Settimo Cielo
di Sandro Magister
10 ago 23
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La Chiesa “non ha porte” e quindi tutti vi possono entrare, ma proprio “tutti, tutti, tutti, senza nessuna esclusione”. È questo il messaggio su cui papa Francesco ha più insistito nel suo viaggio a Lisbona, alla vigilia di un sinodo che – nel suo “Instrumentum laboris” – mette in cima alla lista dei sollecitati ad entrare “i divorziati e risposati, le persone in matrimonio poligamico, le persone LGBTQ+”.
Intanto però in Italia, dove Francesco è vescovo di Roma e primate, le chiese si svuotano. Un’approfondita indagine realizzata per la rivista “Il Timone” da Euromedia Research ha accertato che oggi solo il 58,4 per cento dei cittadini italiani al di sopra dei 18 anni si identificano come “cattolici”, a fronte di un 37 per cento di “non credenti”. E quelli che vanno a messa la domenica sono appena il 13,8 per cento della popolazione, in gran parte con più di 45 anni, con presenze ancor più basse proprio in Lombardia e Veneto, le regioni che sono state la storica roccaforte del “mondo cattolico” italiano.
Non solo. Anche tra i cattolici “praticanti”, cioè tra chi va a messa una volta o più al mese, appena uno su tre riconosce nell’eucaristia “il reale corpo di Cristo”, gli altri la riducono a un vago “simbolo” o a un “ricordo del pane dell’ultima cena”. E soltanto uno su tre sono anche quelli che si confessano almeno una volta all’anno, ancora convinti che si tratti di un sacramento per la “remissione dei peccati”. Non sorprende che il teologo benedettino Elmar Salmann abbia detto, in una intervista del 14 giugno a “L’Osservatore Romano”, che più ancora del numero dei fedeli lo preoccupa il declino della prassi sacramentale, che “sta per affondare”.
Un declino che si accompagna a un vistoso cedimento allo “spirito del tempo” in campo dottrinale e morale. Il 43,8 per cento dei cattolici praticanti ritiene l’aborto un diritto, il 41,6 per cento ritiene giusto consentire le nozze tra omosessuali, il 61,8 per cento nega che divorziare sia un peccato, il 71,6 per cento approva la contraccezione. Una certa resistenza si registra solo a proposito dell’utero in affitto, contro il quale si schierano due praticanti su tre.
Ma se questa è la realtà dei fatti, quale può essere l’effetto dell’insistito invito ad accogliere nella Chiesa “tutti, tutti, tutti”, cioè anche persone, come appunto “i divorziati e risposati, le persone in matrimonio poligamico, le persone LGBTQ+”, che stando a quanto ha sempre insegnato la Chiesa “non possono ricevere tutti i sacramenti”?
È questa la domanda che Anita Hirschbeck, della “Katholische Nachrichten-Agentur”, ha rivolto al papa nella conferenza stampa sul volo di ritorno da Lisbona, il 6 agosto.
Francesco le ha risposto che sì, tutti devono essere accolti nella Chiesa, “brutti e belli, buoni e cattivi”, inclusi gli omosessuali. Ma “un’altra cosa è la ministerialità nella Chiesa, che è il modo di portare avanti il gregge, e una delle cose importanti è, nella ministerialità, accompagnare le persone passo dopo passo nella loro via di maturazione… La Chiesa è madre, riceve tutti, e ognuno fa la sua strada dentro la Chiesa”.
Detta così, questa risposta del papa dà un colpo di freno alla corsa del “cammino sinodale” di Germania, ma non solo, verso una rivoluzione della dottrina della Chiesa sulla sessualità.
Ed è una risposta del tutto in linea, piuttosto, con quanto scritto nella ben più solida “Lettera pastorale sulla sessualità umana” pubblicata dai vescovi della Scandinavia nella scorsa Quaresima: “Può accadere che le circostanze rendano impossibile a un cattolico ricevere i sacramenti per un certo periodo. Non è per questo che cessa di essere membro della Chiesa. L’esperienza d’esilio interiore abbracciato nella fede può portare a un più profondo senso di appartenenza”.
Ma va notato che non sempre Francesco parla e agisce con coerenza, su tali questioni.
La benedizione delle coppie omosessuali, ad esempio, pur vietata – con l’assenso scritto del papa – dal dicastero per la dottrina della fede presieduto dal cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, è stata di fatto approvata dallo stesso Francesco, in più occasioni.
E ora che a Ladaria succederà Victor Manuel Fernández, il controverso teologo argentino prediletto da Jorge Mario Bergoglio, si può dare per certo che è finito il tempo dei custodi della dottrina “che additano e condannano”, sostituito da un nuovo, irenico programma di “crescita armoniosa” tra “le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale”, che “preserverà la dottrina cristiana più efficacemente di qualsiasi meccanismo di controllo”, come si legge nell’inusuale lettera del papa che ha accompagnato la nomina del nuovo prefetto.
Un deciso colpo di timone in questa direzione è l’intervista che “L’Osservatore Romano” ha pubblicato il 27 luglio con Piero Coda, 68 anni, segretario generale della commissione teologica internazionale, membro della commissione teologica del sinodo e professore presso l’Istituto universitario Sophia di Loppiano, del movimento dei Focolari di cui è componente di primissimo piano.
L’intervista ha per titolo: “Non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia”. E in essa, oltre alle risposte, sono rivelatrici le domande, da parte del direttore del quotidiano vaticano Andrea Monda e di Roberto Cetera, l’uno e l’altro già professori di religione nei licei.
Il presupposto di partenza è che la teologia tuttora insegnata nelle facoltà e nei seminari “è vetusta”. E lo è perché “l’uomo cambia”, anche nelle “relazioni tra i generi”, e noi “rischiamo di parlare a un uomo e una donna che non esistono più”, quando invece “un rinnovamento della teologia dovrebbe iniziare proprio con una rivisitazione del pensiero antropologico”.
Quindi anche l’uomo Gesù è da ripensare in forma nuova, senza più la “fissità” fin qui adottata. Dice Coda: “L’antropologia teologica così come spesso la rappresentiamo è in gran parte da archiviare: non certo nella sostanza, ma nell’interpretazione che ne è data. Perché è astratta e idealistica. Presenta una visione del mondo e dell’uomo da esculturazione. Occorre riviverla e ripensarla e riproporla”.
Da qui una serie di propositi di riforma che gli intervistatori così elencano al termine del colloquio: “Riarrotolando il nastro di questa conversazione, siamo partiti dal peccato originale: da ripensare; poi la grazia: da ripensare; poi la libertà: da ripensare; poi i sacramenti: da ripensare. Fossimo nei suoi panni, monsignor Coda, pensando al lavoro che c’è da fare – nell’assunto che non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia –, ci tremerebbero i polsi…”.
Se questo è il cantiere aperto, in cui tutto può essere cambiato, è difficile immaginare un tramonto di pontificato più rivoluzionario dell’attuale. O per meglio dire, più confusionario.
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