre si compiace, secondo le parole udite dai presenti al Battesimo di penitenza di Gesù nel Giordano: «Questo è il mio figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17).

Recitando le Ave Maria, poi, mentre contempliamo questo mistero della luce, ci rivolgiamo direttamente alla Madonna, presente anch’Ella in questo evento come «Madre dei viventi» (Gn 3,20), come “Nuova Eva”, progenitrice e Madre del Corpo Mistico di Cristo.
Alcuni Santi Padri, infatti, molto suggestivamente e concretamente, hanno rappresentato Maria Santissima come il fonte battesimale dove si rigenera la vita di tutti i figli di Adamo peccatore. È nel Grembo vergine di Maria, di fatto, che il Capo e il Corpo di Cristo sono stati concepiti, per opera dello Spirito Santo, nell’innocenza e nella santità. È nel Grembo vergine di Maria che si è attuata l’Incarnazione redentrice del Verbo per la nostra salvezza.

La seconda verità, inoltre, che questo “mistero della luce” ci insegna, è la verità della necessità della penitenza. Il Battesimo di Gesù nel Giordano, infatti, non poteva essere il Battesimo-sacramento, sia perché Gesù era la stessa innocenza e santità divina, sia perché il Battesimo di Giovanni preannunziava soltanto e preparava al Battesimo-sacramento, come egli stesso proclamava: «Io vi battezzo con acqua per la conver sione, ma colui che viene dopo di me […] egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,11).
Il Battesimo di penitenza è racchiuso in quelle parole di Gesù che sono luce e guida del cristiano impegnato a vivere il Vangelo senza compromessi: «Chi mi vuol seguire, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce, e mi segua» (Mt 16,24).

Queste divine parole di Gesù non danno scampo al nostro egoismo, sono scacco matto per il nostro “io” adamitico, per «l’uomo animale che non comprende le cose dello spirito», come insegna san Paolo (1 Cor 2,14), mentre comprende bene il sesso, i soldi, i successi, i divertimenti e tutte le cose terrene e carnali, tutte le cupidigie che vengono dal mondo, secondo le parole lucide e taglienti di san Giovanni evangelista: «Tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita» (1 Gv 2,16).

Anni fa, in una rivista, compariva questo curioso ma significativo trafiletto: «La signorina X ha trascorso due ore presso il parrucchiere per farsi una “permanente”… Il banchiere di fronte ha vegliato tutta la notte per combinare un buon affare… L’artista del primo piano è stato per varie ore di fronte al suo cavalletto, in pieno rigore invernale, per dipingere un paesaggio nell’aperta campagna, coperta di neve…
Il mio amico Y, sportivo accanito, non fuma da quindici giorni, per affrontare in piena forma la prossima grande competizione… E tutti trovano ben naturali questi sacrifici; ma quando la santa Chiesa chiede, in tempo di Quaresima, qualche piccola restrizione, gli stessi gridano alla sua incomprensione, alla sua eccessiva esigenza».

La vita della Madonna, a cui ci rivolgiamo nel Rosario con le Ave Maria, non è forse stata la più penitente, la più “cristificata”, specchio tersissimo dell’umiltà e della purezza, dell’obbedienza e della povertà, della mitezza e della pazienza, al vertice di ogni possibile perfezione? E i piccoli pastorelli di Fatima, i beati Francesco e Giacinta, che cosa ci insegnano con le loro penitenze di ogni giorno? Seguendo i loro esempi, con l’aiuto particolare del Santo Rosario, possiamo tutti imparare a vivere una vita di penitenza, secondo il nostro Battesimo che è morte al mondo e alla carne, che è vita in Cristo, con Cristo e per Cristo.


*Per ogni approfondimento: Padre Stefano Maria Manelli, “O Rosario benedetto di Maria!” (Casa Mariana Editrice)




ROMA, martedì, 29 maggio 2012 (ZENIT.org) -

Il libro di Lasota "Karol Wojtyla spiato" è acquistabile su internet



Giovanni Paolo II




di Andrea Tornielli


Il controllo sulle azioni di Karol Wojtyla da parte della polizia segreta comunista fu di proporzioni impressionanti…». Marek Lasota, classe 1960, laurea in filologia polacca e specializzazione in storia, vive tra chilometri di carte accumulate dal regime comunista e conservate nell’Istituto Nazionale della Memoria (IPN) del quale dirige la sezione di Cracovia. Dopo anni di pazienti ricerche ha isolato rapporti e dossier riguardanti Wojtyla. Viene pubblicato in questi giorni in italiano «Karol Wojtyla spiato» (Interscienze, pp. 288, 23.40 euro, non reperibile nelle librerie ma solo online sul sito il libro di Lasota con i documenti segreti del regime sul Pontefice scomparso nel 2005. Lo studioso, nel colloquio con la Stampa, rivela anche i nomi di alcuni preti collaborazionisti che non sono stati inseriti nel libro.


«Durante il comunismo ogni prete era considerato dalle autorità come un nemico del popolo e del partito – spiega Lasota – e messo sotto osservazione dalla polizia politica, la “Bezpieka”. Wojtyla era controllato fin dal 1946. Questa attività di intensifica nel 1958 quando diventa ausiliare di Cracovia. Negli anni Sessanta, come arcivescovo, viene ritenuto un pericoloso oppositore ideologico. Per questo il controllo su tutte le sue azioni assunse proporzioni impressionanti».


Tra i documenti presentati nel libro colpisce quello con le 98 domande a cui dovevano rispondere le spie che controllavano il futuro Papa: un’attenzione maniacale ad ogni dettaglio della sua quotidianità. Dall’ora in cui si alza ogni giorno, alle attività compiute ogni mattina e in quale ordine; dalla frequenza con cui si rasava ai «cosmetici» usati. Vengono richieste informazioni sulle sue abitudini in ufficio, su quali documenti portasse con sé a casa, se avesse con sé le chiavi della scrivanie, di che cosa parlava dopo il pranzo, se gradiva «giocare a bridge o altri giochi di carte, o a scacchi» ed eventualmente con chi, se fumava e se gli piacevano gli alcolici. La polizia segreta voleva sapere persino «chi gli fornisce la biancheria intima» e chi «fa il bucato della sua biancheria, dei calzini, ecc.», se «è in possesso di un armadietto dei medicinali, quali medicinali».

Dalla ricerca dello storico negli archivi della «Bezpieka» emergono le inquietanti proporzioni del fenomeno: «Si stima – afferma – che circa il dieci per cento del clero in Polonia abbia collaborato in qualche modo con i comunisti. Wojtyla era attorniato da alcuni preti che collaboravano con la polizia segreta e comunicavano notizie su di lui». Alcuni di questi preti venivano avvicinati in momenti di debolezza, perché coinvolti in qualche vicenda di alcol, soldi o sesso.

«A controllare Wojtyla – rivela Lasota – erano i sacerdoti Wladyslaw Kulczycki, Mieczyslaw Satora, Boleslaw Sadus, Chris Michalowski, Zygmunt Siudmak, Joseph Szczotkowski. Padre Sadus, morto nel 1990, era parroco di una parrocchia di Cracovia e collaborava con il nome in codice “Brodecki”. Mentre don Szczotkowski, nome in codice “Rosa”, morto nel 2000, era canonico della cattedrale di Cracovia e lavorava nella curia metropolitana. E non solo i preti informavano la polizia segreta: molte delle persone più vicine a lui finirono per collaborare».

Il controllo su Wojtyla continuò anche dopo il 16 ottobre 1978, quando il cardinale di Cracovia a sorpresa venne eletto Papa. «In un rapporto del 30 novembre 1984 si riportano i nomi in codice di undici collaboratori segreti: Sylwester, Turysta, Sowa, Wolski, Pawlik, Lucjan, Janowski, Robert, Gross, Seneka e Filozof». «Tourist – ci spiega Lasota – era il sacerdote Antoni Siuda; Seneka era un impiegato del settimanale cattolico “Tygodnik Powszechny”». Ma ci sono stati anche casi in cui chi collaborava, credeva di incontrare informatori di Paesi occidentali: era la forma di «arruolamento sotto bandiera straniera», che emerge in alcuni rapporti riguardanti il domenicano polacco Konrad Hejmo.


Dalla mole di rapporti e dossier su Wojtyla, la sua figura emerge senza alcuna ombra, anche minima. Non era ricattabile né influenzabile. Il quotidiano check-up della polizia comunista conferma dunque che al conclave dell’ottobre 1978 i cardinali scelsero bene.


Vatican Insider  29 maggio 2012

Un uomo solo è al comando









di fr Filippo Maria


“Un uomo solo è al comando; la sua maglia è biancoceleste; il suo nome è Fausto Coppi!” Così il cronista Mario Ferretti all’apertura della radiocronaca della Cuneo-Pinerolo, terzultima tappa del Giro d’Italia del 1949. Forte emozioni! Un uomo, uno come gli altri, ad un certo punto stacca tutti, ma proprio tutti. È lì davanti, a minuti di distanza dal secondo. Un uomo solo, cioè lui solo è capace di fare quello che sta facendo, nessun altro all’infuori di lui. Un eroe! E tutti lì a chiedersi quale possa essere il segreto di tanto successo, di tanta audacia e coraggio.

Forse ce lo stiamo chiedendo anche noi, in questi giorni. Appropriandoci della storica e leggendaria espressione del radio cronista Mario Ferretti, potremmo dire: “Un uomo solo è al comando; la sua maglia è bianca; il suo nome è Benedetto XVI!”. No, dai, non è che il Papa si sia messo a correre in bicicletta, a quell’età poi… è solo che lui oggi ci sembra terribilmente bello, solo ed eroico come il mitico Fausto Coppi sulle cime più alte d’Italia; ha staccato tutti, è di un altro livello! Quelli che gli sono attorno appaiono in tutta la loro goffa incapacità di atleti alle prime armi i quali, non sapendo fare altro dinanzi a cotanta distanza e bravura, ricorrono ad autentici e imbarazzanti “mezzucci” per farsi strada. Ma Lui è lì davanti al suo posto, il Primo, il posto che gli ha assegnato Cristo. E in forza di questa consegna lui solo, il Papa, è capace di fare quello che sta facendo… in altre parole: è un eroe! O un martire, se volete! Questa mattina, domenica di Pentecoste, dalla mia radio-sveglia le prime parole che sono uscite dal Gr di Radio Uno, e che mi hanno fatto sobbalzare dal letto, sono state: “Un parroco romano ha raccontato che una vecchina è andata da lui a chiedere di celebrare una Messa per la conversione di quelli del Vaticano”; ho subito pensato: Il Papa è veramente solo… o meglio, il Papa è veramente il solo! Badate bene: non parlo della solitudine in cui è stato lasciato ma mi sto riferendo anche al fatto che quello che sta facendo lui, solo lui lo può fare. Solo lui ne è capace!

Nella liturgia del Venerdì Santo, durante la preghiera universale, ad un certo punto si dice: “Dio onnipotente ed eterno, sapienza che regge l’universo, ascolta la tua famiglia in preghiera, e custodisci con la tua bontà il Papa che tu hai scelto per noi”. Sì, è stato scelto per noi! Per questi nostri tempi, affascinanti e terribili, umilmente fermo e sicuro al timone della Chiesa. “Cari amici – disse il Papa con un’umiltà impressionante il 24 aprile 2005 nell’omelia della Santa messa per l’inizio del Ministero Petrino del Vescovo di Roma – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”. Chissà, come accade spesso agli eroi (e ai santi), forse in quella circostanza era già riuscito a vedere l’attacco sotto il quale sarebbe finita la Chiesa e il Papa stesso da lì a poco tempo. Un attacco dimostrato da un pregiudizio negativo di fondo, pronto a scattare su qualsiasi cosa il Papa dica o faccia, pronto a enfatizzare e creare “casi internazionali”: polemiche suscitate dal discorso di Ratisbona; il caso clamoroso delle dimissioni dell’arcivescovo di Varsavia Wielgus, che aveva collaborato con i servizi segreti comunisti; le critiche mosse alla pubblicazione del documento che liberalizza l’uso della messa antica; la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, coincisa con la diffusione dell’intervista negazionista di uno di loro; la crisi diplomatica per le dichiarazioni sul preservativo durante il viaggio in Africa; il dilagare dello scandalo degli abusi sui minori, l’invito alla “disobbedienza” del clero austriaco e infine la cronaca degli ultimi giorni che fa presagire orizzonti molto bui dentro le stanze vaticane abitate più che da corvi forse da velenosi serpenti in guerra tra loro.

Un uomo solo è al comando! Santità, se lo lasci dire: Quanto è bello! Sofferente, sì ma, per dirla con Costanza: “come il padre dà al figlio il coraggio di volare alto, così lei fa con noi: accettando di dare la vita dietro Gesù per noi, suoi figli e fratelli, prendendo su di sé, virilmente, i colpi del mondo”. Lei che avrebbe voluto chiudere i suoi giorni nell’amata Baviera, ma che poi è stato “trattenuto” a Roma dal Suo predecessore il Beato Giovanni Paolo II…
Qual è il suo segreto, Santo Padre? Chi le dà la forza, alla sua età, di restare lì davanti a tutti, apparentemente fragile ma allo stesso tempo saldo come la roccia?
“Venne all’improvviso un rombo come di vento che si abbatte gagliardo…” Forse è iniziata una nuova Pentecoste. Forse lo Spirito Santo non ha smesso di soffiare sulla Chiesa. Lei, Santità, è il Primo. Noi seguiremo soltanto lei, fino alla fine!

Mi glorio di essere ortodosso in ciò che riguarda i misteri della Trinità e della Messa;
mi glorio di credere nel confessionale;
mi glorio di credere nel Papato.
G. K. Chesterton


http://costanzamiriano.wordpress.com/

lunedì 28 maggio 2012

Pellegrinaggio al Santuario della Madonna dell'Umiltà a Pistoia






Pellegrinaggio al Santuario della Madonna dell'Umiltà

via della Madonna, a Pistoia

organizzato dall'Associazione Madonna dell'Umiltà e dagli amici del Coetus fidelium di Prato 


 giovedì 31 maggio 2012 

programma:

 ore 21:00 Santo Rosario 
 ore 21:30 Santa Messa nella forma straordinaria





L’inspiegabile pace di una fragile roccia





di Antonio Socci

Aveva iniziato il suo pontificato con un appello insolito e drammatico. Ricordo bene quella sua messa di insediamento, il 24 aprile 2005: ero lì, in piazza San Pietro, quando pronunciò, con la sua voce timida, queste terribili parole: “Pregate perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri.


Tornano in mente specialmente oggi, quelle espressioni, di fronte alla tempesta che ha investito il Vaticano. Ero ovvio che Benedetto XVI sapesse bene di cosa parlava. E non avrebbe mai pronunciato una frase del genere se non fosse servita anche al popolo cristiano a capire cosa sarebbe accaduto.
Nel linguaggio tradizionale cristiano peraltro “i lupi” rappresentano non il nemico esterno, non la persecuzione del mondo, ma “il fumo di Satana” – come ebbe a dire Paolo VI – che si insinua nel Tempio di Dio, cioè il male che è dentro la comunità, in noi cristiani, e, quindi, anche (qualche maligno dice: soprattutto) dentro le mura leonine.

Ritengo che sarebbe profondamente ingiusto squalificare in toto la città vaticana come un covo di serpenti, corvi e lupi. Confesso di essermi sorpreso tante volte nel conoscere persone, importanti o no, che all’ombra di san Pietro vivono una fede luminosa, una carità fervente, una vita ascetica inimmaginabile.
Egualmente mi rifiuto di identificare la causa di tutta questa tempesta con il cameriere personale di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, che è stato “fermato” ieri dalla gendarmeria vaticana. Sia perché la presunzione d’innocenza vale anche per lui, sia perché tutti coloro che lo conoscono lo giudicano un uomo buono e devoto al papa, che non può aver commesso un simile tradimento.

Sia perché i documenti pubblicati da Gianluigi Nuzzi provengono non solo dalla corrispondenza del Papa, ma anche da altri uffici vaticani che non sono certo accessibili al signor Gabriele.
Sia perché, infine, la fuoruscita di documenti è stata gestita con una strategia molto scaltra ed elaborata, da addetti ai lavori (o ai livori).
E lascia trasparire dietro – come scrive lo stesso Nuzzi – un certo numero di persone e un’evidente lotta per bande. Scatenatasi sulle macerie della macchina di governo vaticana che sembra francamente da rinnovare radicalmente.

D’altra parte non è un mistero per nessuno che all’interno del mondo ecclesiastico si scatenino talvolta logiche di potere che nulla hanno da invidiare a quelle del mondo.
Tanto è vero che è stato lo stesso Benedetto XVI a mettere in guardia i cardinali dell’ultimo concistoro dalla smania del potere ed è stato sempre lui – in più occasioni – a denunciare il clericalismo, il carrierismo e l’abuso del potere.

In un documento solenne come la sua “Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica” del 10 marzo 2009, con candore evangelico, ma anche con profondo coraggio e trasparenza, ha scritto questo terribile passo:
“Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: ‘Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!’ ”.


Dopo questa scioccante citazione ha aggiunto:
“Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo ‘mordere e divorare’ esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata.
È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore?”.


Pur con questa chiara e desolante coscienza della realtà, ieri, dalle mura vaticane, è emerso lo stato d’animo del Papa: “addolorato e colpito”. Sono parole tipiche della personalità di Joseph Ratzinger i cui rapporti umani sono improntati sempre a leale sincerità e disarmante candore.
Ho avuto il privilegio di poter trascorrere, in diverse occasioni, del tempo con lui, quando non era ancora papa e fuori da circostanze ufficiali. Nell’ultima, era l’ottobre 2004, sei mesi prima della sua elezione, siamo stati due giorni sulle montagne bellunesi.

Eravamo ospiti di un centro culturale cattolico che, insieme al cardinale, mi aveva invitato a presentare il suo libro “Fede, verità, tolleranza” (Cantagalli).
Ho potuto vederlo nella vita quotidiana, in un contesto familiare, ne ho studiato i gesti, le espressioni e ho toccato con mano la sua sorprendente affabilità, un’umanità plasmata dallo spirito evangelico.
Pur essendo un grande teologo, una delle menti più lucide della sua epoca e pur avendo un ruolo così alto nella Chiesa universale, sorprendeva tutti con la sua semplicità e la sua timida gentilezza.
L’ho visto ogni volta, dopo la colazione del mattino o la cena, bussare alla porta della cucina per ringraziare personalmente, una ad una, le donne che, là dietro, avevano preparato i pasti.
Ricordo la sua gioia – di artista o di fanciullo – nel camminare su un sentiero panoramico in montagna, davanti a tutta la magnificenza delle Dolomiti, e il suo immediato moto di tenerezza per un gattino comparso nel cortile.

Un uomo così, mi dissi, è come indifeso di fronte alla naturale malizia degli uomini. Perché immediatamente aperto alla fiducia. E’ dunque comprensibile il suo dolore per quello che sta accadendo.
Tuttavia papa Ratzinger è anche un vero sapiente, da tutti i suoi gesti e le sue parole traspare la sapienza che viene dall’alto.

In anni lontani, durante una conversazione in cui erano emersi tutti i veleni e le minacce che stavano facendo oscillare paurosamente la barca di Pietro, concluse con disarmante certezza che – in ogni caso – è il Signore stesso che guida la storia e porterà lui in salvo la sua Chiesa.
Ieri lo ha ribadito davanti a 50 mila aderenti del Rinnovamento nello Spirito: “il vento scuote la casa di Dio, ma la casa costruita sulla roccia non cade”. La “roccia” è Cristo. E ciò che il Papa ha chiesto è di testimoniare “la gioia” della sua “attrazione” e della sua amicizia.

Per papa Ratzinger la “vittoria” della Chiesa non è una vittoria mondana, non è un successo legato ai criteri terreni o alle istituzioni vaticane. Ma l’evidenza che la compagnia di Gesù vince il male, il dolore e la morte.
Una volta lo ha spiegato con un’immagine sorprendente e meravigliosa:
“Le vie di Dio sono diverse: il suo successo è la croce…non è la Chiesa di chi ha avuto successo ad impressionarci, la Chiesa dei papi o dei signori del mondo, ma è la Chiesa dei sofferenti che ci porta e credere, è rimasta durevole, ci dà speranza. Essa è ancora oggi segno del fatto che Dio esiste e che l’uomo non è solo un fallimento, ma può essere salvato”.


In questo senso non ha torto lo storico cattolico Franco Cardini che ha affermato: “Lo Stato Città del Vaticano non è la Chiesa. Non bisogna gridare al Cristianesimo offeso e tradito”.
Infatti lo stato Città del Vaticano e pure la Curia sono istituzioni umane, storiche, che potrebbero anche non esserci più, come non c’erano nei primi secoli.
Ma la Chiesa, dietro a Pietro, non crolla, è “la casa costruita sulla roccia”, che rimane fino alla fine dei tempi. E scaturisce dal dono dello Spirito Santo, dai sacramenti e fiorisce nella vita e nei cuori, nella mistica unità dei cristiani. La Chiesa è il luogo della misericordia e della salvezza. Per tutti. Il luogo dei miracoli.


da “Libero” 27 maggio 2012 


domenica 27 maggio 2012

Video della conferenza di don Enrico Bini

Al link seguente il video della conferenza tenuta da don Enrico Bini il 27 aprile 2012:


“La Liturgia in Romano Guardini”

sabato 26 maggio 2012

La danza vuota intorno al vitello d'oro




Raymond Leo Burke
Nicola Bux
Raffaele Coppola

Liturgie secolarizzate e diritto

I contributi raccolti nel volume affrontano sotto varie angolature il tema, assai caro alla teologia di Benedetto XVI, della "tentazione costante nel cammino della fede" di eludere il profondo mistero di Dio, "costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi e ai propri progetti". Questa deviazione si è verificata pure in campo liturgico: dopo il Vaticano II e sino ai nostri giorni vi sono stati non rari abusi, i quali risultano censurabili nella misura in cui si traducono in atti di culto che, secondo il pensiero del Santo Padre, non sono più teocentrici ma piuttosto antropocentrici, vale a dire protesi ad un'auto-esaltazione dell'uomo e delle sue esigenze. È per questo che il recupero, compiuto da Benedetto XVI, della cosiddetta "Messa di San Pio V" ovvero della Forma extraordinaria del rito della Messa potrà svolgere un utile compito, spingendo ad arginare quelle non isolate deviazioni, onde riportare sempre più al centro dell'attenzione il vero Protagonista anche nelle modalità di svolgimento della Messa secondo la Forma ordinaria o "di Paolo VI" e dei riti adottati a seguito delle riforme conciliari. Va ricordato che, secondo la dottrina tradizionale, tutti i riti sono offerti per adorare, propiziare, ringraziare Dio ed impetrare da Lui le grazie necessarie alla salvezza eterna dell'uomo.


Scuola Ecclesia Mater

Ciò che veramente intendeva Giovanni XXIII per "novella Pentecoste"





Il beato Giovanni XXIII la definì così: “La Chiesa Santa di Dio, che vuol essere luce delle genti, ha una sua parola da dire agli uomini dell’epoca presente. Con umile fermezza, essa per la voce dei suoi pastori, uniti con Pietro, richiama i popoli alla preminenza delle cose dello spirito; invoca l’istituzione di un ordine civile e domestico più equo e più nobile, in cui tutti i figli di Dio, redenti dal Sangue di Cristo, possano vivere nell’amore reciproco, nel rispetto dei mutui diritti e doveri. La Chiesa chiama soprattutto i suoi figli a una rifioritura esemplare di virtù, nella pratica costante delle opere di misericordia e nell’esercizio volenteroso del buon esempio e dell’apostolato. È questa la novella Pentecoste, che invochiamo ardentemente dallo Spirito Santo, come frutto del Concilio Ecumenico Vaticano II.” (Udienza generale del 24 ottobre 1962).

venerdì 25 maggio 2012

Il cardinal Burke: cattolici, non è tempo di tacere







Il cardinale Burke, uno degli uomini molto vicini al papa, è stato tra i numerosi cardinali che hanno dato l’adesione alla marcia per la vita del 13 maggio. Inoltre egli è sceso per strada e ha camminato con i marciatori.
di Benedetta Frigerio (Tempi)
Dall’aborto alla riforma liberticida di Obama, «il male è scatenato». Il cardinal Burke e la scelta di marciare in difesa della vita. Con la testimonianza e con i piedi
Il 13 maggio scorso 15 mila persone hanno sfilato nella capitale per chiedere l’abolizione della legge 194/78 che legalizza l’aborto. Fra i cartelli che denunciavano la morte di 5 milioni di bambini e l’impossibilità di tollerare anche un solo aborto legale, spuntava una faccia capace di rendere ancora più significativa la svolta del mondo pro life italiano. Quella di Raymond Leo Burke, il cardinale statunitense prefetto della Segnatura Apostolica che ha marciato silenziosamente per due ore secondo il suo stile umile ma mai remissivo. Infatti, la sola presenza del capo del supremo tribunale vaticano, noto per essere fra i porporati più vicini sia per formazione sia per impostazione al papa teologo e pastore Benedetto XVI, ha segnato una novità non indifferente nella linea d’azione indicata dalla Chiesa cattolica per far fronte alla violazione dei cosiddetti “princìpi non negoziabili”.
Eminenza, è la prima volta che una fetta così consistente del mondo pro life, con il plauso di molti vescovi, intraprende la via dell’opposizione senza compromessi. Fino ad ora si era scelto di combattere per l’applicazione integrale della legge 194 quale via per ridurre gli aborti, come se non fosse possibile chiedere di più. Il numero degli aborti, però, non ha fatto che aumentare. È realistico percorrere la strada più audace ora che siamo ancora più assuefatti alla mentalità abortista?
È necessario prendere la via audace. L’unica accettabile e indicata da sempre da Giovanni Paolo II prima e da Benedetto XVI poi davanti alla negazione dei princìpi non negoziabili. L’aborto è la violazione di un diritto inviolabile della persona. Non si può rimanere silenziosi di fronte a una legge che lo permette, non ha senso parlare di male minore davanti a un omicidio. Per quanto riguarda l’esito politico di tale azione è difficile fare previsioni, ma se non si comincia non lo sapremo mai. Comunque sia abbiamo il dovere di parlare chiaro per tenere deste le coscienze, testimoniando fino in fondo la santità inviolabile della vita umana, tutelandola dal concepimento fino alla morte naturale.
In America lo Stato si sta spingendo più in là. Nell’ambito della sua riforma sanitaria Obama ha approvato un regolamento che vìola la clausola di coscienza: qualsiasi istituzione deve offrire ai propri dipendenti, studenti o fruitori la copertura assicurativa di contraccettivi e aborto. La Chiesa cattolica, spronata dal Papa, si sta mobilitando, attraverso incontri pubblici, interventi mediatici, manifestazioni e preghiere comunitarie per chiarire alla gente che il governo non sta minacciando la Chiesa ma la libertà religiosa in generale. La stampa laicista parla di ingerenza.
Questo lavoro è assolutamente necessario: la Chiesa cattolica non può rimanere integra senza impegnarsi per continuare ad agire nella società. Assistiamo a una secolarizzazione totale che vuole zittire la coscienza umana. Perciò, i vescovi non solo possono ma devono protestare e fare tutto il possibile per risvegliare le coscienze della popolazione, anche perché il mondo mediatico, tutto a favore della secolarizzazione, sta cercando di confondere i cittadini mascherando quello che sta accadendo. Dice: “Sì, voi avete la libertà di culto nella vostra chiesa ma poi, fuori dalle sue mura, non avete quella religiosa”. Accettare di vivere così è tradire la natura cattolica del cristianesimo. Pertanto mi conforta molto vedere che tutti i vescovi americani sono uniti per protestare contro un governo che minaccia le sue stesse fondamenta: il primo emendamento della Costituzione. Sono sicuro che ogni americano che si renderà conto che l’attacco non è rivolto alla sola Chiesa cattolica, ma alla libertà religiosa in generale, si opporrà al presidente.
C’è chi teorizza che il mondo non capisce più quello che la Chiesa ha da dire, perciò l’unica via sarebbe quella della testimonianza di vita.
Non si può stare in silenzio. In questo caso accontentarsi della testimonianza personale sarebbe come affermare che si è d’accordo con quanto il governo sta facendo. Il silenzio non è ammissibile di fronte alle ingiustizie più gravi. Tradiremmo la missione che il Signore ci ha affidato: difendere la dignità di ogni essere umano. Parlano di ingerenza e poi rimproverano il silenzio della Chiesa di fronte al nazismo. Chi parla così, almeno per coerenza, dovrebbe auspicare l’intervento della Chiesa, perché siamo di fronte a un pericolo simile.
In Italia si cerca di fare apparire la Chiesa come un’istituzione potente e corrotta a cui porre fine. L’attacco viene anche dall’interno e arriva fino al Santo Padre, con la pubblicazione della sua corrispondenza personale.
Questa è una cosa che la Chiesa deve affrontare anche al suo interno. Il segreto pontificio non esiste per mascherare le ingiustizie, ma perché viga il rispetto della coscienza personale. Bisogna poi ricordare che quanto è destinato a un uso personale, non avendo lo scopo di un annuncio generale, ha una forma che non è pensata per essere comprensibile al pubblico. Mi auguro un ripristino immediato del segreto e della riservatezza dei documenti pontifici, che la Chiesa deve ricomprendere. Perché quanto avvenuto è una violazione gravissima.
Anche la stessa Costituzione italiana, all’articolo 11, tutela la segretezza della corrispondenza privata.
Sarà la Segreteria di Stato ad occuparsi di questa violazione per far valere i propri diritti anche all’esterno.
Davanti agli scandali si vede anche il rischio di dividere la “Chiesa dei buoni” da quella “dei cattivi”.
La Chiesa, che è il corpo mistico di Cristo, è una ed è il mezzo attraverso cui il Signore ha scelto di restare con noi: la Chiesa, dunque, è una realtà santa composta da uomini che rimangono peccatori e che talvolta non rispondono alla grazia ricevuta dallo Spirito. Una grazia continuamente necessaria per la conversione della vita, per il rigetto del peccato e per abbracciare la via della Croce e della donazione di sé. Così la Chiesa resta una realtà non coerente, santa e meretrice insieme. Perciò, chi prende solo un aspetto di essa è ideologico. Non ha scuse nemmeno chi assiste al compimento di peccati gravissimi che i suoi uomini possono commettere, perché chiunque ha a che fare con la Chiesa ha conosciuto anche la sua santità, magari più visibile in certi uomini che in altri.
Non pensa che ci sia anche un’amplificazione dei peccati, se non addirittura una distorsione della realtà della Chiesa?
È indubbio. I media, ad esempio, prendono le cose più normali e di per sé buone, come la conversazione del Santo Padre con un governatore, e ne distorcono il messaggio insinuando secondi fini. Mentre i fatti sono più semplici: da sempre la Chiesa, come qualsiasi altra istituzione, nel dialogo con altri esprime il proprio pensiero. E questo è bene, perché la sua missione è di salvare e difendere il mondo. Anche per questo un cattolico non può accettare una separazione assoluta tra Stato e Chiesa. I due piuttosto devono collaborare mantenendo la propria identità.
La cronaca dimostra che è in atto un tentativo di infangare chi cerca di applicare la dottrina sociale della Chiesa. Così i cattolici sono tentati di ritirarsi dal mondo non solo per paura della persecuzione, ma per quella di sporcarsi le mani.
Non è possibile per un cattolico accettare di farsi chiudere in sagrestia. Non possiamo ritirarci per paura di diventare come il mondo. Sì, ci sono anime che hanno la vocazione eremitica o monastica chiamate a lasciare il mondo per salvarlo abbracciando una vita di penitenza e preghiera. Ma per chi non ha questa vocazione è un dovere quello di agire nei vari campi dell’attività umana per testimoniare Cristo risorto. Certo è difficile, perché più la nostra testimonianza è forte più i nemici del Vangelo ci attaccano. È poi c’è sempre il rischio di cadere. Ma questa non può essere una ragione per lavarsene le mani. Non possiamo pensare che seguendo Gesù non saremo attaccati e nemmeno che non sbaglieremo. Proprio per questo si deve continuare ad agire stando attaccati alla vite. Dobbiamo essere tralci ben inseriti nella vite che è il Signore per trarre forza dall’Unico che ci può sostenere e farci rialzare. Altrimenti saremo perduti. Soprattutto ora che il male è scatenato, è solo con Cristo, nella Chiesa, e in Cristo, nell’Eucarestia e nella Confessione, che possiamo prevalere sulle forze di Satana, sui principati e le potestà, come dice san Paolo.
Perché Dio permette una prova simile, che allontana gli uomini dal Suo corpo che è la Chiesa? Che cosa sta chiedendo il Signore ai suoi discepoli?
La spiegazione si trova nella Passione di nostro Signore. Il Padre ha permesso che Lui soffrisse una passione crudele per salvare il mondo. Quindi dobbiamo vedere nelle nostre sofferenze la via misteriosa della purificazione, per amare ancor più Dio e il prossimo. Se tutto fosse facile la bellezza della vita cristiana si offuscherebbe. Al contrario, quando la vita cristiana è provata, la sua bellezza è misteriosamente più evidente. Io sono solo un sacerdote, ma mi pare che in questi tempi così duri il Signore ci stia chiedendo una testimonianza eroica: di soffrire per Lui e per la sua Chiesa.
Come sta vivendo il Santo Padre questa prova?
Mentre il corpo soffre anche il capo soffre con lui. Ma il Papa ha una fede ferma e forte: soffre ma è certo che tutto è nelle mani del Signore che ha già vinto ed è risorto. Perciò è sempre molto sereno e tranquillo e non si lascia scalfire dal mondo.


Libertà e Persona

giovedì 24 maggio 2012

IL PAPA: DIO E' DIVENTATO SCONOSCIUTO ANCHE IN ITALIA



Benedetto XVI incontra i vescovi riuniti in assemblea e chiede loro di puntare all'essenziale della fede cristiana per evangelizzare nuovamente il Paese







di ANDREA TORNIELLI

Non ha citato le emergenze etiche, non ha ripetuto l’appello per una nuova generazione di cattolici in politica, non ha commentato la situazione sociale ed economica del Paese: si è concentrato sulla fede. Anzi sulla mancanza di fede e sul processo di secolarizzazione sempre più evidente anche in Italia, «in un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato».

È un discorso che punta all’essenziale quello che a mezzogiorno di oggi, nell’aula del Sinodo, Benedetto XVI ha rivolto ai vescovi italiani riuniti in assemblea generale. Il Papa ha ricordato innanzitutto il cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio, invitando ad «approfondirne i testi». Ha ribadito le intenzioni di Giovanni XXIII, che voleva «trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti, ma in modo nuovo» e ha definito «inaccettabile» la chiave di lettura che presenta il Vaticano II «discontinuità» «rottura» con la tradizione precedente, affermando che grazie al Concilio «la Chiesa può offrire una risposta significativa alle grandi trasformazioni sociali e culturali del nostro tempo».

Benedetto XVI ha quindi messo in guardia dalla «razionalità scientifica» e dalla «cultura tecnica» che travalicando i loro ambiti pretendono «di delineare il perimetro delle certezze di ragione unicamente con il criterio empirico delle proprie conquiste, e ha citato l’emergere «a volte in maniera confusa», di «una singolare e crescente domanda di spiritualità e di soprannaturale, segno di un’inquietudine che alberga nel cuore dell’uomo che non si apre all’orizzonte trascendente di Dio».

La secolarizzazione avanza e «anche una terra feconda rischia così di diventare deserto inospitale e il buon seme di venire soffocato, calpestato e perduto. Ne è un segno la diminuzione della pratica religiosa, visibile nella partecipazione alla liturgia eucaristica e, ancora di più, al sacramento della penitenza». Tanti battezzati, continua il Papa «hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede o pensano di poterla coltivare prescindendo dalla mediazione ecclesiale. E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio» solo ad alcuni grandi valori.

Il cuore dell’annuncio cristiano, ha ripetuto Ratzingter citando le parole di Papa Wojtyla «non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzi tutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile». Purtroppo, ha aggiunto, «è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica». Da qui deriva la «crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale».

Per far fronte a questa situazione, ha detto ancora il Papa, «non bastano nuovi metodi di annuncio evangelico o di azione pastorale». I padri conciliari del Vaticano II «da Dio, celebrato, professato e testimoniato» e non a caso approvarono come prima costituzione conciliare quella sulla liturgia. Benedetto XVI ha indicato ai vescovi italiani la necessità di «un rinnovato impulso, che punti a ciò che è essenziale della fede e della vita cristiana», spiegando che «non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio».

Ratzinger ha ricordato che per questo scopo ha indetto l’Anno della Fede, che inizierà l’11 ottobre, e ha citato nuovamente il precedessore per affermare che la nuova evangelizzazione «deve essere, come insegna questo Concilio, opera comune dei Vescovi, dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici, opera dei genitori e dei giovani». Il Papa ha concluso: «Dio è il garante, non il concorrente, della nostra felicità, e dove entra il Vangelo – e quindi l’amicizia di Cristo – l’uomo sperimenta di essere oggetto di un amore che purifica, riscalda e rinnova, e rende capaci di amare e di servire l’uomo con amore divino».

Al termine del suo discorso, Benedetto XVI ha recitato una sua preghiera allo Spirito Santo, nella quale tra l’altro si afferma: «Spirito di Vita, che in principio aleggiavi sull’abisso, aiuta l’umanità del nostro tempo a comprendere che l’esclusione di Dio la porta a smarrirsi nel deserto del mondo, e che solo dove entra la fede fioriscono la dignità e la libertà e la società tutta si edifica nella giustizia».

Vatican insider   24 maggio 2012

Maria Ausiliatrice dei cristiani






L'omelia di mons. dal Covolo alla Messa per la Solennità di Maria SS.Ausiliatrice dei Cristiani alla Lateranense




di mons. Enrico dal Covolo


 Celebriamo oggi un “segno grandioso”: “Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi, e sul capo una corona di dodici stelle” (Apocalisse 12,1).
Questo “segno grandioso”, che noi oggi celebriamo, ha un nome e una storia. Si chiama Maria Ausiliatrice, o meglio Maria Auxilium Christianorum, la Madonna di Don Bosco.
Vorrei delineare brevemente la storia di questa devozione all’Ausiliatrice: una devozione così “salesiana”, così di “casa nostra”, che continua a commuovermi.

Don Bosco stesso ci aiuta, in alcuni cenni storici molto sintetici, quando scrive: “Un’esperienza di diciotto secoli” (oggi egli direbbe: un’esperienza di duemila anni) “ci fa vedere in modo luminosissimo che Maria ha continuato dal cielo, e col più grande successo, la missione di Madre della Chiesa e di Ausiliatrice dei cristiani, quella stessa missione che aveva cominciato sulla terra”.
Lo abbiamo ascoltato anche nel Vangelo: alle nozze di Cana, in Galilea, l’occhio vigile e materno di Maria anticipa addirittura l’ora di Gesù, l’ora della nostra salvezza. Già i martiri delle catacombe pregavano così: Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genitrix.
Sì, sotto il tuo aiuto, sotto il tuo manto materno, noi ci rifugiamo, santa Madre di Dio…

Ma l’ambiente in cui si sviluppò la devozione a Maria Ausiliatrice è il clima drammatico della battaglia di Lepanto del 1571.
Qui a Roma c’è un affresco originale, nel Convento dei Domenicani di santa Sabina, sull’Aventino, là dove è conservata l’antica cella di san Pio V. Raccolto in preghiera, con il Rosario in mano, Pio V ha una visione: la flotta delle navi cristiane arresta e sconfigge l’inesorabile avanzata dei musulmani in Europa.
Egli era devoto, da bravo figlio di san Domenico, del Rosario. Ma attorno a questa devozione egli fece fiorire anche la giaculatoria: Maria Auxilium Christianorum, alla quale venne assegnata una peculiare indulgenza.

Fu poi uno dei successori di san Pio V, Pio VII, a istituire la festa di Maria Ausiliatrice, il 24 maggio di due secoli e mezzo più tardi. In quel giorno infatti – era il 24 maggio 1814 – Pio VII poté rientrare a Roma, ponendo termine finalmente ai cinque anni dolorosi di esilio e di prigionia, a cui lo aveva costretto Napoleone Bonaparte.

Ancora cinquant’anni dopo, nel 1868, Don Bosco inaugurava a Valdocco (Torino) la splendida Basilica dedicata a Maria Ausiliatrice.
Sopra l’altare maggiore della Basilica campeggia il famoso quadro del Lorenzone. Il significato del quadro è chiarissimo. Come Maria era presente, insieme agli apostoli, a Gerusalemme durante la Pentecoste, quindi all’inizio dell’attività della Chiesa, così ancora Lei sta a protezione e a guida della Chiesa, lungo i secoli.

Alcuni decenni più tardi, l’immagine di Maria Ausiliatrice – venerata a Cracovia, nella parrocchia salesiana del quartiere Debniki – era la mèta delle lunghe soste di preghiera di un brillante giovanotto, di nome Karol. Gli amici lo chiamavano Lólek.
E’ proprio lui, il nuovo beato Giovanni Paolo II. Egli stesso racconta: “Pensando alle origini della mia vocazione, non posso dimenticare il filo mariano. La venerazione della Madre di Dio nella sua forma tradizionale mi viene dalla mia famiglia. Quando poi mi trovai a Cracovia entrai nel gruppo del ‘Rosario vivo’, nella parrocchia salesiana. Vi si venerava in modo particolare Maria Ausiliatrice” (Dono e mistero, p. 37). Davanti a questa immagine dell’Ausiliatrice il giovane Lólek prese la ferma decisione di entrare nel Seminario clandestino, per diventare sacerdote.

***

Ho tratteggiato fin qui alcuni segmenti di storia della devozione a Maria Ausiliatrice.
Concludo ora con qualcosa di più personale.
Uno dei romanzi più belli che ho letto nella mia vita è quello di Hermann Hesse, Narciso e Boccadoro. Mi è rimasto impresso soprattutto il “gran finale” del romanzo, dove Boccadoro, ormai sul letto di morte, affida all’abate Narciso le sue ultime parole, quasi un testamento spirituale: “Senza una mamma non si può nascere… Senza una mamma, non si può neppure morire”.
Ecco: il senso della vita – dall’inizio alla fine – è comunicato dal cuore di una mamma.
Noi ce l’abbiamo questa Mamma.
A questa Mamma noi ci rivolgiamo oggi, con le parole stesse di Don Bosco:
O Maria, Vergine potente,
tu grande presidio della Chiesa;
o Maria, aiuto dei cristiani,
tu nelle angosce e nelle lotte della vita,
tu nei pericoli difendici dal nemico.
Tu nell’ora della morte accogli l’anima in Paradiso”.
Amen!


ROMA, giovedì, 24 maggio 2012 (ZENIT.org) -