mercoledì 2 agosto 2023

La «città dell’uomo»: una categoria teologica erronea, che nega la città di Dio




Silvio Brachetta, 2 AGO 2023

Buona parte del Novecento è stato percorso da un luogo comune, creato in ambito personalista e legato alla «svolta antropologica» della teologia moderna: la «città dell’uomo». Secondo Giuseppe Lazzati[1], «la città dell’uomo non è né una città cristiana da interpretare secondo i criteri della cristianità, né una città totalmente separata dalla fede e dalla religiosità, ma è una realtà che chiede dai suoi abitanti l’impegno alla costruzione della città a misura d’uomo»[2].

Ma l’idea partiva specialmente dall’opera di Jacques Maritain[3], contro qualsiasi progetto politico affine alla civiltà cristiana: «In verità tutte le vestigia del Santo Impero [medievale, ndr] sono oggi liquidate: siamo definitivamente usciti dall’età sacrale e da quella barocca», poiché «una nuova era comincia in cui la Chiesa ci invita a comprendere meglio la bontà e l’umanità di Dio […]»[4]. Maritain vagheggiava – e il concetto fu ripreso anche da Paolo VI – un novello hominem integrum, l’uomo integrale di un «umanesimo integrale», quasi che per venti secoli la Chiesa avesse formato solo uomini parziali.

L’uomo integrale, che costruisce la città dell’uomo, è però affetto – fin da subito – da un paradosso. La sua persona è perennemente spaccata in due parti, che sembrano agire e pensare in modo diverso: da una parte c’è il laico cristiano e religioso, cattolico e spirituale, che fa parte di un ambito sacro; dall’altra c’è il cittadino laico che, nel caso si occupasse di politica, se ne dovrebbe occupare in totale autonomia, convinto che le leggi della politica siano incompatibili con quelle della religione.

A questo proposito dice Lazzati (ma lo potrebbe dire un qualsiasi altro autore democristiano o personalista): «Se io apro il Vangelo non vi trovo una sola norma politica; vi trovo chiaramente espressa la distinzione tra i due piani»[5].

Il paradosso consiste anche in questo: si vuole curare lo studio e la formazione della persona, in modo che la politica «sia fondata su solide basi meta-politiche» e, nel medesimo tempo, evitare ogni «soprannaturalismo» in politica[6]. Le basi meta-politiche, però, sono soprannaturali.

Ai due grandi pensatori – Lazzati e Maritain – se ne aggiunge un terzo, assai notevole per la storia d’Italia: Adriano Olivetti[7], che fondò il partito politico Movimento Comunità (o Humana Civilitas), su basi federaliste, liberal-socialiste e liberal-democratiche. Significativo il titolo di un suo libro: Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, 1960.

Da notare il nome latino del suo Movimento – Humana Civilitas – distinto da quello medievale di Christiana Civilitas. Distinto di nome e di fatto: pur confermando tutti i suoi migliori propositi, Olivetti non pone più Dio al centro della storia, ma l’uomo della svolta antropologica novecentesca.

Molti altri hanno parlato e parlano di «città dell’uomo»: da Giuseppe Dossetti ai teologi contemporanei – vescovi e cardinali inclusi. Ovvero, tutto un mondo di cattolici democratici che guardano fissi a sinistra.

Ma cosa c’è di errato nel concetto di «città dell’uomo»? Perché essa non ha fondamenti teologici o di magistero? Per alcuni motivi, di seguito descritti.

1. Conoscenza erronea di Sant’Agostino

Nel De civitate Dei, Sant’Agostino d’Ippona non parla mai di «città dell’uomo», se non una volta, come sinonimo di polis. E non ne parla mai perché la città dell’uomo già esiste; non è necessario né fondarla, né nominarla con questo nome. La «città dell’uomo» è semplicemente la «civitas permixta»[8], dove la «città terrena» e la «città di Dio» sussistono commischiate fino alla fine dei tempi. Le due città sono due realtà opposte, incomunicabili, poiché si muovono su logiche antitetiche: la città terrena ha la mentalità del mondo, la città di Dio ha quella del Regno di Dio.

Il cristiano non ha la vocazione di costruire una città a misura d’uomo, in cui le due città possano scendere a compromesso, perché tra Babilonia e Gerusalemme non ve n’è alcuno. Egli si trova dentro una città composita, già edificata: suo compito è di far crescere la città di Dio, di diventarne cittadino e di chiamare altri fratelli alla cittadinanza celeste.

Non dunque la città dell’uomo deve fortificare il cristiano, ma la città di Dio. Se fortificasse la città dell’uomo, contribuirebbe alla crescita della città terrena. Inoltre, il termine «città dell’uomo» è artificioso, in questo contesto, perché il Dottore d’Ippona scrive solo e sempre di «città terrena» e di «città di Dio». È la città a misura di Dio che dev’essere edificata e, di conseguenza, l’uomo si realizza, perché ottiene la perfezione della sua natura, in quanto «immagine e somiglianza di Dio».

2. Imprecisione interpretativa della Sacra Scrittura

È anche vero, però, che le due città (terrena e di Dio) non sono soltanto in opposizione, ma hanno anche delle analogie. C’è infatti una duplice interpretazione teologica delle parole di Gesù Cristo ai farisei: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»[9].

La prima interpretazione è di rottura completa tra l’ambito sacro e quello secolare-terreno, più vicino al De civitate Dei agostiniano. È come se Gesù dicesse: «Date a Babilonia quel che è di Babilonia e a Gerusalemme quel che è di Gerusalemme». Qua non c’è alcun collegamento tra le città, poiché gli abitanti di Babilonia si dannano e quelli di Gerusalemme si salvano.

Una seconda interpretazione potrebbe equivalere a: «Date allo Stato quel che è dello Stato e alla Chiesa quel che è della Chiesa». In questo senso, rimane una rottura di fondo, a causa delle due logiche antitetiche, ma vi è pure una similitudine: Stato e Chiesa, nel Vangelo – al contrario di ciò che pensava Lazzati –, non sono due realtà equivoche, né univoche, ma certamente analoghe. Ha dunque torto Lazzati quando dice di non trovare norme politiche nel Vangelo. Il Vangelo (così come tutta la Scrittura e la Rivelazione), al contrario, non solo esprime una Dottrina sociale, ma fa riferimenti anche alla politica, parlando di Regno, di regalità, di denaro, di debiti, di crediti, di giudizio, di salario ai militari e non, di averi, di proprietà, di legge: tutte cose condivise tanto dall’ambito temporale, quanto da quello sacrale.

Sant’Ilario (poi anche Tertulliano e sant’Agostino) interpretava il tributo da pagare a Cesare in questo senso: «si deve dare a Cesare l’oro, perché questo è suo danaro, che contiene la sua immagine, ma a Dio si deve dare tutto l’uomo, danaro di Dio, essendo in esso la sua immagine»[10]. Le due interpretazioni hanno introdotto l’equivoco che, in qualche modo, sant’Agostino fosse contrario a san Tommaso d’Aquino, circa la dottrina politica cristiana. Sembra quasi che le due visioni siano di rottura, in quanto Agostino sottolinea l’incompatibilità tra Babilonia e Gerusalemme, mentre Tommaso spiega la similitudine tra sacro e terreno – tra Chiesa e Stato – e la necessità del potere temporale, voluto dalla Provvidenza.

Non vi è però conflitto, poiché le due interpretazioni sono vere entrambe: quanto alla mentalità mondana, bisogna parlare di incompatibilità, ma quanto all’ordine della creazione provvidente, bisogna parlare di similitudine.

L’errore del cattolicesimo democratico non sta nel rigettare le due interpretazioni, che invece sono accolte. È l’applicazione a fare problema: il cattolicesimo democratico fa valere l’incompatibilità tra Babilonia e Gerusalemme in ambito politico, mentre la similitudine in campo spirituale. In politica, infatti, il democratismo separa i piani delle due città (sacro e politico, soprannaturale e naturale) e rigetta la regalità anche sociale del Cristo. Nella fede, al contrario, il cattolico democratico accetta tutto di Cristo, regalità compresa, e lo adora come Signore del Tutto, sacro e profano.

Non così è la missione del cattolico in politica, che deve ammettere la similitudine tomista in ambito parlamentare e, nel medesimo tempo, confessare il rigetto agostiniano della mentalità mondana durante il suo cammino di conversione. È, tuttavia, sacrosanto affermare l’incompatibilità tra Babilonia e Gerusalemme anche in sede civile, ma solo quando il potere politico pretende d’introdurre leggi ingiuste, contrarie alla legge divina.

3. Equivoco sul «bene comune»

In questo quadro, il democratismo fa coincidere il «bene comune» come quello della «civitas permixta», in cui confluiscono (specialmente oggi) uomini di ogni cultura, religione e dottrina. Questa è la strada, viceversa, per raggiungere speditamente il «male comune». Il bene comune, infatti, ha la necessità di fondarsi sul vero Bene, che è la Ss. Trinità, e sulla sua vera religione (sempre sant’Agostino). Il bene comune, cioè, è il frutto della città di Dio, non della «civitas permixta». O meglio, la città di Babilonia commischiata alla città di Gerusalemme può realizzare un certo grado di bene comune, a patto che la signoria di Gesù Cristo sostenga tanto il potere secolare che quello sacro, come spesso avvenne nel caso della civiltà cristiana medievale.

Il cattolicesimo democratico ha la pretesa di costruire il paradiso della città dell’uomo relegando Gesù Cristo nel ruolo di personaggio ispiratore, assieme ai personaggi di altre religioni. L’obiettivo vorrebbe essere la pace e il bene comune. In privato il cattolico democratico adora il Cristo come unico Dio, mentre in pubblico lo mette sullo stesso piano di altre divinità, che la Rivelazione chiama «idoli» o «prostituzioni».

Come sta dimostrando la storia, non vi è nessun bene comune o pace che può nascere dal multiculturalismo e dal compromesso delle dottrine religiose, sociali e politiche. A meno di non voler chiamare bene comune e pace il clima di convivenza coatta negli Stati nazionali moderni, fondati sul laicismo ateo, sul divorzio, sull’aborto o sull’eutanasia. Il frutto del compromesso – è un fatto – è l’irrilevanza del cattolicesimo e della civiltà che vorrebbe fondare.

Conclusione

Il cattolico democratico è convinto che «i cristiani nella città dell’uomo lavorano in amicizia con tutti gli altri concittadini a costruire una società più giusta e più fraterna»[11].

Per Lazzati, nella cultura non ci può essere nulla di stabile e ogni contraddizione deve andare hegelianamente a sintesi, in un processo infinito. Secondo questo schema artificioso, «nessuna ideologizzazione del cristianesimo è quindi possibile, nessun sogno di restaurazione sociale cristiana e “nessun modello cristiano in politica” valido per tutti»[12]. Può sembrare contraddittorio, ma lo stesso Lazzati chiama questo suo schema «cittadinanza paradossale»[13]. Ovvero, ammette il paradosso e l’incoerenza di quanto dice, cercando di convincere l’interlocutore che il paradosso non è in lui, ma nel Cristianesimo stesso. Perché? Perché l’Evangelista Giovanni ha fatto intendere che i cristiani «sono nel mondo, ma non del mondo». È vero, ma Lazzati dimentica di dire che i cristiani sono nel mondo per edificare la città di Dio: non sono paradossali in sé, né lo sono di fronte a Dio, ma sono un paradosso per gli abitanti di Babilonia, che li reputano pazzi.

Lazzati dimentica anche di dire che il cristiano non deve nascondere il suo presunto paradosso (la Croce), ma lo deve dichiarare pubblicamente, agendo e affermando che non è in lui l’incoerenza, ma nel mondo.

Silvio Brachetta




[1] Storico, politico democristiano e docente milanese. 1909-1986.

[2] Cf. Giuseppe Lazzati, Costruire da cristiani la città dell’uomo, Ave, 1984.

[3] Filosofo francese, convertito al cristianesimo. 1882-1973.

[4] Jacques Maritain, Le paysan de la Garonne. Un vieux laïc s’interroge à propos du temps présent, Paris, Desclée de Brouwer, 1966.

[5] Giuseppe Lazzati, Il valore dell’impegno politico, in «Sudium», dicembre 1948.

[6] Cf. Guido Formigoni, Giuseppe Lazzati: discernimento cristiano e riforma della politica, sul sito “Città dell’Uomo”.

[7] Imprenditore e politico italiano. 1901-1960.

[8] Agostino, De civ., I, 35; XVIII, 54(2); XIX, 26.

[9] Presente nei tre Vangeli sinottici.

[10] Ilario di Poitiers, In Matthaeum, XXXIII.

[11] Piero Viotto, Dalla cristianità istituzionalizzata alla città dell’uomo, in «Istituto internazionale Jacques Maritain», gennaio-aprile 2010.

[12] Formigoni, Giuseppe Lazzati, op. cit.

[13] Ivi.







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