Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da George Weigel, scrittore, giornalista e biografo di San Giovanni Paolo II, e pubblicato su First Things. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella mia traduzione.
George Weigel
L’ultimo colpo autoinflitto alla politica vaticana in Cina è arrivato a metà luglio, quando la Santa Sede ha annunciato che Papa Francesco aveva “riconosciuto” il vescovo Joseph Shen Bin come vescovo di Shanghai – nonostante il fatto che il vescovo fosse stato “trasferito” nella diocesi più importante e prestigiosa della Cina dal regime di Xi Jinping, non dal Papa. Pochi giorni dopo, America ha pubblicato una lunga analisi di questo cedimento romano da parte di Gerard O’Connell, suo corrispondente in Vaticano. O’Connell, da parte sua, si è basato su quella che Vatican News ha descritto come un’intervista al Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, ma che in realtà era un’auto-intervista, avendo il cardinale inviato le domande e risposte pre-scritte ai vari strumenti dei media vaticani per la pubblicazione.
Una rivelazione sorprendente in questa auto-interrogazione è arrivata quando il cardinale Parolin ha osservato che due precedenti trasferimenti di vescovi all’interno della Cina “sono stati effettuati senza il coinvolgimento della Santa Sede”, e ha detto che “questo modo di procedere sembra non tenere conto dello spirito di dialogo e di collaborazione stabilito dalla parte vaticana e dalla parte cinese nel corso degli anni”.
Al che si può solo rispondere: quale “spirito di dialogo e collaborazione”? Il Vaticano crede seriamente che un regime totalitario – che conduce la sorveglianza più estesa al mondo della propria popolazione, costruisce campi di concentramento genocidi per le minoranze etniche e religiose, blocca le indagini internazionali sul suo ruolo nell’esplosione globale del Covid-19 e annuncia pubblicamente che tutte le religioni in Cina devono essere “sinizzate” (cioè subordinate al concetto che il regime ha di ciò che la Cina è e dovrebbe essere) – sia veramente interessato al “dialogo e alla collaborazione”? Anche se questa ingenua ipotesi fosse stata la premessa di partenza del Vaticano nei negoziati che hanno portato all’accordo del 2018 tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese, le successive violazioni dell’accordo da parte della Cina e la repressione dei cattolici a Hong Kong e altrove non avrebbero dovuto indurre a riesaminare criticamente la premessa?
La Santa Sede non ha imparato nulla dal comportamento dei regimi totalitari nel corso della storia, che, senza eccezioni, hanno tutti cercato di subordinare le comunità cristiane all’ideologia del regime, sia essa il nazismo, il leninismo o il “pensiero di Xi Jinping”?
Capisco i limiti del linguaggio diplomatico in un negoziato difficile. Tuttavia, c’è qualcosa di svilente e strategicamente poco saggio (per non dire moralmente sgradevole) nel portare il linguaggio diplomatico all’estremo dicendo, come ha fatto il cardinale, che la conversazione tra il Vaticano e Pechino sarebbe continuata, “confidando nella saggezza e nella buona volontà di tutti”. Quale “saggezza” o “buona volontà” ha dimostrato Pechino dal 2018? Il suo attuale programma di portare il clero cattolico di Hong Kong nella terraferma per istruirlo sulla sinicizzazione è un’espressione di buona volontà o un esercizio di coercizione e intimidazione?
La stessa incapacità – o il testardo rifiuto – di comprendere la natura di un regime come quello di Xi Jinping era evidente nella speranza del cardinale che venissero sviluppati “statuti adeguati” per una conferenza episcopale cinese. Ma immaginiamo, per amor di discussione, che siano stati elaborati statuti “adeguati” agli standard dei giuristi canonici romani e che sia stata creata una conferenza episcopale cinese. Considerando il comportamento del regime di Xi Jinping da quando è stato firmato l’accordo Vaticano-Cina nel 2018, come può una persona ragionevole immaginare che quegli statuti saranno rispettati e che la conferenza funzionerà secondo quella che il cardinale Parolin ha definito la sua “natura ecclesiale e missione pastorale”? Quante volte bisogna essere colpiti allo stomaco prima di riconoscere che il proprio “partner di dialogo” non sta giocando secondo le regole del Marchese di Queensberry?
Poi c’è stato l’appello del cardinale Parolin alle autorità cinesi affinché istituiscano un “ufficio di collegamento stabile” per la Santa Sede nella Cina continentale che renda il dialogo tra Vaticano e Pechino “più fluido e fruttuoso”: una richiesta, ha riferito Gerard O’Connell, che il regime cinese ha già respinto in passato, chiedendo alla Santa Sede di chiudere il suo “ufficio studi” a Hong Kong. A cosa servirebbe questo “ufficio di collegamento stabile”? È forse il cuneo di apertura verso il santo Graal diplomatico a lungo cercato da alcuni diplomatici vaticani italiani: un’ambasciata della Santa Sede a Pechino? Ma questo richiederebbe la rottura delle relazioni diplomatiche della Santa Sede con Taiwan, la prima democrazia cinese della storia. E nonostante le fantasie di un “posto a tavola” del Vaticano, un’ambasciata non aggiungerebbe nulla all’influenza della Santa Sede sul regime di Pechino e metterebbe ulteriormente a tacere la voce pubblica del Vaticano.
Nel Collegio cardinalizio ci sono pochi entusiasti dell’attuale politica sulla Cina, e un esame della politica è imperativo durante il prossimo interregno papale. Tale discussione dovrebbe iniziare con la consapevolezza che, per quanto nobili siano le sue intenzioni, l’attuale politica è un fallimento che sta danneggiando l’autorità morale e la testimonianza della Chiesa.
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