Storico “tradizionalista” riconosce a Papa Francesco il merito di avere riaperto il dibattito sul Vaticano II. Per uscire dal Grande Equivoco.
Roberto de Mattei (12 luglio 2014)
Il Concilio Vaticano II è stato un Concilio “tradito”? E da chi? La domanda è pertinente, all’indomani della pubblicazione dell’Instrumentum Laboris, il documento vaticano che avvia la discussione del prossimo Sinodo sulla famiglia. I testi citati dall’Instrumentum Laboris sono infatti solo conciliari e post-conciliari, come se sul tema, oggi cruciale, della famiglia, ci sia stata una radicale svolta del magistero della Chiesa dopo gli anni Sessanta.
La scuola di Bologna non ha dubbi: questa svolta teologica e pastorale ci fu, ma Paolo VI ne soffocò la spinta. Tutto rimpianto della Storia del Concilio Vaticano II curata da Giuseppe Alberigo si gioca sulla contrapposizione tra il “profeta”, Giovanni XXIII, che inaugurò la “nuova Pentecoste” della chiesa, e il gelido burocrate Giovanni Battista Montini che la affossò. Dietro questa lettura storica del Vaticano II, oggi riproposta dagli epigoni di Alberigo, come Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri e Massimo Faggioli, sta la teologia novatrice di Marie-Dominique Chenu, Yves Congar e soprattutto Karl Rahner. Fin dal 1965, durante le ultime settimane della sessione finale, il gesuita tedesco, in una conferenza dal titolo “Il concilio: inizio di un inizio”, presentava il Vaticano II come l’inizio di una nuova epoca nella storia della Chiesa, destinata a rinnovare la comunità dei credenti, in maniera analoga a quanto accadde al primo Concilio, quello di Gerusalemme. Paolo VI avrebbe tradito il Concilio con la Nota praevia del 1964, con cui volle circoscrivere il significato della collegialità introdotta dalla Lumen gentium, e soprattutto con l’enciclica “repressiva” Humanae Vitae del 1968.
Le controversie seguite alla Humanae Vitae produssero la prima grande frattura ermeneutica tra i protagonisti del Vaticano II.
Nel 1972 fu fondata, da Joseph Ratzinger, Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, la rivista internazionale Communio, che si contrapponeva a Concilium su cui scrivevano Karl Rahner, Yves Congar, Edward Schillebeeckx. Fu de Lubac a coniare l’espressione “para-concilio” per denunciare quell’atmosfera di febbrile agitazione che negli anni successivi al Vaticano II portò molti teologi a forzarne le conclusioni.
In una lunga intervista concessa nel 1985 ad Angelo Scola (“Viaggio nel Concilio”, suppl. al n. 10, 1985, di 30 giorni, pp. 6-30), de Lubac descrisse il “para-concilio” come un movimento di pressione mediatica che aveva inteso influenzare il Concilio e il post-concilio su temi quali il primato pontificio e il rapporto della Chiesa con il mondo.
Nello stesso anno, Hans Urs von Balthasar, che nel 1952 aveva invitato, in un suo libro, ad Abbattere i bastioni (tr. it. Boria, Torino 2008), in un’intervista allo stesso 30 giorni (“Viaggio nel post-concilio”, a cura di A. Scola, Edit, Milano 1985), constatava che tutte le aspettative conciliari si erano dissolte “in un ottimismo americano”. Il sito Papalepapale ha recentemente ripubblicato un’intervista rilasciata da Balthasar a Vittorio Messori in cui il teologo tedesco sosteneva che il dialogo si era rivelato “una chimera” e affermava la necessità di ritornare alla retta dottrina e “al modello tridentino” di seminario.
L’intervista è, come le precedenti, del 1985, l’anno del Rapporto sulla fede in cui il cardinale Ratzinger allora prefetto della dottrina della Fede proclamava la necessità di “tornare ai testi autentici del Vaticano II autentico”. Divenuto Benedetto XVI, Joseph Ratzinger contrappose più volte l’ermeneutica dei testi a quella dello “spirito”. La sua posizione si è dipanata dal primo celebre discorso alla curia del 22 dicembre 2005, all’ultimo, non meno significativo, del 14 febbraio 2013 al clero romano. Benedetto XVI vi ribadisce la tesi secondo cui un Concilio virtuale, imposto dagli strumenti di comunicazione, avrebbe tradito il Concilio reale, espresso dai documenti conclusivi del Vaticano II. È a questi testi, travisati da un’abusiva prassi postconciliare, che si dovrebbe tornare per ritrovare la verità del Concilio. Mons. Agostino Marchetto, definito da Papa Francesco come “il miglior ermeneuta” del Vaticano II, si muove su questa linea, che manifesta ogni giorno di più la sua debolezza. Il Concilio dei media non fu infatti meno reale di quello dei Padri, al punto che si potrebbe sostenere la tesi che se Concilio virtuale si ebbe, fu proprio quello dei 16 documenti ufficiali del Concilio, rimasti nella raccolta dei testi della Santa Sede, ma mai calati nella concreta realtà storica.
L’opera di revisione storica e teologica avviata negli ultimi anni del pontificato benedettino ha aperto però una nuova pista storico-ermeneutica. Il Concilio, secondo questa prospettiva, non fu tradito né da Paolo VI, né dal “partito mediatico”, ma da Giovanni XXIII, colui che l’aveva indetto e che lo diresse fino alla morte, avvenuta il 3 giugno 1963, tra la prima e la seconda sessione dei lavori. I fatti sembrano confermarlo. Il 25 gennaio 1959, a soli tre mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, Papa Roncalli annunciò l’indizione del Concilio Vaticano II. La sorpresa fu grande, ma la preparazione del Concilio durò ben tre anni, attraverso una fase ante-preparatoria (un anno) e una fase preparatoria (due anni).
Nella primavera del 1960 si raccolsero i consilia et vota, cioè le 2.150 risposte ricevute dai vescovi di tutto il mondo, interpellati sui temi della futura assemblea. Poi tutto questo materiale fu rimesso a dieci commissioni nominate dal Papa per redigere gli “schemi” da sottoporre al Concilio. Le commissioni operarono, sotto la supervisione del cardinale Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, fino al giugno del 1962. L’imponente lavoro fu raccolto in 16 volumi contenenti gli schemi di 54 decreti e 15 costituzioni dogmatiche. Il 13 luglio, tre mesi prima dell’apertura dell’assemblea, Giovanni XXIII stabilì che i primi sette schemi di costituzione, da lui approvati, fossero inviati a tutti i Padri conciliari come base della discussione per le congregazioni generali. Essi riguardavano: “Le fonti della rivelazione”; “Mantenere puro il deposito della fede”; “L’ordine morale cristiano”; “Castità, matrimonio, famiglia e verginità”; “La sacra liturgia”; “I mezzi di comunicazione”; “L’unità della chiesa con le chiese orientali”. Questi documenti, a cui avevano lavorato per tre anni dieci commissioni, raccoglievano quanto di meglio la teologia del Novecento avesse prodotto. Erano testi densi e articolati, che entravano direttamente nel cuore dei problemi del tempo, con un linguaggio chiaro e persuasivo.
Giovanni XXIII li studiò con attenzione postillandoli, con commenti autografi: “Su tutti gli schemi – ricorda mons. Vincenzo Fagiolo – a lato ci sono queste espressioni spesso ripetute: ‘Bene’, ‘Optime’. Su uno solo, quello sulla liturgia, che nel volume figura al quinto posto alle pp. 157-199, qua e là è scritto sempre di pugno del Papa qualche punto interrogativo in senso di meraviglia e non approvazione”. Quando nel luglio del 1962 mons. Pericle Felici, segretario del Concilio, gli presentò gli schemi conciliari da lui rivisti e approvati, Papa Roncalli commentò con entusiasmo: “Il Concilio è fatto, a Natale possiamo concludere!”. In realtà, a Natale di quell’anno tutti gli schemi del Concilio erano già stati buttati a mare, tranne il De Liturgia, proprio quello che piaceva meno a Giovanni XXIII, ma l’unico che soddisfaceva i progressisti. E il Concilio Vaticano II non sarebbe durato tre mesi, ma tre anni.
Che cosa era accaduto? Nel mese di giugno 1962 il cardinale Léon-Joseph Suenens nuovo arcivescovo di Malines-Bruxelles, riunì un gruppo di cardinali al Collegio belga di Roma, per discutere un “piano” per il prossimo Concilio.
Suenens racconta di aver discusso con loro un documento “confidenziale” in cui criticava gli schemi predisposti dalle commissioni preparatorie e suggeriva al Papa di creare, “a suo uso personale e privato”, una commissione ristretta, “una sorta di brain trust” per rispondere ai grandi problemi di attualità pastorale. Nel mese di agosto giunse al Papa anche una supplica del cardinale canadese Paul-Emile Léger, arcivescovo di Montreal. La lettera era firmata dai cardinali Liénart, Dòpfner, Alfrink, Kònig e Suenens. Il documento criticava apertamente i sette primi schemi che avrebbero dovuto essere discussi dall’assemblea, affermando che essi non si accordavano con l’orientamento che Giovanni XXIII avrebbe dovuto dare al Concilio.
Il Vaticano II si aprì l’11 ottobre 1962. Il 13 ottobre fu inaugurata la prima congregazione generale, ma in apertura di seduta avvenne un inaspettato colpo di scena. L’ordine del giorno prevedeva di votare per eleggere i rappresentanti dei Padri conciliari nelle dieci commissioni deputate a esaminare gli schemi redatti dalla commissione preparatoria. Il cardinale Liénart, appoggiato dai cardinali Frings, Döpfner e König, protestò per la mancata consultazione delle conferenze episcopali e chiese la loro convocazione prima di votare per le commissioni. Tutto era stato organizzato dagli esponenti della “nouvelle théologie”, nella notte precedente, al seminario francese di Santa Chiara. Il cardinale Tisserant, presidente dell’assemblea, concesse il rinvio e la consultazione delle conferenze episcopali, chiamate a indicare le liste dei nuovi nominativi per le commissioni. Il ruolo delle conferenze episcopali, che non era previsto dal regolamento, fu ufficialmente sancito. Venne così alla luce l’esistenza di un partito organizzato, la “Alleanza europea”, che ottenne la nomina di quasi tutti i propri candidati nelle commissioni. Le conferenze episcopali erano guidate, più che dai vescovi che ne facevano parte, dai loro esperti, i teologi, molti dei quali erano stati condannati da Pio XII e si apprestavano ora a svolgere un ruolo decisivo in Concilio. E poiché tra le conferenze episcopali la più organizzata era quella tedesca, decisivo fu il ruolo dei teologi tedeschi. Ma tra i teologi tedeschi uno in particolare si distingueva il gesuita: Karl Rahner, la cui influenza sul Concilio fu determinante. Padre Ralph Wiltgen, nella sua fondamentale opera The Rhine floius into thè Tiber (New York 1967) lo riassume efficacemente: “Poiché la posizione dei vescovi di lingua tedesca era regolarmente fatta propria dall’Alleanza europea e dato che la posizione dell’Alleanza era a sua volta generalmente adottata dal Concilio, bastava che un solo teologo facesse adottare le proprie idee dai vescovi di lingua tedesca perché il Concilio le facesse sue. Questo teologo esisteva: era il padre Karl Rahner della Compagnia di Gesù”. Da quel momento si scrisse del Concilio una storia diversa.
Per chi vuole approfondire questa pista, oltre al mio II Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta(Lindau, Torino 2011) consiglio la lettura di alcuni recenti libri che offrono preziosi spunti su cui meditare. In un volumetto denso e succoso, Il Concilio parallelo. L’inizio anomalo del Vaticano II (Fede e Cultura, Verona 2014, 125 pp.) e in un più vasto studio, Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa cattolica del XXI secolo (Solfanelli, Chieti, 2014,438 pp.). Paolo Pasqualucci solleva esplicitamente la questione del tradimento avvenuto nei primi giorni dei lavori conciliari. Pasqualucci è un eminente professore di Filosofia del diritto, che ha insegnato in diverse università italiane. Come giurista si sofferma soprattutto sulle numerose illegalità che deviarono il Concilio dal suo corso naturale, facendo naufragare il lavoro preparatorio e aprendo la strada ai propugnatori della nouvelle théologie. “Raramente – ricorda – un Concilio ecumenico fu preparato con maggiore scrupolo, coscienziosità e rispetto dei diritti e delle opinioni di tutti. Si seguì la prassi del Vaticano I, elaborandola e perfezionandola” (p. 13). Il rigetto degli schemi fu un vero e proprio “brigantaggio procedurale”, che Pasqualucci identifica in questi punti: sabotaggio delle elezioni dei sedici membri di spettanza del Concilio; inversione dell’ordine del giorno e rinvio delle votazioni delle commissioni; insabbiamento della discussione in aula dello schema sulle Fonti della Rivelazione con la conseguente creazione di una commissione mista, dominata dal cardinale Bea, per il suo rifacimento. Gli schemi furono rifatti da capo a piedi, con uno spirito e un taglio completamenti diversi.
Un altro importante contributo viene offerto da un giovane ma già affermato teologo, padre Serafino M. Lanzetta, dei Francescani dell’Immacolata, in Il Vaticano II. Un concilio pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliali (Cantagalli, Siena 2014, 490 pp.). Padre Lanzetta utilizza fonti inedite, tratte soprattutto dell’Archivio segreto vaticano, seguendo attentamente l’iter che portò allo stravolgimento degli schemi preparatori. Lanzetta si sofferma in particolare sul passaggio dalla Aeternus unigenitialla Lumen Gentium e dalla De Fontibus Revelationis alla Dei verbum, le due costituzioni che costituiscono gli assi portanti del magistero conciliare e che presentano elementi di criticità e ambiguità. Per sciogliere questi problemi, Lanzetta segue il metodo di interrogare il Concilio stesso, volendo scoprire soprattutto la sua mens, ciò che animava i Padri e ciò che determinò le loro scelte e decisioni. L’orizzonte al cui interno si muove il teologo è quello della distinzione classica tra dogmatica, che riguarda la dottrina, e pastorale che da essa dipende e deve essere guidata. Padre Lanzetta mostra come la pastoralità fu preponderante nel Vaticano II, fino a dettarne l’agenda e la direzione dei dibattiti, ma rifiuta di farne un principio teologico. Per il teologo francescano, il dato dottrinale del Vaticano II va letto alla luce della perenne Tradizione della chiesa e il Concilio non può che iscriversi in questa ininterrotta Tradizione (p. 37). “Ciò che solo può far da guida nella comprensione del Vaticano II è l’intera Tradizione della chiesa: il Vaticano II non è l’unico né l’ultimo concilio della Chiesa, ma un momento della sua storia” (pp. 74-75). “La perenne Traditio Ecclesiae è, quindi, il primo criterio ermeneutico del Vaticano II” (p. 75).
Ciò che frena il dibattito è il metas reverenziale che ogni cattolico ha giustamente verso le supreme autorità ecclesiastiche. Ma questo reverenziale rispetto e timore non può giungere al punto di deformare la verità storica e teologica. Sotto quest’aspetto il pontificato di Papa Francesco facilita la discussione. Il peso dell’ermeneutica di Benedetto XVI che gravava sul dibattito durante il pontificato, si è improvvisamente alleggerito dopo la sua abdicazione. Dopo la rinuncia al pontificato, il Concilio di Benedetto XVI è uscito dalla storia e nella storia è rimasto il Concilio del suo avversario, il cardinale Kasper: il Concilio che si realizza nella prassi pastorale e che, dopo cinquant’anni di prassi pastorale, annuncia l’avvenuta liquidazione della morale cattolica. Il prossimo Sinodo dei vescovi dovrebbe prenderne atto.
Il tema portante dell’Instrumentum Laboris, come dell’intervento del cardinale Kasper al Concistoro straordinario del 20 febbraio, è quello dell’abissale distanza tra la dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia e la prassi cattolica contemporanea. In questo documento il metro di misura della dottrina diviene la sociologia, la prassi capovolge la dottrina, la Chiesa viene ribaltata.
È questo il titolo di un volume appena uscito di Enrico Maria Radaelli, La Chiesa ribaltata. Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di Papa Francesco (Gondolin, Milano, 314 pp.), con una prefazione di mons. Antonio Livi. Radaelli, discepolo di Romano Amerio, è un attento osservatore del processo di “de-dogmatizzazione” che ha preso l’abbrivio dal Vaticano II e che sembra aver raggiunto l’apice con il magistero di Papa Francesco. Il mutamento di linguaggio della chiesa ha inciso, negli ultimi cinquant’anni, sui contenuti, alterando lo stesso deposito dottrinale. Analizzando la Lumen Fidei di Papa Francesco, Radaelli osserva che in un’enciclica imperniata sulla virtù della fede, colpisce l’assenza totale di una definizione netta e precisa della virtù della fede (p. 68). Ancor più colpisce l’assenza totale della parola “dogma”, un concetto ormai bandito dalla chiesa da cinquant’anni. “A cosa mai serve – afferma il filosofo milanese – un’enciclica sulla fede che non denunci gli errori e le eresie oggi pullulanti nella Chiesa, che non individui e anatemizzi gli errori?” (p. 257). Per Radaelli, che svolge una critica serrata della “teologia dell’Evento”, dell’“Incontro” e dell’“Esperienza”, “il linguaggio impositivo e dogmatico dovrebbe tornare ad essere serenamente riconosciuto linguaggio primo e conduttore di ogni altro linguaggio della Chiesa” (p. 73).
Nella prefazione al volume mons. Antonio Livi, pur non condividendo alcune posizioni dell’autore, difende il suo diritto a manifestarle, così come difese gli articoli di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro sul Foglio, perché ogni cattolico è libero di far sentire la propria opinione nel campo di quelle scelte teologiche e pastorali che non riguardano il dogma, ma l’opinabile.
Siamo in una situazione in cui la Chiesa non definisce né anatemizza, ma lascia aperta la libertà di discussione. Nelle librerie, nei seminari, nelle università cattoliche furoreggiano le tesi di autori ultra-progressisti, che negano l’esistenza stessa del concetto di “ortodossia”, come avviene sull’ultimo numero della rivista Concilium. Nell’epoca della de-dogmatizzazione, perché dogmatizzare il Vaticano II? La parola oggi è alla prassi, all’esperienza vissuta, da cui dovrebbe promanare la verità. Se così è, perché non ascoltare la voce di chi propone un cristianesimo vissuto, quello della Tradizione, che non nega il primato della dottrina, che non ricrea la verità, ma che alla immutabile Verità si richiama e si uniforma?
La scuola di Bologna non ha dubbi: questa svolta teologica e pastorale ci fu, ma Paolo VI ne soffocò la spinta. Tutto rimpianto della Storia del Concilio Vaticano II curata da Giuseppe Alberigo si gioca sulla contrapposizione tra il “profeta”, Giovanni XXIII, che inaugurò la “nuova Pentecoste” della chiesa, e il gelido burocrate Giovanni Battista Montini che la affossò. Dietro questa lettura storica del Vaticano II, oggi riproposta dagli epigoni di Alberigo, come Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri e Massimo Faggioli, sta la teologia novatrice di Marie-Dominique Chenu, Yves Congar e soprattutto Karl Rahner. Fin dal 1965, durante le ultime settimane della sessione finale, il gesuita tedesco, in una conferenza dal titolo “Il concilio: inizio di un inizio”, presentava il Vaticano II come l’inizio di una nuova epoca nella storia della Chiesa, destinata a rinnovare la comunità dei credenti, in maniera analoga a quanto accadde al primo Concilio, quello di Gerusalemme. Paolo VI avrebbe tradito il Concilio con la Nota praevia del 1964, con cui volle circoscrivere il significato della collegialità introdotta dalla Lumen gentium, e soprattutto con l’enciclica “repressiva” Humanae Vitae del 1968.
Le controversie seguite alla Humanae Vitae produssero la prima grande frattura ermeneutica tra i protagonisti del Vaticano II.
Nel 1972 fu fondata, da Joseph Ratzinger, Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, la rivista internazionale Communio, che si contrapponeva a Concilium su cui scrivevano Karl Rahner, Yves Congar, Edward Schillebeeckx. Fu de Lubac a coniare l’espressione “para-concilio” per denunciare quell’atmosfera di febbrile agitazione che negli anni successivi al Vaticano II portò molti teologi a forzarne le conclusioni.
In una lunga intervista concessa nel 1985 ad Angelo Scola (“Viaggio nel Concilio”, suppl. al n. 10, 1985, di 30 giorni, pp. 6-30), de Lubac descrisse il “para-concilio” come un movimento di pressione mediatica che aveva inteso influenzare il Concilio e il post-concilio su temi quali il primato pontificio e il rapporto della Chiesa con il mondo.
Nello stesso anno, Hans Urs von Balthasar, che nel 1952 aveva invitato, in un suo libro, ad Abbattere i bastioni (tr. it. Boria, Torino 2008), in un’intervista allo stesso 30 giorni (“Viaggio nel post-concilio”, a cura di A. Scola, Edit, Milano 1985), constatava che tutte le aspettative conciliari si erano dissolte “in un ottimismo americano”. Il sito Papalepapale ha recentemente ripubblicato un’intervista rilasciata da Balthasar a Vittorio Messori in cui il teologo tedesco sosteneva che il dialogo si era rivelato “una chimera” e affermava la necessità di ritornare alla retta dottrina e “al modello tridentino” di seminario.
L’intervista è, come le precedenti, del 1985, l’anno del Rapporto sulla fede in cui il cardinale Ratzinger allora prefetto della dottrina della Fede proclamava la necessità di “tornare ai testi autentici del Vaticano II autentico”. Divenuto Benedetto XVI, Joseph Ratzinger contrappose più volte l’ermeneutica dei testi a quella dello “spirito”. La sua posizione si è dipanata dal primo celebre discorso alla curia del 22 dicembre 2005, all’ultimo, non meno significativo, del 14 febbraio 2013 al clero romano. Benedetto XVI vi ribadisce la tesi secondo cui un Concilio virtuale, imposto dagli strumenti di comunicazione, avrebbe tradito il Concilio reale, espresso dai documenti conclusivi del Vaticano II. È a questi testi, travisati da un’abusiva prassi postconciliare, che si dovrebbe tornare per ritrovare la verità del Concilio. Mons. Agostino Marchetto, definito da Papa Francesco come “il miglior ermeneuta” del Vaticano II, si muove su questa linea, che manifesta ogni giorno di più la sua debolezza. Il Concilio dei media non fu infatti meno reale di quello dei Padri, al punto che si potrebbe sostenere la tesi che se Concilio virtuale si ebbe, fu proprio quello dei 16 documenti ufficiali del Concilio, rimasti nella raccolta dei testi della Santa Sede, ma mai calati nella concreta realtà storica.
L’opera di revisione storica e teologica avviata negli ultimi anni del pontificato benedettino ha aperto però una nuova pista storico-ermeneutica. Il Concilio, secondo questa prospettiva, non fu tradito né da Paolo VI, né dal “partito mediatico”, ma da Giovanni XXIII, colui che l’aveva indetto e che lo diresse fino alla morte, avvenuta il 3 giugno 1963, tra la prima e la seconda sessione dei lavori. I fatti sembrano confermarlo. Il 25 gennaio 1959, a soli tre mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, Papa Roncalli annunciò l’indizione del Concilio Vaticano II. La sorpresa fu grande, ma la preparazione del Concilio durò ben tre anni, attraverso una fase ante-preparatoria (un anno) e una fase preparatoria (due anni).
Nella primavera del 1960 si raccolsero i consilia et vota, cioè le 2.150 risposte ricevute dai vescovi di tutto il mondo, interpellati sui temi della futura assemblea. Poi tutto questo materiale fu rimesso a dieci commissioni nominate dal Papa per redigere gli “schemi” da sottoporre al Concilio. Le commissioni operarono, sotto la supervisione del cardinale Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, fino al giugno del 1962. L’imponente lavoro fu raccolto in 16 volumi contenenti gli schemi di 54 decreti e 15 costituzioni dogmatiche. Il 13 luglio, tre mesi prima dell’apertura dell’assemblea, Giovanni XXIII stabilì che i primi sette schemi di costituzione, da lui approvati, fossero inviati a tutti i Padri conciliari come base della discussione per le congregazioni generali. Essi riguardavano: “Le fonti della rivelazione”; “Mantenere puro il deposito della fede”; “L’ordine morale cristiano”; “Castità, matrimonio, famiglia e verginità”; “La sacra liturgia”; “I mezzi di comunicazione”; “L’unità della chiesa con le chiese orientali”. Questi documenti, a cui avevano lavorato per tre anni dieci commissioni, raccoglievano quanto di meglio la teologia del Novecento avesse prodotto. Erano testi densi e articolati, che entravano direttamente nel cuore dei problemi del tempo, con un linguaggio chiaro e persuasivo.
Giovanni XXIII li studiò con attenzione postillandoli, con commenti autografi: “Su tutti gli schemi – ricorda mons. Vincenzo Fagiolo – a lato ci sono queste espressioni spesso ripetute: ‘Bene’, ‘Optime’. Su uno solo, quello sulla liturgia, che nel volume figura al quinto posto alle pp. 157-199, qua e là è scritto sempre di pugno del Papa qualche punto interrogativo in senso di meraviglia e non approvazione”. Quando nel luglio del 1962 mons. Pericle Felici, segretario del Concilio, gli presentò gli schemi conciliari da lui rivisti e approvati, Papa Roncalli commentò con entusiasmo: “Il Concilio è fatto, a Natale possiamo concludere!”. In realtà, a Natale di quell’anno tutti gli schemi del Concilio erano già stati buttati a mare, tranne il De Liturgia, proprio quello che piaceva meno a Giovanni XXIII, ma l’unico che soddisfaceva i progressisti. E il Concilio Vaticano II non sarebbe durato tre mesi, ma tre anni.
Che cosa era accaduto? Nel mese di giugno 1962 il cardinale Léon-Joseph Suenens nuovo arcivescovo di Malines-Bruxelles, riunì un gruppo di cardinali al Collegio belga di Roma, per discutere un “piano” per il prossimo Concilio.
Suenens racconta di aver discusso con loro un documento “confidenziale” in cui criticava gli schemi predisposti dalle commissioni preparatorie e suggeriva al Papa di creare, “a suo uso personale e privato”, una commissione ristretta, “una sorta di brain trust” per rispondere ai grandi problemi di attualità pastorale. Nel mese di agosto giunse al Papa anche una supplica del cardinale canadese Paul-Emile Léger, arcivescovo di Montreal. La lettera era firmata dai cardinali Liénart, Dòpfner, Alfrink, Kònig e Suenens. Il documento criticava apertamente i sette primi schemi che avrebbero dovuto essere discussi dall’assemblea, affermando che essi non si accordavano con l’orientamento che Giovanni XXIII avrebbe dovuto dare al Concilio.
Il Vaticano II si aprì l’11 ottobre 1962. Il 13 ottobre fu inaugurata la prima congregazione generale, ma in apertura di seduta avvenne un inaspettato colpo di scena. L’ordine del giorno prevedeva di votare per eleggere i rappresentanti dei Padri conciliari nelle dieci commissioni deputate a esaminare gli schemi redatti dalla commissione preparatoria. Il cardinale Liénart, appoggiato dai cardinali Frings, Döpfner e König, protestò per la mancata consultazione delle conferenze episcopali e chiese la loro convocazione prima di votare per le commissioni. Tutto era stato organizzato dagli esponenti della “nouvelle théologie”, nella notte precedente, al seminario francese di Santa Chiara. Il cardinale Tisserant, presidente dell’assemblea, concesse il rinvio e la consultazione delle conferenze episcopali, chiamate a indicare le liste dei nuovi nominativi per le commissioni. Il ruolo delle conferenze episcopali, che non era previsto dal regolamento, fu ufficialmente sancito. Venne così alla luce l’esistenza di un partito organizzato, la “Alleanza europea”, che ottenne la nomina di quasi tutti i propri candidati nelle commissioni. Le conferenze episcopali erano guidate, più che dai vescovi che ne facevano parte, dai loro esperti, i teologi, molti dei quali erano stati condannati da Pio XII e si apprestavano ora a svolgere un ruolo decisivo in Concilio. E poiché tra le conferenze episcopali la più organizzata era quella tedesca, decisivo fu il ruolo dei teologi tedeschi. Ma tra i teologi tedeschi uno in particolare si distingueva il gesuita: Karl Rahner, la cui influenza sul Concilio fu determinante. Padre Ralph Wiltgen, nella sua fondamentale opera The Rhine floius into thè Tiber (New York 1967) lo riassume efficacemente: “Poiché la posizione dei vescovi di lingua tedesca era regolarmente fatta propria dall’Alleanza europea e dato che la posizione dell’Alleanza era a sua volta generalmente adottata dal Concilio, bastava che un solo teologo facesse adottare le proprie idee dai vescovi di lingua tedesca perché il Concilio le facesse sue. Questo teologo esisteva: era il padre Karl Rahner della Compagnia di Gesù”. Da quel momento si scrisse del Concilio una storia diversa.
Per chi vuole approfondire questa pista, oltre al mio II Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta(Lindau, Torino 2011) consiglio la lettura di alcuni recenti libri che offrono preziosi spunti su cui meditare. In un volumetto denso e succoso, Il Concilio parallelo. L’inizio anomalo del Vaticano II (Fede e Cultura, Verona 2014, 125 pp.) e in un più vasto studio, Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa cattolica del XXI secolo (Solfanelli, Chieti, 2014,438 pp.). Paolo Pasqualucci solleva esplicitamente la questione del tradimento avvenuto nei primi giorni dei lavori conciliari. Pasqualucci è un eminente professore di Filosofia del diritto, che ha insegnato in diverse università italiane. Come giurista si sofferma soprattutto sulle numerose illegalità che deviarono il Concilio dal suo corso naturale, facendo naufragare il lavoro preparatorio e aprendo la strada ai propugnatori della nouvelle théologie. “Raramente – ricorda – un Concilio ecumenico fu preparato con maggiore scrupolo, coscienziosità e rispetto dei diritti e delle opinioni di tutti. Si seguì la prassi del Vaticano I, elaborandola e perfezionandola” (p. 13). Il rigetto degli schemi fu un vero e proprio “brigantaggio procedurale”, che Pasqualucci identifica in questi punti: sabotaggio delle elezioni dei sedici membri di spettanza del Concilio; inversione dell’ordine del giorno e rinvio delle votazioni delle commissioni; insabbiamento della discussione in aula dello schema sulle Fonti della Rivelazione con la conseguente creazione di una commissione mista, dominata dal cardinale Bea, per il suo rifacimento. Gli schemi furono rifatti da capo a piedi, con uno spirito e un taglio completamenti diversi.
Un altro importante contributo viene offerto da un giovane ma già affermato teologo, padre Serafino M. Lanzetta, dei Francescani dell’Immacolata, in Il Vaticano II. Un concilio pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliali (Cantagalli, Siena 2014, 490 pp.). Padre Lanzetta utilizza fonti inedite, tratte soprattutto dell’Archivio segreto vaticano, seguendo attentamente l’iter che portò allo stravolgimento degli schemi preparatori. Lanzetta si sofferma in particolare sul passaggio dalla Aeternus unigenitialla Lumen Gentium e dalla De Fontibus Revelationis alla Dei verbum, le due costituzioni che costituiscono gli assi portanti del magistero conciliare e che presentano elementi di criticità e ambiguità. Per sciogliere questi problemi, Lanzetta segue il metodo di interrogare il Concilio stesso, volendo scoprire soprattutto la sua mens, ciò che animava i Padri e ciò che determinò le loro scelte e decisioni. L’orizzonte al cui interno si muove il teologo è quello della distinzione classica tra dogmatica, che riguarda la dottrina, e pastorale che da essa dipende e deve essere guidata. Padre Lanzetta mostra come la pastoralità fu preponderante nel Vaticano II, fino a dettarne l’agenda e la direzione dei dibattiti, ma rifiuta di farne un principio teologico. Per il teologo francescano, il dato dottrinale del Vaticano II va letto alla luce della perenne Tradizione della chiesa e il Concilio non può che iscriversi in questa ininterrotta Tradizione (p. 37). “Ciò che solo può far da guida nella comprensione del Vaticano II è l’intera Tradizione della chiesa: il Vaticano II non è l’unico né l’ultimo concilio della Chiesa, ma un momento della sua storia” (pp. 74-75). “La perenne Traditio Ecclesiae è, quindi, il primo criterio ermeneutico del Vaticano II” (p. 75).
Ciò che frena il dibattito è il metas reverenziale che ogni cattolico ha giustamente verso le supreme autorità ecclesiastiche. Ma questo reverenziale rispetto e timore non può giungere al punto di deformare la verità storica e teologica. Sotto quest’aspetto il pontificato di Papa Francesco facilita la discussione. Il peso dell’ermeneutica di Benedetto XVI che gravava sul dibattito durante il pontificato, si è improvvisamente alleggerito dopo la sua abdicazione. Dopo la rinuncia al pontificato, il Concilio di Benedetto XVI è uscito dalla storia e nella storia è rimasto il Concilio del suo avversario, il cardinale Kasper: il Concilio che si realizza nella prassi pastorale e che, dopo cinquant’anni di prassi pastorale, annuncia l’avvenuta liquidazione della morale cattolica. Il prossimo Sinodo dei vescovi dovrebbe prenderne atto.
Il tema portante dell’Instrumentum Laboris, come dell’intervento del cardinale Kasper al Concistoro straordinario del 20 febbraio, è quello dell’abissale distanza tra la dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia e la prassi cattolica contemporanea. In questo documento il metro di misura della dottrina diviene la sociologia, la prassi capovolge la dottrina, la Chiesa viene ribaltata.
È questo il titolo di un volume appena uscito di Enrico Maria Radaelli, La Chiesa ribaltata. Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di Papa Francesco (Gondolin, Milano, 314 pp.), con una prefazione di mons. Antonio Livi. Radaelli, discepolo di Romano Amerio, è un attento osservatore del processo di “de-dogmatizzazione” che ha preso l’abbrivio dal Vaticano II e che sembra aver raggiunto l’apice con il magistero di Papa Francesco. Il mutamento di linguaggio della chiesa ha inciso, negli ultimi cinquant’anni, sui contenuti, alterando lo stesso deposito dottrinale. Analizzando la Lumen Fidei di Papa Francesco, Radaelli osserva che in un’enciclica imperniata sulla virtù della fede, colpisce l’assenza totale di una definizione netta e precisa della virtù della fede (p. 68). Ancor più colpisce l’assenza totale della parola “dogma”, un concetto ormai bandito dalla chiesa da cinquant’anni. “A cosa mai serve – afferma il filosofo milanese – un’enciclica sulla fede che non denunci gli errori e le eresie oggi pullulanti nella Chiesa, che non individui e anatemizzi gli errori?” (p. 257). Per Radaelli, che svolge una critica serrata della “teologia dell’Evento”, dell’“Incontro” e dell’“Esperienza”, “il linguaggio impositivo e dogmatico dovrebbe tornare ad essere serenamente riconosciuto linguaggio primo e conduttore di ogni altro linguaggio della Chiesa” (p. 73).
Nella prefazione al volume mons. Antonio Livi, pur non condividendo alcune posizioni dell’autore, difende il suo diritto a manifestarle, così come difese gli articoli di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro sul Foglio, perché ogni cattolico è libero di far sentire la propria opinione nel campo di quelle scelte teologiche e pastorali che non riguardano il dogma, ma l’opinabile.
Siamo in una situazione in cui la Chiesa non definisce né anatemizza, ma lascia aperta la libertà di discussione. Nelle librerie, nei seminari, nelle università cattoliche furoreggiano le tesi di autori ultra-progressisti, che negano l’esistenza stessa del concetto di “ortodossia”, come avviene sull’ultimo numero della rivista Concilium. Nell’epoca della de-dogmatizzazione, perché dogmatizzare il Vaticano II? La parola oggi è alla prassi, all’esperienza vissuta, da cui dovrebbe promanare la verità. Se così è, perché non ascoltare la voce di chi propone un cristianesimo vissuto, quello della Tradizione, che non nega il primato della dottrina, che non ricrea la verità, ma che alla immutabile Verità si richiama e si uniforma?
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