Renato Farina
L’orrore per il delitto della donna di Corigliano Calabro accomuna chiunque abbia un briciolo di umanità. I fatti li abbiamo appresi con sgomento. Ella ha sacrificato il figlioletto, lo ha voluto concepire e poi annientare per intascare i soldi dell’assicurazione.
Non è una madre, pensiamo tutti, non può meritare questo titolo se non per essere maledetta. E il medico complice, che ha perfezionato il crimine lasciando spegnere quella creaturina senza soccorso? Idem. Due mostri. Quel piccolo era ancora legato alla mamma dal cordone ombelicale. Come si può osservare il suo tremore e non agitarsi per salvarlo? Infatti presentava, «dopo la sua espulsione dal grembo materno», «segni di vita». Il virgolettato è tratto dall’ordinanza del giudice che ha decretato l’arresto della coppia diabolica.
Eppure. Eppure qualcosa non va. Proviamo a essere razionali. A non lasciare prevalere l’emotività, quella cosiddetta e ottocentesca «voce della coscienza». In fondo è stato un incidente sfortunato. Ad analizzare i fatti con il bisturi del diritto e della morale correnti non si capisce proprio perché tanto chiasso. A parte la truffa alla assicurazione, reato peraltro depenalizzato or ora, i due hanno sì oltrepassato il limite della legge e dell’etica pubblica, ma lo hanno fatto di pochi centimetri e per un difetto di pochi secondi. A renderli presunti, sia chiaro, presunti infanticidi è stato un fatto meccanico sfortunato: «l’espulsione del feto» (così si esprime il gip, in modo ineccepibile) è stata procurata nella convinzione in buona fede che quell’essere senza nome sarebbe deceduto prima di saltar fuori con un tremolante accenno di vita. Dove sarebbe tutta la pretesa mostruosità?
Che differenza c’è tra quel che consideriamo abominio e quel che universalmente ormai assolviamo come necessità o addirittura rivendichiamo come diritto? Giusto la distanza tra un feto che sta nella pancia della donna, abortibile abortibilissimo, settimana di gestazione più settimana meno, rispetto a uno che non si è riusciti a sopprimere mentre se ne stava quieto nelle acque materne. La donna voleva «cagionare la morte del prodotto del concepimento», ma quel «prodotto» (parola di magistrato) era proprio un’altra cosa da lei, anche se legato da un cordone, aveva già un’altra volontà, al punto di non voler morire, e con una certa bravura visto che l’ha scampata per alcuni secondi, e se fosse stato soccorso adesso frignerebbe nella culla.
Quei secondi di differenza oggi ci fanno giudicare la madre e il medico come esseri abietti.
Quei secondi di differenza oggi ci fanno giudicare la madre e il medico come esseri abietti.
Invece la donna ha semplicemente cercato di abortire. Non è stata abbastanza brava. Se quello che i giudici nominano infanticidio, e ci riempie d’ira, fosse stato perfezionato direttamente nell’utero, moralmente avremmo a che fare solo con ciò che l’opinione comune considera come un fatto assolutamente veniale, quale taroccare qualche dato per carpire il premio di una qualsiasi assicurazione, delle quali tutti si pensa siano profittatrici.
Naturalmente ho esposto questi fatti in modo crudele, e mi spiace molto per quel bambino. Ma mi sarebbe spiaciuto allo stesso modo se fosse stato abortito e tutto fosse accaduto nei termini di legge, non ricordo a quale settimana dal momento del concepimento. Del resto, il feto, il prodotto del concepimento (chiamiamolo come si vuole, ma non bambino per carità, evitiamo suggestioni romantiche) se viene «espulso dal grembo materno» persino dentro i termini ammessi dalla legge italiana, quelli se non lo si schiaccia, se non lo si scioglie chimicamente, sopravvive proprio. Volendo. Ma non si vuole, di solito.
È la morale dominante a scegliere le parole per trasformare la medesima cosa in orrore o in diritto. La lingua esprime perfettamente il valore. Se chiami quel grumo di sangue nel seno della donna «prodotto» è ovvio, moralmente neutro, che si possano produrre degli scarti. È quella che Papa Francesco chiama cultura dello scarto. E se poi si vuol guadagnare sugli scarti con un’assicurazione, suvvia, perché scandalizzarci?
Io resto dell’idea che l’elogio del dubbio, che demolisce i dogmi, dovrebbe valere anche nel caso della vita prenatale. Per cui nell’incertezza se dietro il cespuglio ci sia un coniglio o un bambino, il cacciatore non spara. A dire la verità personalmente non sparerei anche se fossi certo che nel fogliame ad agitarsi fosse un coniglio. Ma qui entro nel campo dei conigli, su cui già si è espresso il Papa, e chi sono io per giudicare?
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