mercoledì 11 maggio 2011

Ancora sul Concilio





Introvigne replica a de Mattei. E il professor Rhonheimer torna a spiegare come e perché il Vaticano II va capito e accettato. Nel modo indicato dal papa.




VATICANO II. NON SEMPLICE CONTINUITÀ, MA "RIFORMA NELLA CONTINUITÀ"


di Massimo Introvigne


Ho letto con interesse quanto scrive Roberto de Mattei a proposito delle critiche mie e di monsignor Agostino Marchetto al suo libro "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta". Mi dispiace che, "ab ira motus", de Mattei cada in una serie evidente di equivoci e di errori.


1. Parto da un errore estraneo alla materia del contendere, ma che mostra la fretta con cui è stato composto il pezzo. Io non sono "rappresentante del governo italiano presso l'OSCE", l'Italia avendo un efficientissimo ambasciatore presso l'OSCE a Vienna e non avendo bisogno di altri rappresentanti. Sono invece rappresentante dell'OSCE – cioè dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa in quanto istituzione e nel suo insieme – per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni. La differenza non è di poco conto, anche se non c'entra con il Concilio.


2. Trascuro l'accusa di non frequentare le biblioteche dove si trovano gli atti e i testi sul Concilio – credo di averne citati un buon numero in opere mie che de Mattei conosce e cita – perché neppure questa è direttamente rilevante. Chi legge il libro di de Mattei si rende conto infatti che contiene tre cose diverse: una ricostruzione storica, considerazioni sociologiche e – proprio mentre ripete di non essere un teologo – valutazioni che è difficile non chiamare teologiche, e che interessano a ogni fedele cattolico desideroso di seguire il Magistero. Molte di queste valutazioni teologiche non sono peraltro originali di de Mattei ma desunte dalle opere di mons. Brunero Gherardini.


3. Dal punto di vista storico, nelle diverse critiche del suo libro che ho pubblicato mi sono limitato a osservare che de Mattei dà più rilievo agli interventi nell'aula conciliare che ai lavori delle commissioni. Ho ritrovato questa critica in altre recensioni del suo libro. Non sono, è vero, uno storico e non è questa la mia critica principale, ma constato che ci sono storici che, indipendentemente da me, la formulano anche loro negli stessi termini. Un esempio illustra i problemi di questo metodo, e non è scelto a caso perché riguarda uno dei testi conciliari che de Mattei considera più difficilmente compatibili con il Magistero precedente, la Dichiarazione sulla libertà religiosa "Dignitatis humanae" (1965). Sia il libro sia la congregazione per la dottrina della fede nella sua lunga e importante lettera a mons. Marcel Lefebvre "Liberté religieuse. Réponse aux 'dubia' présentés par S.E. Mgr. Lefebvre", del 9 marzo 1987 (che de Mattei non cita) ricostruiscono l’iter conciliare della "Dignitatis humanae". Mentre però de Mattei si fonda sugli interventi in aula, la congregazione cita ampiamente la "Relatio de texto praevio", la "Relatio de texto emendato" e le risposte ai "modi" della commissione conciliare competente.

È interessante notare che, scavando con pale diverse nel ricchissimo giacimento degli "Acta Synodalia" del Concilio, si arriva a risultati opposti. Mentre de Mattei da interventi di padri sia ultra-progressisti sia conservatori ricava la conclusione che la "Dignitatis humanae" proclama, in contrasto con tutto il Magistero precedente, un diritto all’errore, la congregazione per la dottrina della fede insiste sulla risposta della commissione ai secondi "modi generali", dove si legge che nella dichiarazione "da nessuna parte si afferma né è lecito affermare (si tratta di cosa evidente) che c’è un diritto di diffondere l’errore. Se poi le persone diffondono l’errore, non è l’esercizio di un diritto, ma il suo abuso" (lettera "Liberté religieuse" del 9 marzo 1987, p. 9).


4. La mia critica principale è squisitamente sociologica, terreno sul quale de Mattei mi riconosce qualche competenza e cita anche i miei lavori. Tutta l’opera di de Mattei mira a provare una tesi fondamentale, che è di natura non solo storica ma almeno "anche" sociologica: che l’evento conciliare, proprio in quanto evento globale, è un tutto che comprende – senza che sia possibile separarli – le discussioni in aula, l’azione delle lobby, la presentazione ai media durante e dopo il Concilio, le conseguenze e i documenti. Se è così, separare i documenti dall’evento e dalle conseguenze del Concilio – cioè da quel postconcilio dove ha prevalso l’ermeneutica della discontinuità e della rottura – è insieme illegittimo e impossibile. I documenti fanno parte dell’evento e fuori dell’evento perdono il loro significato.

Questo, come accennato, per l’autore è il limite del programma di un’ermeneutica della continuità attribuito a Benedetto XVI: peraltro erroneamente, perché Benedetto XVI nel famoso discorso del 2005 non ha parlato di "ermeneutica della continuità" ma di "ermeneutica della riforma nella continuità", e la differenza è tutt'altro che irrilevante. È vero che l'espressione "ermeneutica della continuità" si trova nella nota 6 dell'esortazione apostolica "Sacramentum caritatis" del 2007 e nel discorso del 12 maggio 2010 ai partecipanti al convegno teologico della congregazione del clero, che ricordo bene perché a quel convegno ero relatore, ma in entrambi i casi il contesto e il riferimento al discorso del 2005 permettono di comprendere nello stesso senso il significato della parola "continuità", che fa sempre riferimento anche a una "riforma". Per chi sostiene la (presunta) ermeneutica della continuità, scrive de Mattei, "la rimozione storica dell’evento conciliare è necessaria per separare il Concilio dal post-Concilio e isolare quest’ultimo come una patologia sviluppatasi su di un corpo sano" (p. 23). Ma questa operazione non è legittima se "il Concilio Vaticano II fu, infatti, un evento che non si concluse con la sua solenne sessione finale, ma si saldò con la sua applicazione e ricezione storica. Qualcosa accadde dopo il Concilio come conseguenza coerente di esso. In questo senso non si può dar torto ad Alberigo" (ibid.) e alla progressista "scuola di Bologna". Tutto il libro combatte quella che l’autore chiama "un'artificiale dicotomia tra i testi e l’evento" (ibid.) e cerca di "mostrare l’impossibilità di separare la dottrina dai fatti che la generano" (ibid.).

In realtà, i documenti possono sempre essere non solo distinti (questo lo ammette anche de Mattei) ma, in effetti, separati dalle discussioni che li hanno preceduti. Nessun giurista penserebbe di opporre a una legge gli interventi nell’aula del Parlamento che l’ha votata di chi si è espresso a favore o contro il suo testo. I lavori preparatori possono essere un punto di riferimento interpretativo, ma non prevalgono mai sul testo della legge. La sociologia non afferma affatto che sia impossibile la distinzione logica fra un testo e il suo contesto. Se il testo fosse assorbito e fagocitato dal contesto, il che applicando il metodo del libro potrebbe essere affermato di qualunque documento, perderebbe il suo specifico significato e ci troveremmo in una sorta di strutturalismo dove ogni affermazione è smontata e decostruita in un gioco di riferimenti perpetuo dove nulla ha più autorità. La sociologia applicata alla storia serve a spiegare i documenti. Non serve più se li fa a pezzi.

Se posso permettermi, senza malizia, un argomento "ad hominem", de Mattei – che dà molto rilievo alla questione dell’esegesi biblica – attacca come modernista l’intero metodo storico-critico, affermando ripetutamente che ultimamente non è decisivo sapere come e da chi è stato redatto il testo sacro, ma interessa il nucleo teologico e spirituale del suo insegnamento. Neanche il più "ultramontano" – un’espressione che de Mattei utilizza peraltro in senso positivo (cfr. per es. p. 229) – sostenitore del Magistero pontificio penserebbe di mettere sullo stesso piano gli insegnamenti dei pontefici o di un Concilio e la Sacra Scrittura. Tuttavia l’espressione, proprio della costituzione conciliare "Dei Verbum" (n. 10), secondo cui "la sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre", permette forse una prudente analogia. Afferma Benedetto XVI nell’esortazione apostolica "Verbum Domini", al n. 30, che "approcci al testo sacro che prescindano dalla fede", per quanto approfondiscano gli elementi storici, "possono suggerire elementi interessanti […]; tuttavia, un tale tentativo sarebbe inevitabilmente solo preliminare e strutturalmente incompiuto".

Analogamente, e sempre senza esagerare la portata dell’analogia, possiamo dire che le ricostruzioni storiche delle discussioni che precedettero l’approvazione dei documenti del Concilio "possono suggerire elementi interessanti" ma che un accostamento fondato su queste discussioni è solo "preliminare" e, se ci si ferma solo agli elementi storici, rimane "incompiuto". Una volta che il testo conciliare è stato approvato, e promulgato dal pontefice, diventa Magistero da leggere in ginocchio, come soleva dire il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), non a caso criticato dal testo per la sua acquiescenza ai papi del Concilio. Cercare di squalificare il testo magisteriale riferendosi alle discussioni precedenti alla sua approvazione significa cadere nello stesso errore metodologico che si rimprovera a quegli esegeti per cui gli elementi storici e il contesto prevalgono sul senso teologico del testo.


5. Vengo alle valutazioni teologiche di de Mattei. Né lui né io siamo teologi, ma siamo laici che c'interessiamo da anni del Magistero della Chiesa, su cui abbiamo qualche informazione che rende forse le nostre opinioni non irrilevanti. Sulla scia di mons. Gherardini, de Mattei – il quale alla fine pensa che alcuni documenti del Concilio contengano affermazioni non solo ambigue o bisognose d'interpretazione ma eterodosse, anche se non vuole dirlo troppo esplicitamente – si trincera dietro al carattere non dogmatico e non infallibile dei documenti sgraditi affermando che, se non sono infallibili, sono "fallibili" e dunque possono essere rifiutati.

De Mattei afferma che questa sarebbe la posizione dello stesso Concilio e del papa che lo concluse, il servo di Dio Paolo VI, e così sarebbe chiusa ogni discussione. Ma in verità Papa Montini non solo non ha insegnato, ma ha esplicitamente condannato la posizione secondo cui, non essendo dogmatico né avendo proposto definizioni infallibili, il Concilio potrebbe essere rifiutato. "Vi è chi si domanda – spiegava il servo di Dio Paolo VI – quale sia l’autorità, la qualificazione teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai suoi insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l’infallibilità del magistero ecclesiastico. E la risposta è nota per chi ricorda la dichiarazione conciliare del 6 marzo 1964, ripetuta il 16 novembre 1964: dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti" (Udienza generale di mercoledì 12 gennaio 1966).

Nessuno – e certamente non il sottoscritto – sostiene che tutti i documenti del Vaticano II sono infallibili. Ma il problema è se, tranne i pochi pronunciamenti infallibili, tutto il rimanente Magistero della Chiesa possa essere dichiarato "fallibile" e rifiutato, o se invece quando è "palesemente autentico" non debba, come chiede il servo di Dio Paolo VI, essere "accolto docilmente" dai fedeli.

De Mattei ora afferma che interpretare il Concilio non spetta né a lui né ai suoi critici, ma al Magistero. Sono d'accordo. Ma, per esempio, in tema di "Dignitatis humanae" il Magistero di Benedetto XVI ci ha assicurato della sua sostanziale continuità con gli insegnamenti precedenti e ci ha invitato ad accoglierne con fiducia il messaggio già nel discorso del 2005 sulle due ermeneutiche del Concilio. Lo ha ripetuto nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2011. Poi nel discorso al corpo diplomatico del 10 gennaio 2011. Poi nel messaggio alla plenaria della pontificia accademia delle scienze sociali, pubblicato il 4 maggio 2011. Quante volte deve parlare il papa perché chi dice di volerlo seguire con filiale obbedienza gli dia retta?


6. Ma, obietta de Mattei con un argomento che di nuovo non è storico ma è teologico e ha implicazioni sociologiche molto importanti, sopra al Magistero sta la Tradizione ed è doveroso seguire il Magistero del Concilio e quello dei papi postconciliari solo e nella misura in cui sono conformi alla Tradizione, il che è precisamente il nucleo degli ultimi volumi di mons. Gherardini.

Da un punto di vista che, insisto, è insieme teologico e sociologico si contrappongono qui due modelli di funzionamento dell'istituzione religiosa chiamata Chiesa cattolica. Per il primo è il Magistero a dire di volta in volta che cos'è la Tradizione e come va intesa in un dato momento storico. Per il secondo è la Tradizione che di volta in volta permette di dire se il Magistero (ordinario e non infallibile) dev'essere seguito, in quanto ribadisce l'insegnamento tradizionale, ovvero – come avverrebbe, appunto, per molti documenti del Vaticano II e del Magistero postconciliare – sovverte la Tradizione e quindi va rifiutato.

Se si esamina la questione da un punto di vista esclusivamente teorico, un elemento essenziale rischia di sfuggire. Chi parla in nome della Tradizione? Nessun fedele incontra la Tradizione che cammina per strada. Incontra persone che si auto-rappresentano come qualificate a dirgli che cos'è Tradizione e che cosa non lo è. Queste persone appartengono a due gruppi. Ci sono gli storici e i teologi, che parlano in nome di un sapere scientifico. E ci sono il papa e i vescovi, che parlano in nome di un'autorità istituzionale.

Se si passa – come sembra proporre de Mattei – da un modello nel quale è il Magistero a dire che cos'è Tradizione a un modello dove, asseritamente, è la Tradizione a dire che cos'è davvero Magistero e dev'essere seguito, apparentemente stiamo passando da un primato del Magistero a un primato della Tradizione. Ma questa è una rappresentazione ingenua della gestione dell'autorità, che ignora la sociologia con suo danno e cade in quella che i sociologi di lingua inglese, prendendo a prestito un'espressione dagli studiosi di logica, chiamano "fallacia naturalistica". In realtà stiamo passando dal primato del papa e dei vescovi al primato dei teologi e degli storici. Così, con tutte le migliori intenzioni e magari aborrendo il protestantesimo, stiamo uscendo dal modello specificamente cattolico e stiamo entrando senza accorgercene in un modello diverso, che assomiglia molto a quello protestante.

Il problema non è, ultimamente, il ruolo della Tradizione. Tutti i cattolici, o quasi, lo riconoscono. Il problema è che non esiste un manualetto normativo per tutti dal titolo "La Tradizione", dato una volta per sempre: e se ci fosse avrebbe bisogno d'interpretazione, esattamente come la Sacra Scrittura. Perché il fedele sappia che cosa deve considerare Tradizione oggi, bisogna che qualcuno glielo dica autorevolmente. Potrà trattarsi del papa e dei vescovi in comunione con lui, che è la soluzione cattolica. Oppure potrà trattarsi dei teologi, degli storici, di chi si pretende più sapiente, di chi grida di più o riesce a farsi fare pubblicità dai grandi giornali. Questa seconda risposta è diffusa, principalmente tra i progressisti, ma ci porta fuori dal modo di funzionamento tipico della Chiesa cattolica.

"Tertium non datur". La terza versione sarebbe quella secondo cui che cosa sia la Tradizione è così chiaro che anche il popolo di Dio, anche il semplice fedele è in grado di capire quando il Magistero dice qualcosa di non tradizionale. Ma questo presunto appello al "sensus fidelium" è un altro esempio di fallacia naturalistica. Il popolo si farà sempre le sue idee in materia di Tradizione sulla base di qualcuno che parla con autorità. Come ebbe a scrivere il cardinale Ratzinger nella sua autobiografia, quando si sente dire che il potere nella Chiesa deve passare dal Magistero al popolo, la verità è che qualcuno sta cercando di farlo passare dal Magistero ai teologi. Che questi teologi siano progressisti o tradizionalisti, lo schema di un radicale sovvertimento del modo cattolico di gestire l'autorità non cambia.


7. Occorre fare attenzione a non cadere in quello che, oggettivamente e senza voler processare le intenzioni di nessuno, mi sembra un inganno. Si pretende che esistano solo due modi contrapposti di leggere il Concilio: o come lo legge la "scuola di Bologna", nuovo inizio che sta in discontinuità e in rottura con il Magistero precedente, o come lo leggono de Mattei e mons. Gherardini, cioè come insieme di testi che vanno accettati solo quando riaffermano il Magistero precedente e non quando introducono elementi di novità.

Non è così. Benedetto XVI – non qualche critico malizioso di de Mattei – chiama "progressismo sbagliato" la prima posizione e "anticonciliarismo" la seconda (Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso, Auronzo di Cadore, 24 luglio 2007). Il papa non pensa che si tratti di due errori simmetrici. In effetti, è lo stesso errore. Entrambe le posizioni pensano che alcuni insegnamenti – tutt'altro che secondari – del Vaticano II siano incompatibili con il Magistero precedente: "per fortuna", secondo i progressisti, e "per disgrazia" e sciagura della Chiesa secondo gli anticonciliaristi.

La posizione di Benedetto XVI – diversa dunque, almeno in tema di libertà religiosa, anche da quella di Martin Rhonheimer – nel discorso del 22 dicembre 2005 è che la "discontinuità" con il Magistero precedente è solo "apparente", ovvero riguarda momenti di applicazione, a situazioni che mutano, di principi che non sono cambiati né potrebbero cambiare. Alla discontinuità "apparente" non si oppone una semplice e meccanica "continuità" – e per questo Benedetto XVI evita accuratamente di parlare di "ermeneutica della continuità" – ma una "riforma nella continuità", che è qualcosa di diverso. La posizione della "riforma nella continuità", di cui sono convinto sostenitore, è proprio quella che rischia di non emergere, nel chiassoso dibattito fra progressisti e anticonciliaristi.

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ANCORA SULL'"ERMENEUTICA DELLA RIFORMA". UNA PUNTUALIZZAZIONE

di Martin Rhonheimer


Alla fine della sua opportuna risposta allo storico Roberto De Mattei, Massimo Introvigne scrive "en passant" che la mia posizione sulla libertà religiosa è diversa da quella di Benedetto XVI. Il quale – fa notare Introvigne – avrebbe parlato soltanto di una “apparente” discontinuità tra l'oggi e il passato, contrariamente a ciò che io ho scritto.

Non spetta a me giudicare se la mia lettura del discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre del 2005 concorda con la mente del pontefice. Tuttavia, quello che dice Introvigne indubbiamente non concorda con il testo di quel discorso. Inoltre, mi sembra derivare da una lettura poco attenta del mio articolo "L’ermeneutica della riforma e la libertà di religione" pubblicato il 28 aprile da www.chiesa:

> Chi tradisce la tradizione. La grande disputa

In quale senso Benedetto XVI nel discorso del 22 dicembre 2005 parlava di una discontinuità solamente “apparente”? Riascoltiamolo:

“Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi".

La discontinuità solamente “apparente” di cui parla il papa si riferisce precisamente alla “intima natura” della Chiesa e alla “sua vera identità”, che sono rimaste intatte nonostante le correzioni fatte dal Vaticano II di “alcune decisioni storiche” legate al pensiero moderno.

Allo stesso tempo però – aggiunge Benedetto XVI – accanto a questa discontinuità solamente "apparente" esiste una discontinuità vera. Il papa lo afferma quando spiega che il Vaticano II si era proposto di “definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale”. E aggiunge che precisamente in questo – non circa la natura e l’identità della Chiesa, ma riguardo alla concezione dello Stato e dei rapporti fra Chiesa e Stato – “poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità”.

Per papa Benedetto, ci sono dunque nel Concilio una discontinuità vera rispetto a passate concezioni dello Stato, e nello stesso tempo una continuità anch'essa vera – nonostante le apparenze in contrario – del soggetto Chiesa. Questo perché il Vaticano II, "riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa".

Di conseguenza, la vera ermeneutica del Concilio non è una “ermeneutica della discontinuità”, che presupporrebbe rottura e nuovo inizio per la Chiesa. E non è nemmeno una mera “ermeneutica della continuità”, come anche Introvigne riconosce: perché non esiste piena armonia tra quello che insegnavano su questo punto i papi dell’Ottocento e ciò che insegna il Vaticano II.

La vera ermeneutica è proprio una “ermeneutica della riforma”. La riforma – citando sempre il papa che qui palesemente contraddice Introvigne – si contraddistingue per il fatto di essere un “insieme di continuità e discontinuità”, questo però “a livelli diversi”. I due livelli sono in questo caso, come ho tentato di spiegare nel mio articolo, da un lato il livello dei princìpi (dove c’è continuità), cioè la natura e l’identità della Chiesa, e l’unicità e la pienezza della sua verità; e dall’altro lato le applicazioni storiche di questi princìpi (dove c'è discontinuità rispetto al precedente rifiuto della libertà religiosa in quanto libertà di coscienza e di culto come diritti civili, un rifiuto che presupponeva l’idea che lo Stato fosse il braccio secolare della Chiesa e avesse il compito di far valere nella società umana la sua verità salvifica).

È dunque falso suggerire – come fa Introvigne e com’è tipico anche di altri difensori del Vaticano II contro i tradizionalisti – che Benedetto XVI non parli anche di vera discontinuità. A mio avviso, l’audacia, la sincerità pastorale e l’onestà intellettuale di papa Benedetto lo hanno portato a individuare, e al contempo a neutralizzare dogmaticamente in maniera teologicamente corretta, il punto che ai progressisti serve come pretesto per affermare una “rottura” e per i tradizionalisti costituisce invece la pietra di scandalo. Si tratta cioè di riconoscere che esiste un livello, non essenziale per l’autocomprensione della Chiesa e per la sua identità dogmatica, in cui può esserci, e di fatto c’è, una discontinuità e incompatibilità fra il magistero dei papi dell’Ottocento e quello del Vaticano II. Allo stesso tempo, però, il papa ha chiarito che non esiste ciò che sia i progressisti sia i tradizionalisti, con valutazioni opposte, affermano: una rottura in quello che per la Chiesa è costitutivo, cioè il suo dogma e la sua identità come “una, santa, cattolica ed apostolica”.

La ragione più profonda a sostegno di questa “novità nella continuità” – un’altra formula usata da Benedetto XVI – è che lo sviluppo dottrinale del Magistero della Chiesa sulla libertà religiosa, che pure è una vera svolta, non è un caso di sviluppo del dogma. Lo sviluppo del dogma cattolico deve sempre essere omogeneo e pertanto svolgersi in piena continuità, come mera esplicitazione e approfondimento di ciò che è già esistente nelle formulazioni previe; a livello del dogma, cioè, non ci può essere riforma, ma soltanto sviluppo omogeneo e quindi continuità. Tuttavia, in ciò che afferma il Concilio riguardo alla libertà religiosa non si ha uno sviluppo del dogma, perché non si tratta affatto di una questione che tocca il dogma. Qui lo sviluppo riguarda la comprensione di quello che, nel passato, si pensava appartenere al dogma, perché considerato essenziale per resistere al moderno relativismo e indifferentismo religioso; mentre in realtà non faceva parte del dogma – cioè non era necessario per garantire il rifiuto del relativismo e dell’indifferentismo religioso – e perciò poteva essere abbandonato.

Per essere precisi, si tratta di un caso di abbandono di una determinata concezione dello Stato – del potere temporale –, di una concezione che il Vaticano II ha implicitamente dichiarato appartenere al mondo del passato e, pertanto, da gettare come zavorra storica. Questa vecchia concezione dello Stato e del suo rapporto con la Chiesa non faceva parte del patrimonio del "depositum fidei". Il suo abbandono, quindi, non configura nessuna discontinuità dogmatica. Tale discontinuità dogmatica – riferente alla natura e all’identità stessa della Chiesa – è, come dice il papa, solamente “apparente”. Ciò che succede di vero, infatti, è tutt'altro: gettando la zavorra storica, risplende di nuovo in tutta la sua purezza il nucleo veramente tradizionale della dottrina della Chiesa sulla libertà religiosa, in ciò che è essenziale dal punto di vista dogmatico e in ciò che appartiene al diritto naturale; la dottrina, cioè, che in materia di religione, e sempre salve le esigenze del giusto ordine pubblico, nessun potere umano può limitare la libertà di aderire, anche pubblicamente e in forma comunitaria, alla religione che ognuno considera in coscienza quella vera, e di propagarla. È quanto chiedevano i primi cristiani, ed è ciò che Benedetto XVI afferma con chiarezza, dicendo che con la dottrina sulla libertà religiosa il Vaticano II “ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa” e si trova “in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22, 21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi.”

Desta sorpresa il fatto che autori come Massimo Introvigne, e altri, anche teologi, in nessun modo “tradizionalisti” ma che cercano di essere fedeli al magistero del Vaticano II, facciano tanta fatica ad accettare l’esistenza di quella discontinuità reale, e non soltanto apparente, esplicitamente affermata da Benedetto XVI nel suo discorso del 22 dicembre 2005. Negano ciò che essi forse temono essere uno scandalo – una certa discontinuità nel magistero ordinario della Chiesa –, perché pensano che così si possa meglio difendere l’infallibilità della Chiesa e guadagnare i tradizionalisti a un’accettazione del Vaticano II.

Penso invece che il cammino aperto da Benedetto XVI di non opporre alla “ermeneutica della discontinuità” semplicemente una “ermeneutica della continuità”, ma una più differenziata “ermeneutica della riforma”, sarà più fecondo, soprattutto perché è più sincero. Soltanto la sincerità e la fedeltà ai fatti storici possono essere anche in questo caso cammino di fecondità. Esse potrebbero anche aiutare a far vedere dove sta il vero punto debole dei “tradizionalisti”.

In verità, sul punto della libertà religiosa, i tradizionalisti non difendono tanto la natura della Chiesa e la sua identità; non difendono in fondo nemmeno il "depositum fidei" e il dogma della Chiesa; e quindi non difendono neanche realmente la Tradizione. Quello che i tradizionalisti in realtà qui difendono è una determinata concezione dell’ordine temporale, dello Stato e del suo rapporto con la Chiesa; un modello cioè di Stato confessionale del passato, tipico peraltro anche di tanti Stati protestanti dell’epoca moderna (e in questo senso, al contempo “tradizionale” e moderno), ma, come il Vaticano II ha mostrato, non appartenente né esplicitamente né implicitamente al patrimonio del "depositum fidei", e perciò neanche alla Tradizione in quanto dogmaticamente normativa.

Sono convinto che comprendere tali distinzioni aiuterà il “tradizionalista” che realmente cerca di essere fedele alla Chiesa cattolica e alla verità da essa tramandata a capire che con l’accettazione della dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa né la Chiesa né queste verità sono tradite, ma che – come insiste Benedetto XVI – la “Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi”.

Per quanto riguarda Massimo Introvigne, penso – e spero – che dopo aver letto questa puntualizzazione si renda conto che è più d’accordo con me di quanto all’inizio pensasse, e che il suo disaccordo era, in fondo, soltanto dovuto a una lettura troppo sbrigativa di ciò che io avevo scritto.

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fonte:
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347864

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