di Sante Babolin - Nella celebrazione eucaristica, sovente si richiede una pausa di silenzio: dopo il saluto, prima dell’atto penitenziale e di proclamare le orazioni, dopo l’omelia e la comunione.
Poi, caso singolare, il silenzio apre la liturgia del Venerdì santo: “il sacerdote e i sacri ministri si recano all’altare e, fatta la riverenza, si prostrano a terra o s’inginocchiano: tutti in silenzio pregano per breve tempo“.
Nelle regole monastiche il silenzio è considerato “grande cerimonia” e quindi più espressivo della parola. Nella preghiera, il tema del silenzio raccoglie altri temi importanti: esame di coscienza, meditazione, adorazione. Ci viene spontaneo allora domandarci: quando il silenzio è “grande cerimonia” dentro l’Eucaristia? quando funziona come pausa nell’esecuzione d’una “musica corale” come potrebbe essere considerata un’azione liturgica? quando esprime adorazione?
Simbolica del silenzio
Considerato come azione simbolica, il silenzio assume un significato positivo o negativo, nel senso che la bocca resta chiusa, o perché si prepara ad aprirsi o perché non vuole aprirsi: il silenzio è preludio alla parola e alla rivelazione, il mutismo è chiusura alla comunicazione e alla rivelazione per rifiuto di riceverla o di trasmetterla o per punizione di averla offuscata nella confusione dei gesti e delle passioni; il silenzio è preparazione al dono, il mutismo è rifiuto del dono (toglie la parola per togliere l’amore).
Il silenzio racchiude grandi avvenimenti, il mutismo li occulta; l’uno dà alle cose grandezza e maestà, l’altro le deprezza e le degrada; l’uno segna un progresso, l’altro un regresso. Nel rito eucaristico il silenzio richiesto deve compiersi con significato positivo e non come mutismo: secondo la sacra Scrittura, vi fu silenzio prima della creazione e vi sarà silenzio alla fine dei tempi; nel momento presente siamo invitati a “fare silenzio” di fronte alla maestà di Dio, coltivando l’adorazione nel cuore: “Il Signore risiede nel suo tempio santo; taccia davanti a lui tutta la terra” (Ab 2, 20).
Dio si rivela all’anima che fa regnare il silenzio dentro di sé, ma rende muto e insensibile chi si perde in chiacchiere (rumore e confusione), proprio come l’Agnello dell’Apocalisse che, prima di aprire il settimo e ultimo sigillo, attende che si faccia silenzio (Ap 8, 1). Inoltre, sempre seguendo alcuni testi della sacra Scrittura, scopriamo che il silenzio viene spesso espresso con il termine greco esichía, pure usato per esprimere tranquillità, calma, mitezza e pace.
Paolo raccomanda a Timoteo “di far pregare per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità” (1Tm 2, 2); e Pietro, sullo stesso tono, invita i cristiani “a cercare ciò che è prezioso davanti a Dio e cioè ad ornare l’interno del cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace” (1Pt 3, 4).
Dobbiamo allora riconoscere che il significato del gesto di “tenere la bocca chiusa”, per un processo di naturale isomorfismo, si dilata fino a congiungere altri significati simili: quiete, calma, pace, pazienza e mitezza: atteggiamenti che convergono nello stato d’animo più profondo del dominio di sé: si fa silenzio per diventare “signori di se stessi”.
D’altra parte, per “possederci” ed entrare nel silenzio abbiamo pure bisogno di sentirci bene nella nostra pelle, di ascoltarci nel profondo senza giudicarci e mantenendo un costante atteggiamento di umiltà di fronte alla maestà di Dio e di abbandono al suo amore di Padre: “io non giudico me stesso, confessa Paolo ai cristiani di Corinto, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato; mio giudice è il Signore” (1Cor 4, 3-4).
Il silenzio, richiesto nei momenti richiamati sopra, sembra sia un nongesto, mentre realizza una vera e propria esichìa eucaristica; su questo tracciato si potrebbe sviluppare una felice riflessione sulla dimensione eucaristica dell’esicasmo. Soltanto qualche pennellata.
Esicasmo di luce e d’amore
Dopo la consacrazione, la rubrica liturgica suggerisce che, quando il sacerdote presenta al popolo i santi Doni, tutti fissino lo sguardo sull’Ostia consacrata e sul Calice e adorino il Corpo e il Sangue di Cristo. Qui il silenzio, che chiude la bocca, apre gli occhi per farci contemplare (theoréin) i segni sacramentali dell’amore sconvolgente di Dio, del suo manikòs eros (espressione tanto cara a S. Massimo il Confessore), come ai piedi della Croce sul calvario, quando “tutte le folle che erano accorse a quello spettacolo (theoria), ripensando (theorésantes) a quanto era accaduto, se ne tornavano percotendosi il petto” (Lc 23, 48).
Il silenzio eucaristico è quindi accoglienza pura, è farsi terra “informe e deserta”: è quindi la “grande celebrazione” del Venerdì santo (passione e morte del Signore) che fissa il significato spirituale del silenzio eucaristico e ci indica come possiamo diventare “silenzio – esichìa”, piena e incondizionata disponibilità alla volontà salvifica del Padre: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9, 23-24).
Il silenzio richiesto dopo la comunione assume altro significato complementare: è l’amore sponsale per Gesù, è cedere alla sua divina seduzione per essere con lui una cosa sola. È l’ardente desiderio che Gesù espresse nella preghiera al Padre, a voce alta perché i suoi discepoli sapessero quanto era grande e sincero questo desiderio di essere uno con loro: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me, perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me eio in te, siano anch’essi in noi una cosa sola: io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità” (Gv 17, 20-21. 23). Qui entra in azione tutta la spiritualità del Cantico dei Cantici: “Somiglia il mio diletto a un capriolo o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro, guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate” (Ct 2, 9).
Anche il cristiano, che ama profondamente il suo Signore e trova in lui tutta la gioia della vita, spia continuamente l’amico dell’anima per scoprire quello che gli piace. È da questa operazione d’amore che prende forma ogni tentativo d’imitare Cristo: è l”amore che stimola ogni cammino di santità.
Gli spazi di silenzio, vissuti con consapevole profondità nell’Eucaristica, possono favorire anche una “cultura del silenzio”, una specie di esicasmo moderno, che sarebbe salutare innanzitutto nella vita personale e nelle relazioni sociali, in cui troppo spesso dominano l’agitazione e la superficialità: coltivare il silenzio significa esercitarci nell’attenzione per l’altro, esaminarci per capirci di più e non chiuderci nel nostro narcisismo, riflettere sulle nostre scelte e prevederne le conseguenze, così da fuggire da una irresponsabile spontaneità che talvolta può costarci cara. invece nella vita di fede coltivare il silenzio significa “vivere tutto alla presenza di Dio”, puntando a diventare quei veri adoratori in spirito e verità che il Padre sta cercando.
Alla Samaritana che chiedeva a Gesù dove si deve adorare Dio, Gesù rispose: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre, poiché i veri adoratori lo adoreranno in spirito e verità; e il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4, 21.23-24).
Concludendo, anche le pause di silenzio nel rito eucaristico sono gesti importanti, che vanno eseguiti veramente (almeno per alcuni secondi e, talvolta, per qualche minuto), con convinzione ed interiorità; posti così, cominciano a dire la loro parola che può illuminare la mente e riscaldare il cuore, favorendo un rapporto più intimo con Dio e più vero con i fratelli.
tratto da “La Vita in Cristo e nella Chiesa” mensile di formazione e informazione liturgica fondato dal venerabile Giacomo Alberione nel 1951 Editrice Provincia italiana Pie Discepole del Divin Maestro.
fonte: www.rinascimentosacro.org
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