di Corrado Gnerre
La vita e la conversione
Sant’Agostino (in alcuni libri lo potreste trovare sotto il nome di “Aurelio Agostino” o “Agostino d’Ippona”) nacque nell’Africa settentrionale, a Tagaste, nel 354 da madre cristiana (santa Monica) e da padre pagano, Patrizio, che poi si convertì.
La sua giovinezza fu molto movimentata (in tutti i sensi). Quando nel 370 si recò a Cartagine per perfezionarsi negli studi, condusse una vita disordinata, aderì al manicheismo (credenza in due divinità, una buona e l’altra cattiva) e si unì ad una donna del popolo con cui convisse per alcuni anni e da cui ebbe un figlio, Adeodato, che rimase con lui.
Dopo vari viaggi e spostamenti e dopo aver abbandonato anche il manicheismo, si recò a Milano dove fece carriera e, per interessamento del prefetto Simmaco, ottenne la cattedra di retorica al Liceo imperiale. Qui lo raggiunsero la madre e alcuni amici e proprio qui, a Milano, iniziò a riflettere sulla vanità delle cose terrene.
In questo periodo fu molto importante l’amicizia con sant’Ambrogio (334-397), ch’era vescovo di Milano. Accadde che un giorno, meditando su questioni come l’origine del male e la spiritualità di Dio, udì una voce misteriosa (lo racconta lui stesso) che gli comandava: Prendi e leggi! Si trovò ad aprire le Lettere di san Paolo e capitò sulle parole: Non nelle crapule e nell’ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo…[1]
Si convertì al Cristianesimo e fu battezzato nel 387 stesso da sant’Ambrogio a Milano.
In realtà – anche questo lo dirà egli stesso – la sua conversione fu dovuta alle continue preghiere della mamma (Santa Monica). Ella sapeva che da sola, nella sua ignoranza, non avrebbe mai potuto convincere con le parole un figlio così colto e orgoglioso, e allora si mise a pregare… fin quando il figlio non trovò pane per i suoi denti: trovò appunto sant’Ambrogio.
Nell’autunno del 388 sant’Agostino partì per l’Africa, sostò brevemente a Cartagine e poi si ritirò a Tagaste, dove vendette i suoi beni, ne distribuì il ricavato ai poveri e si dedicò insieme ad alcuni amici ad una vita di preghiera e di penitenza (fu uno dei primi esempi di vita cenobitica).
Da Tagaste si trasferì ad Ippona, dove nel 391 fu ordinato sacerdote. Nel 395 fu consacrato vescovo. A Ippona per circa trent’anni visse come prodigio di santità e di sapienza.
Morì il 28 agosto del 430 mentre Ippona era assediata dai vandali.
Fu autore di moltissime opere. Quelle che hanno maggiore interesse filosofico si dividono in prima e dopo la conversione. Prima della conversione: Contra academicos, De vita beata, De ordine. Dopo la conversione: De immortalitate animae, Confessiones, De libero arbitrio, De Civitate Dei, De Trinitate, De magistro, De vera religione.
La necessità di entrare dentro di sé
La visione filosofica agostiniana è già tutta medievale perché si fonda sull’esigenza di trovare una base razionale per la fede cristiana e sul rapporto armonico tra ragione e fede. Ma gli occorreva un buon arnese per costruire questa base, si mise a pensare e trovò una buona cazzuola: la filosofia di Platone; e così ottenne una visione che venne giustamente chiamata platonismo cristiano.
Nel problema metafisico sant’Agostino manifestò tutto il suo genio, perché lo impostò partendo dall’uomo.
Si rifece a Socrate (il che ci fa capire quanto sia sbagliato dire che Agostino si sia rifatto solo a Platone) e disse che l’uomo deve prima di tutto conoscere se stesso. Insegnamento giustissimo: è inutile spremersi le meningi per risolvere tanti problemi se prima non si conosce la propria dimensione. Sant’Agostino però precisò che questo conoscere se stessi non è per “soggettivizzare” la verità (per la serie: ognuno può dire ciò che vuole) ma per conquistare la verità universale eterna.
Prima di tutto, il partire dal soggetto significava per lui dare una buona batosta agli scettici, cioè a coloro che affermavano che non si può conoscere la verità. Ammettiamo -diceva- che si debba dubitare di tutto, se io però dubito, vuol dire che esisto, e se esisto, vuol dire che non posso dubitare della certezza di esistere: “Si enim fallor sum. Nam qui non est, utique nec falli potest, ac per hoc sum si fallor” (“Se infatti mi sbaglio, vuol dire che esisto: chi non esiste non può nemmeno sbagliarsi; dunque, siccome mi sbaglio, esisto”).
Per sant’Agostino partire dal soggetto significava anche un’altra cosa. Ciò che è al di fuori della persona umana è mutevole e particolare. Questo non vuol dire che la realtà oggettiva sia un male (“tenebra” come diceva Plotino) piuttosto che la risposta del problema metafisico vada cercata dentro la persona: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris trascende et te ipsum” (“Non uscire fuori, rientra in te stesso: la verità abita nell’intimo dell’uomo. E se poi scopri che la tua natura è mutevole, pensa a ciò che ti trascende”). Dunque, il partire dal soggetto non è per raggiungere una sorta di soggettivismo, ma al contrario per raggiungere ciò che trascende il soggetto.
Solo l’anima umana, ritornando in se stessa, può avere coscienza della mutevolezza delle cose. Nessuna realtà può avere valore metafisico se non nella prospettiva dell’eterno (sub specie aeternitatis); e per guardare le cose nella prospettiva dell’eterno occorre “interiorizzare” la conoscenza.
Il tempo fa capire all’uomo chi è se stesso
E che l’interiorizzazione della conoscenza aiuti l’uomo ad incontrare l’eternità è soprattutto dimostrabile con la categoria del tempo. Mentre nel mondo esterno all’uomo il tempo appare un movimento, nell’anima il tempo si concentra in un eterno presente, dove il passato è presente come ricordo, il futuro come attesa e il presente come unione logica sia del ricordo che dell’attesa. In tal modo il tempo è considerato da sant’Agostino come una categoria che l’uomo scopre nel suo spirito, intesa come distensione dell’anima nell’eternità.
Sembra un po’ complicato come ragionamento ma non lo è. Solo l’uomo ha la consapevolezza dell’eternità, grazie alla sua possibilità di pensare al tempo ch’è passato e al tempo che verrà. L’animale non ha questa possibilità.
Veniamo adesso al problema del rapporto tra ragione e fede. Dunque, per sant’Agostino la conoscenza dell’io non era il fine ma un mezzo. L’uomo – diceva – venendo a contatto con il suo io, avverte il bisogno di andare oltre, e capisce che quell’io è creatura di qualcosa di più grande e di più vero, è creatura di Dio. E’ un capire intuitivo ma non per questo meno vero.
La conoscenza come “illuminazione”
Ed è proprio in questa intuizione di bisogno e di trascendere il proprio io che sant’Agostino iniziò ad indagare sulla credibilità e sulla necessità della Rivelazione.
I rapporti tra ragione e fede li sintetizzò con queste espressioni: “credo ut intelligam” (credo per ragionare) e “intelligo ut credam” (ragiono per credere).
Queste espressioni non significano solo che tra la ragione e la fede vi è un rapporto di successione, ma anche che la ragione e la fede si condizionano vicendevolmente e collaborano procedendo insieme nella conquista della Verità.
Veniamo al problema della conoscenza. Qui sant’Agostino volle rifarsi soprattutto a Platone, perché voleva che non si perdesse il rapporto stretto tra realtà naturale e soprannaturale. Platone, infatti, gli sembrava il filosofo che più di tutti salvaguardasse questo rapporto.
Ma c’era un problema. Platone parlava di idee che l’anima avrebbe contemplato nella vita precedente alla caduta nel corpo e il Cristianesimo invece non ammette nessuna vita precedente la vita. La mente di sant’Agostino si mise in moto e trovò la soluzione: la teoria dell’illuminazione.
Dio, creando l’uomo, l’ha fornito di intelligenza, e in questa intelligenza ha infuso una luce per distinguere il vero dal falso. In questo modo la verità delle cose non viene creata dall’intelligenza umana, ma può essere scoperta per mezzo di quella luce divina che, come dice san Giovanni, illumina ogni uomo che viene in questo mondo.[2]
Questa è sì una teoria che prende spunto da Platone e dai neoplatonici (non si parte dalla conoscenza sensibile), ma poi si sviluppa in maniera originale. L’uomo scopre in sé la verità intorno a quelli che lo circondano, per mezzo della sua intelligenza, da Dio naturalmente illuminata. Insomma, l’idea del mio essere, del mio vivere, del mio pensare, le idee del mondo che colgo in me, sono tutte verità eterne (rationes seminales) che apprendo come raggi proiettati da una fonte luminosa. Ma questa luce, e la conoscenza che ne deriva, sono opera tanto divina quanto umana. Divina, in quanto questa luce è creata e proiettata da Dio; umana, in quanto l’uomo la coglie nel suo io. La conoscenza è sì dono ma è anche sforzo; è sì sforzo ma è anche dono.
L’uomo è corpo e anima
Passiamo adesso alla concezione dell’uomo. Qui sant’Agostino (checché ne dicano molti studiosi) si allontana dal dualismo platonico e concepisce l’uomo come un composto inscindibile di corpo e di anima. Dedicato a chi vuole presentarci sant’Agostino come uno spiritualista, sentite cosa scrisse nella sua Città di Dio: “Anche a voler prescindere dalla funzionalità delle membra del corpo umano, esiste tra tutte le parti di questo corpo una proporzione così armoniosa che non si saprebbe dire se nella creazione si sia avuto più riguardo alla funzionalità o alla bellezza. Certo, non v’è alcuna parte del corpo creata per ragioni di utilità che non abbia anche una sua bellezza.”[3]
Un altro punto importante del pensiero di sant’Agostino è ciò che diceva riguardo al peccato originale. L’anima eredita misteriosamente il peso del peccato del primo uomo. Questa posizione, però, non va confusa con quella del Traducianesimo secondo il quale l’anima si trasmetterebbe di padre in figlio come il corpo. Per sant’Agostino non si discute: ogni anima è creata direttamente da Dio.
Il problema morale
Per quanto riguarda la morale, va detto che tutto il pensiero di sant’Agostino tende alla realizzazione morale e da questo punto di vista siamo lontanissimi dall’ intellettualismo etico del periodo precedente (se si conosce la verità, automaticamente si è buoni). No, sant’Agostino fa chiaramente capire che non serve solo conoscere la verità, occorre abbracciarla e seguirla. E’ certamente faticoso, ma è l’unica possibilità. Insomma, la conoscenza diventa un mezzo per l’esercizio della volontà.
Nel discorso morale c’è una questione da affrontare, che molti commentatori di sant’Agostino (e anche molti professori di filosofia dei licei) non sono riusciti a capire bene. Sant’Agostino diceva che l’uomo ha bisogno della Grazia per vincere il suo egoismo e la sua inclinazione al male, difetti che sono diventati dominanti dopo il peccato originale. Egli insistette molto su questo punto, anche perché ci teneva a rispondere ad un’eresia che si stava diffondendo molto in quel tempo, l’eresia pelagiana che affermava la possibilità dell’uomo di potersi salvare con le proprie forze. Tanto insisteva sant’Agostino su questo punto che qualcuno ha pensato, sbagliando, che concepisse la Grazia come qualcosa che annullasse totalmente la libertà individuale. Invece il nostro ne sottolineava l’importanza per rispondere a Pelagio, ma ci teneva comunque a ribadire l’ortodossia cattolica. La Grazia – diceva – perché dia frutto richiede la cooperazione dell’uomo che è padrone di respingerla o di accettarla attraverso il libero arbitrio (la libertà). Scrisse: “Chi ti ha creato senza che tu ci fossi, non ti salverà senza che tu lo voglia.” Più chiaro di così!
Il problema morale sant’Agostino lo continuò ad affrontare interessandosi dell’origine del male. Per lui il male deriva dall’esercizio della volontà, non può avere un’origina divina[4] e vien fuori da una mancanza di bene, cioè da una cattiva utilizzazione della libertà da parte delle creature.
La storia come “campo di battaglia”
Il pensiero di sant’Agostino rappresenta una novità anche riguardo la concezione della storia. Per il mondo pagano la storia aveva una dimensione circolare causata dalla mancanza della libertà umana.
Sant’Agostino, invece, cambiò prospettiva. Disse che la storia è la lotta perenne fra due città: la Città di Dio (Civitas Dei), costituita dai figli della luce, cioè da coloro che rinunciano alla superbia e scelgono Dio; e la Città terrena, che sarebbe la Città del diavolo (Civitas diaboli), costituita dai figli delle tenebre, cioè da coloro che scelgono la superbia e rinunciano a Dio.
Spetta ad ogni singolo uomo decidere per quale città combattere[5], fermo restando che la Città del diavolo può anche avere temporaneamente il sopravvento, ma si tratta di vittorie effimere perché la guerra è già decisa. Con la seconda venuta del Redentore, la Civitas diaboli sparirà completamente.
Il Bello è ordine, armonia e perfezione
Sant’Agostino trattò anche dell’estetica. Affermò platonicamente che il bello è ordine, armonia, perfezione; ma – precisò – questi termini non sono astrazioni, devono invece essere riferiti a Dio che ne è la fonte.
Il bello è manifestazione di Dio, è espressione della bellezza essenziale, concreta e assoluta che per mezzo del creato offre all’uomo la Sua Immagine (cioè di Dio).
A sant’Agostino piaceva molto la musica e la indicò come esempio dell’arte che può riavvicinare a Dio e dell’artista come colui che può avvicinarsi al Creatore. Nel suo De musica ne parlò come “scienza del misurare correttamente secondo un ritmo”. Insomma, la musica è fare ordine partendo dal disordine iniziale dei suoni che si producono spontaneamente. C’è un’evidente analogia con l’opera della provvidenza di Dio che mette ordine trasformando il khaos in kosmos. Chissà che direbbe il povero sant’Agostino se lo si catapultasse in un concerto di heavy metal…
Dio stesso, oltre ad essere Verità, è bellezza. E’ scritto nel libro X delle Confessioni: “Tardi ti amai, o Bellezza divina, per me così nuova e così antica. (…) Tu mi chiamasti, e il tuo grido perforò la mia sordità. Tu balenasti, e il tuo fulmine dissipò la mia cecità. (…) Tu mi toccasti, e il desiderio di te non fece che aumentare”.
[1] Romani 13,13.
[2] Giovanni 1,9.
[3] Civitas Dei, XXII, 24,4.
[4] Il male quindi di cui cercavo l’origine non è una sostanza, perché qualora fosse una sostanza sarebbe un bene e sarebbe o una sostanza incorruttibile e quindi un gran bene, o una sostanza corruttibile e perciò un bene, altrimenti non potrebbe corrompersi. Vidi perciò chiaramente che tu hai fatto buone tutte le cose e non c’è nessuna sostanza che tu non abbia fatta. E poiché non hai fatto tutte le cose uguali, esistono tutte in quanto sono singolarmente buone e nel complesso sono buonissime, poiché tu, o nostro Dio, hai fatto più che buona ogni cosa. (De libero arbitrio, II, 18).
[5] La natura, viziata per il peccato, genera i cittadini della Città Terrena, ma la Grazia, liberando la natura dal peccato, genera i cittadini della Città Celeste, e perciò, quelli si chiamano ‘vasi d’ira’, e questi ‘vasi di misericordia. (Civitas Dei, XV, 2).
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