
Di Diego Benedetto Panetta, 29 mag 2025
«Gesù Cristo ci rivela che “Dio è amore” (1 Gv 4, 8) e ci insegna che “la legge fondamentale della perfezione umana, e quindi della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità[…]”» (n. 54). Con queste parole il Compendio di dottrina sociale della Chiesa, richiamando la Costituzione conciliare Gaudium et spes, ci presenta quella che viene altresì definita, qualche riga dopo, come «misura e regola ultima di tutte le dinamiche in cui si esplicano le relazioni umane», ossia la carità.
Se negli ultimi decenni vi è stato un Pontefice che a più riprese si è prodigato nello spiegare, approfondire e sviluppare, in cosa essa consista esattamente, questo è Benedetto XVI. Delle tre encicliche da lui redatte, due contengono addirittura già nel titolo il termine «carità» (Deus caritas est, Caritas in veritate). Risulta allora assai opportuno ripercorrerne alcuni punti, per comprendere meglio la portata di ciò che Joseph Ratzinger definisce anche come «via maestra della dottrina sociale della Chiesa» (Caritas in veritate, n. 2).
La carità: forza propulsiva che trasforma l’uomo e la società
Come abbiamo visto nelle righe iniziali, dopo la Rivelazione di Cristo e della Buona Novella, la trasformazione dell’uomo, e dunque della società, passa dalla legge della carità manifestatasi nell’amore di Dio per gli uomini. «“Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino», leggiamo nelle prime righe dell’enciclica Deus caritas est. Benedetto XVI non può che iniziare da qui, cioè dall’essenza della Rivelazione così ben sintetizzata dall’apostolo «che Egli amava» (Gv 19, 26). Accettare e credere nell’amore di Dio, significa dare un senso ben preciso alla propria vita e a quella di coloro con cui ciascuno di noi entra in contatto. Che cosa «aggiunge» però Nostro Signore che l’Antico testamento non mostra ancora? In fondo, il precetto «Amerai il tuo prossimo come te stesso» non è «un’invenzione» di Gesù; la troviamo infatti nella parte finale del Libro del Levitico (19, 18), tra le norme di condotta che Dio rivela a Mosè. Tuttavia, ciò che Gesù con la sua vita e il suo esempio rende visibile, è il volume, la consistenza, la dimensione effettiva dell’amore, dandocene una prova concreta lungo tutto l’arco della Sua esistenza, sino all’immolazione finale. «Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4, 10), l’amore adesso non è più solo un “comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro», spiega Benedetto XVI. In altre parole, l’esemplarità dell’amore di Gesù Cristo, seconda persona della Santissima Trinità, rivela a noi la legge della carità, al quale l’uomo è chiamato a partecipare per essere perfetto, vale a dire «completo».
La forma archetipica d’amore: il rapporto tra uomo e donna
Nella vita di tutti i giorni facciamo spesso esperienza della difficoltà di afferrare in tutti i suoi aspetti quello che rischia di restare pur sempre un bellissimo «concetto». Infatti, sebbene Cristo ci abbia spiegato e, soprattutto, mostrato nella concretezza delle sue piaghe cosa significhi amare, la tentazione di autosufficienza, ossia di declinare l’amore secondo un’ottica a noi congeniale, finisce inevitabilmente col frapporsi con la sua reale ed autentica espressione. Ed ecco allora che viene in soccorso dell’essere umano, la forma archetipica di amore, ossia quello tra un uomo e una donna. Tramite un rapporto libero e volontario, questi accettano scambievolmente di donarsi, dando vita ad una famiglia. Benedetto XVI ricorre a due termini greci, eros ed agape, per mostrarci la dialettica sottile ma profonda che si instaura dietro ogni rapporto d’amore. Con il primo termine, si suole indicare un «amore» che è orientato essenzialmente alla ricerca della gratificazione personale; con il secondo, invece, si allude a un amore che «scopre» l’altro da sé e che non resta chiuso nella dimensione del piacere personale, ma che mira a un piacere di altro tipo, che genera pace e comunione interiore. Quando la forza impetuosa dell’eros si lascia fondere e conquistare dalla docilità e saldezza dell’agape, l’amore «diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca».
È tutt’altro che inutile soffermarsi a considerare tali aspetti e le dinamiche che fanno loro da sfondo. E non lo è specialmente ai nostri giorni, nei quali una delle sfide più insidiose e svilenti che affrontiamo, è proprio l’abuso che si fa dell’espressione «amore». Ecco spiegato il motivo per cui se è vero che «la verità va cercata, trovata ed espressa nell’ “economia” della carità», «la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità», ricorda Benedetto XVI nella Caritas in veritate (n. 2).
La solidarietà: principio sociale e virtù morale
Le parole di papa Ratzinger ci permettono di approcciare il tema della solidarietà in modo diverso. La solidarietà cristiana rivela l’uomo a se stesso, laddove gli ricorda l’intrinseca natura sociale che lo caratterizza, la comune dignità di uomo creato ad immagine e somiglianza divina che lo unisce agli altri membri della comunità umana, così come il desiderio di unità e amicizia che lo lega agli uomini e ai popoli di tutta la Terra.
Il Compendio di dottrina sociale della Chiesa mette in evidenza due aspetti della solidarietà, che è bene richiamare. Esso fa infatti riferimento sia alla solidarietà intesa come «principio sociale», sia come «virtù morale». Quest’ultima è definita come «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, per tutti siamo veramente responsabili di tutti», facendo eco alle parole che si leggono nell’enciclica Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II. Essa è la virtù sociale per eccellenza e si colloca nella dimensione della giustizia, la quale è orientata al bene comune.
Tuttavia, come anticipato, la solidarietà — secondo la dottrina sociale della Chiesa — «deve essere colta, innanzi tutto, nel suo valore di principio sociale ordinatore delle istituzioni». Secondo quest’ottica, essa è chiamata a trasformare le strutture di peccato che si annidano e dominano i rapporti sociali in strutture di solidarietà, mediante la creazione o la modifica di «leggi, regole di mercato, ordinamenti» (n. 193).
Giunti a questo punto, però, potrebbe facilmente insinuarsi un dubbio in ciascuno di noi. Ma tra solidarietà e giustizia non vi è una contraddizione di fondo? In apparenza si potrebbe constatare una conflittualità chiara, evidente tra le due, ma a uno sguardo più profondo, è vero il contrario. La solidarietà non solo non si oppone alla giustizia, ma anzi la presuppone e la trascende. «Non posso “donare” all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia», ricorda Benedetto XVI (Caritas in veritate, n. 6). La giustizia è dunque inseparabile dalla carità, e anzi, per dirla con Paolo VI, «è la misura minima di essa».
La filantropia prescinde dalla verità
La solidarietà, così come la carità, ha senso solo nella dimensione della verità, lo ricordavamo poc’anzi. Cosa significa concretamente? In altre parole, che differenza c’è tra la carità, che fa rima con misericordia, e la filantropia?
Iniziamo dall’etimologia: il termine filantropia rimanda all’amore per l’uomo e, come è noto, divenne uno degli ideali per eccellenza che vennero predicati dall’illuminismo settecentesco e che furono esaltati dalla Rivoluzione francese. Il pedagogista tedesco Johann Bernhard Basedow coniò addirittura un metodo educativo ispirato agli ideali filantropici, che prese il nome di «filantropismo». Sul sito internet del Grande Oriente d’Italia, la più antica e numerosa obbedienza massonica della Penisola, al termine di un articolo in cui si pubblicizza l’inaugurazione di una mostra tenutasi a Rimini nel 2019, si legge quanto segue: «La filantropia affonda le sue radici teoriche negli ideali illuministici che saranno esaltati dalla Rivoluzione francese. Il motto di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza, che caratterizza ancora oggi la Massoneria, assumerà una forma operativa lungo il corso dell’Ottocento con la fondazione di ospedali, l’apertura di scuole, case di riposo, e altro ancora, realizzati dai Liberi Muratori in tutto il mondo[…]».
Il termine carità, invece, indica semplicemente l’amore ed è descritto dal Catechismo della Chiesa cattolica con queste parole: «La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio» (n. 1822). Si tratta di una virtù che ha «come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino». Il riferimento ultimo a cui guarda la carità, non è dunque l’uomo in sé e per sé, come per la filantropia, ma Dio che si è fatto carne e che ha mostrato all’uomo la via di redenzione, riscattandolo dal peccato. La carità può spiegare i suoi effetti soltanto nella verità, la quale fa uscire l’uomo da se stesso e dai suoi limiti, dalle sue sensazioni e opinioni soggettive, e gli permette di incontrare l’altro da sé basando la relazione su un fondamento obiettivo, solido riguardo la valutazione del valore e della sostanza delle cose.
[originariamente pubblicato nel numero di aprile 2025 de La Bussola Mensile]
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