di Andrea tornielli
Cari amici, qualche giorno fa avevo segnalato il caso della messa cancellata a Vetrego, piccolo paese nella diocesi di Treviso. Ricorderete che si trattava di una celebrazione pomeridiana una tantum in rito antico – stabilita dal consiglio pastorale – per festeggiare il sessantesimo di sacerdozio del parroco, che è stata cancellata su indicazione della curia vescovile.
Uno di voi mi ha segnalato un interessante passaggio dell’omelia della messa crismale celebrata dall’arcivescovo-vescovo di Treviso, padre Gianfranco Agostino Gardin, il quale, dopo aver proposto una bella meditazione sul servizio sacerdotale e sull’unità con Pietro, ha aggiunto: «Non mancano oggi coloro che, non senza qualche punta di arroganza, sembrano assai preoccupati della fedeltà della Chiesa a forme esteriori mutevoli e secondarie, perdendo clamorosamente di vista le esigenze sostanziali del vangelo».
Chi su questo blog segnalava questo passaggio, considerava l’accenno come una risposta dell’arcivescovo alle rimostranze dei fedeli di Vetrego. Non voglio crederlo, ritengo sia stata una libera interpretazione del lettore, mi sembra che il riferimento di mons. Gardin fosse più ampio.
In ogni caso, è innegabile che vi siano tradizionalisti che usano le parole come scimitarre (basta leggere certi commenti sul Web). Ed è innegabile che vi siano tradizionalisti che si divertono a vestire qualche porporato compiacente come si usava nel Rinascimento, riesumando smodate cappamagne (che il venerabile Pio XII aveva saggiamente tagliato), ermellini ormai aboliti, etc. etc. Sfilate che nulla hanno a che fare con la liturgia e molto con un estetismo esasperato, che finisce – al di là delle intenzioni – non per celebrare il Signore ma per rendere protagonisti assoluti gli uomini: lo stesso effetto, anche se da una sponda opposta, che ottengono certe celebrazioni in rito ordinario con la messa ridotta a show (l’espressione non è mia ma l’aveva usata un certo cardinale oggi assurto a un posto piuttosto importante…) dove il vero protagonista è il celebrante e la sua creatività.
Ma qui non si tratta affatto di questo. Non era questo, insomma, il caso di Vetrego. Il giorno di Pasqua La Nuova Venezia e il Corriere del Veneto, si sono occupati del caso, riportando altre parole illuminanti, questa volta del vicario generale della diocesi, monsignor Giuseppe Rizzo.
Ha scritto La Nuova Venezia: «Dal vicario generale della diocesi, monsignor Giuseppe Rizzo, è arrivato il veto. Monsignor Rizzo ha fatto sapere a don Pietro Mozzato (il parroco di Vetrego, ndr) che la diocesi non gradiva, pare per valutazioni di tipo pastorale: alla piccola comunità il vicario ha cercato di spiegare che forse non è proprio questo il modo giusto per festeggiare il parroco. Ma tra i motivi (legittimi, perché è la diocesi a impartire le direttive) pare ci sia anche la volontà di rimanere il più possibile vicini allo spirito del Concilio Vaticano». Dunque il «no» della curia sarebbe stato determinato dal voler essere fedeli al Concilio.
Sul Corriere Veneto, invece, era riportata una dichiarazione dello stesso monsignor Rizzo: «Bisogna farsi semplicemente una domanda: è questo il miglior modo per festeggiare i 60 anni di sacerdozio di don Pietro? Con una messa in latino? Come diocesi non abbiamo posto veti, abbiamo dato un’indicazione dicendo che ci pareva fuori luogo. E comunque mi pare una polemica pretestuosa in pieno periodo pasquale. Se si protrarrà, la diocesi non esiterà a rispondere».
Dunque la curia non avrebbe posto veti alla messa more antiquo: l’ha solo sconsigliata ma deve averlo fatto vivamente e con argomenti piuttosto convincenti. Anche se quei fedeli laici che invano hanno scritto per conoscere queste motivazioni, non hanno ricevuto una risposta.
Vi ho riferito le parole dell’arcivescovo, come quelle del suo vicario generale senza permettermi di aggiungere alcun commento. Mi limiterò soltanto a riportare, come promemoria finale, le parole di qualcun altro, che spero non possa venire iscrittro tra coloro che sono preoccupati di essere fedeli a forme mutevoli e secondarie (a questo proposito, poi, potrebbe essere interessante discutere su ciò che è mutevole e secondario: ad esempio certi titoli ecclesiastici, come quello di arci-vescovo, è mutevole e secondario? Il numero delle nappe sugli stemmi è mutevole e secondario? La croce patriarcale a due braccia sullo stemma è elemento mutevole e secondario? Parrebbe di sì, a leggere il Vangelo, dove non ci sono né arci-vescovi né stemmi, e neppure cardinali… Ma ciò non significa ovviamente che allora vi si debba per forza rinunciare, l’importante, credo, è non scambiare la forma per la sostanza).
Vorrei chiarire il mio pensiero, a scanso di equivoci: il vescovo, che è il pastore e il padre, fa bene a denunciare l’atteggiamento di chi scambia la forma per la sostanza, a correggere i suoi fedeli, anche e soprattutto quelli arroganti: sono certo che saprà comunque accoglierli, ascoltarne le ragioni e offrire loro le sue. Lui, che è il garante dell’unità della Chiesa che è in Treviso, nella comunione con Pietro, convocherà certamente questi fedeli, per spiegare loro, con pazienza e carità, perché in questo caso non abbia acconsentito all’applicazione del motu proprio di Benedetto XVI. E chiarirà, ne sono certo, a quali condizioni sarà possibile in futuro celebrare la messa antica nella sua diocesi.
Dalla Lettera di Benedetto XVI ai vescovi in occasione della pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007):
«Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso».
«Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto».
«Se dovesse nascere qualche problema che il parroco non possa risolvere, l’Ordinario locale potrà sempre intervenire, in piena armonia, però, con quanto stabilito dalle nuove norme del Motu Proprio».
Il motu proprio, pubblicato lo stesso giorno da Benedetto XVI, stabilisce che:
«Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (legge della preghiera) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (legge della fede) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa».
«Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l’unita’ di tutta la Chiesa».
«Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi».
«Se un gruppo di fedeli laici fra quelli di cui all’art. 5 § 1 non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non vuole provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia Ecclesia Dei».
Uno di voi mi ha segnalato un interessante passaggio dell’omelia della messa crismale celebrata dall’arcivescovo-vescovo di Treviso, padre Gianfranco Agostino Gardin, il quale, dopo aver proposto una bella meditazione sul servizio sacerdotale e sull’unità con Pietro, ha aggiunto: «Non mancano oggi coloro che, non senza qualche punta di arroganza, sembrano assai preoccupati della fedeltà della Chiesa a forme esteriori mutevoli e secondarie, perdendo clamorosamente di vista le esigenze sostanziali del vangelo».
Chi su questo blog segnalava questo passaggio, considerava l’accenno come una risposta dell’arcivescovo alle rimostranze dei fedeli di Vetrego. Non voglio crederlo, ritengo sia stata una libera interpretazione del lettore, mi sembra che il riferimento di mons. Gardin fosse più ampio.
In ogni caso, è innegabile che vi siano tradizionalisti che usano le parole come scimitarre (basta leggere certi commenti sul Web). Ed è innegabile che vi siano tradizionalisti che si divertono a vestire qualche porporato compiacente come si usava nel Rinascimento, riesumando smodate cappamagne (che il venerabile Pio XII aveva saggiamente tagliato), ermellini ormai aboliti, etc. etc. Sfilate che nulla hanno a che fare con la liturgia e molto con un estetismo esasperato, che finisce – al di là delle intenzioni – non per celebrare il Signore ma per rendere protagonisti assoluti gli uomini: lo stesso effetto, anche se da una sponda opposta, che ottengono certe celebrazioni in rito ordinario con la messa ridotta a show (l’espressione non è mia ma l’aveva usata un certo cardinale oggi assurto a un posto piuttosto importante…) dove il vero protagonista è il celebrante e la sua creatività.
Ma qui non si tratta affatto di questo. Non era questo, insomma, il caso di Vetrego. Il giorno di Pasqua La Nuova Venezia e il Corriere del Veneto, si sono occupati del caso, riportando altre parole illuminanti, questa volta del vicario generale della diocesi, monsignor Giuseppe Rizzo.
Ha scritto La Nuova Venezia: «Dal vicario generale della diocesi, monsignor Giuseppe Rizzo, è arrivato il veto. Monsignor Rizzo ha fatto sapere a don Pietro Mozzato (il parroco di Vetrego, ndr) che la diocesi non gradiva, pare per valutazioni di tipo pastorale: alla piccola comunità il vicario ha cercato di spiegare che forse non è proprio questo il modo giusto per festeggiare il parroco. Ma tra i motivi (legittimi, perché è la diocesi a impartire le direttive) pare ci sia anche la volontà di rimanere il più possibile vicini allo spirito del Concilio Vaticano». Dunque il «no» della curia sarebbe stato determinato dal voler essere fedeli al Concilio.
Sul Corriere Veneto, invece, era riportata una dichiarazione dello stesso monsignor Rizzo: «Bisogna farsi semplicemente una domanda: è questo il miglior modo per festeggiare i 60 anni di sacerdozio di don Pietro? Con una messa in latino? Come diocesi non abbiamo posto veti, abbiamo dato un’indicazione dicendo che ci pareva fuori luogo. E comunque mi pare una polemica pretestuosa in pieno periodo pasquale. Se si protrarrà, la diocesi non esiterà a rispondere».
Dunque la curia non avrebbe posto veti alla messa more antiquo: l’ha solo sconsigliata ma deve averlo fatto vivamente e con argomenti piuttosto convincenti. Anche se quei fedeli laici che invano hanno scritto per conoscere queste motivazioni, non hanno ricevuto una risposta.
Vi ho riferito le parole dell’arcivescovo, come quelle del suo vicario generale senza permettermi di aggiungere alcun commento. Mi limiterò soltanto a riportare, come promemoria finale, le parole di qualcun altro, che spero non possa venire iscrittro tra coloro che sono preoccupati di essere fedeli a forme mutevoli e secondarie (a questo proposito, poi, potrebbe essere interessante discutere su ciò che è mutevole e secondario: ad esempio certi titoli ecclesiastici, come quello di arci-vescovo, è mutevole e secondario? Il numero delle nappe sugli stemmi è mutevole e secondario? La croce patriarcale a due braccia sullo stemma è elemento mutevole e secondario? Parrebbe di sì, a leggere il Vangelo, dove non ci sono né arci-vescovi né stemmi, e neppure cardinali… Ma ciò non significa ovviamente che allora vi si debba per forza rinunciare, l’importante, credo, è non scambiare la forma per la sostanza).
Vorrei chiarire il mio pensiero, a scanso di equivoci: il vescovo, che è il pastore e il padre, fa bene a denunciare l’atteggiamento di chi scambia la forma per la sostanza, a correggere i suoi fedeli, anche e soprattutto quelli arroganti: sono certo che saprà comunque accoglierli, ascoltarne le ragioni e offrire loro le sue. Lui, che è il garante dell’unità della Chiesa che è in Treviso, nella comunione con Pietro, convocherà certamente questi fedeli, per spiegare loro, con pazienza e carità, perché in questo caso non abbia acconsentito all’applicazione del motu proprio di Benedetto XVI. E chiarirà, ne sono certo, a quali condizioni sarà possibile in futuro celebrare la messa antica nella sua diocesi.
Dalla Lettera di Benedetto XVI ai vescovi in occasione della pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007):
«Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso».
«Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto».
«Se dovesse nascere qualche problema che il parroco non possa risolvere, l’Ordinario locale potrà sempre intervenire, in piena armonia, però, con quanto stabilito dalle nuove norme del Motu Proprio».
Il motu proprio, pubblicato lo stesso giorno da Benedetto XVI, stabilisce che:
«Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (legge della preghiera) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (legge della fede) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa».
«Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l’unita’ di tutta la Chiesa».
«Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi».
«Se un gruppo di fedeli laici fra quelli di cui all’art. 5 § 1 non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non vuole provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia Ecclesia Dei».
fonte www.andreatornielli.it
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