martedì 17 maggio 2011

La struttura della celebrazione liturgica (III)


articolo del Cardinal Joseph Ratzinger
tratto da: "Communio", n.41, 1978


II. La corrispondenza soggettiva alla natura oggettiva della liturgia


Siamo così arrivati alla seconda parte delle nostre riflessioni. Abbiamo prima di tutto cercato di individuare la struttura fondamentale della liturgia e la abbiamo descritta precipuamente con il concetto di festa che poi, dal punto di vista del contenuto, è stata caratterizzata come festa della resurrezione del Signore.

Da qui era risultato per noi il primato dell'adorazione e il carattere oggettivo dell'autorizzazione alla gioia che ci si è manifestato nel legame alla chiesa universale e alla sua storia come pure alla sua forma precostituita come spazio della libertà e della comunione.

Così siamo passati senza soluzione di continuità dalla ricerca della struttura oggettiva a quella della posizione del singolo e della comunità nella celebrazione liturgica, posizione che ora deve essere ulteriormente approfondita.

Come è noto a tutti il concilio Vaticano II ha descritto questo aspetto con il concetto di Participatio actuosa. Dato che io ultimamente mi sono più volte pronunciato a questo riguardo, posso qui limitarmi a delle allusioni (5).

Conformemente alle dimensioni dell'essere umano il concetto di «partecipazione» come quello di «essere attivo» deve essere illustrato dalle diverse prospettive del singolo e della comunità, dell'interiorità e dell'espressione. Perché ci sia comunità è necessaria l'espressione comunitaria; ma affinché l'espressione non resti esteriorità è necessaria una interiorizzazione comunitaria, una via comunitaria verso l'interno (e l'alto).

Dove l'uomo entra in gioco solo nella dimensione dell'espressione, solo come «ruolo» e in ruoli, ha origine una comunità fatta solo di giochi che si dissolve nuovamente col gioco e con i suoi ruoli. Il senso di isolamento, della solitudine connaturata dell'uomo e l'incomunicabilità tra i diversi io J. P. Sartre, S. de Beauvoir e A. Camus hanno descritto in rappresentanza di un'intera generazione e il senso di rivolta contro l'umanità di cui noi oggi facciamo esperienza sono ampiamente riscontrabili sul fondo di questa prassi. Questo sentimento si basa sull'esperienza che la via verso l'interiorità porta alla chiusura dei diversi io e che la via verso l'esteriorità nasconde solamente questa abissale impossibilità di un rapporto reciproco.

Ma proprio a questa domanda può e deve rispondere la liturgia cristiana. Essa non lo fa quando si esaurisce nell'attività esteriore. La sua possibilità unica e specifica consiste nel fatto che con l'interiorizzazione nella parola liturgica e nella realtà liturgica - la presenza del Signore - essa rompe gli io separati e li fa comunicare dall'interno in colui che con la sua dedizione sulla croce ha comunicato se stesso a tutti noi. Dove avviene l'interiorizzazione comunitaria sotto la guida delle preghiere comuni della chiesa e dell'esperienza del corpo di Cristo in esse presente, lì è possibile e vera un'espressione comunitaria; lì si incontrano gli uomini non più solo in ruoli, ma si toccano reciprocamente nell'essere e solo così avviene «comunità».

Per questo motivo ritengo infelice l'espressione del «libro dei ruoli» liturgico. Certo il libro di preghiera liturgico permette anche l’inserimento nella espressione liturgica comunitaria ed ha in questo senso anche qualcosa del «libro dei ruoli». Ma tale libro svolge il suo vero compito solo se nella preghiera spoglia l'uomo dei suoi ruoli, lo pone personalmente, svelatamente davanti al suo Dio e in tale modo libera in lui lo spazio in cui solamente noi possiamo veramente comunicare.

Anche la preghiera comunitaria, liturgica deve mirare a che si preghi veramente, cioè che noi non ci parliamo l’un l'altro, reciprocamente, ma parliamo invece a Dio e davanti a Dio; in questo caso ci parliamo anche reciprocamente nel modo migliore e più profondo.

Questo significa che nel campo della partecipazione liturgica che nella sua dimensione più profonda dovrebbe essere participatio Dei, partecipazione a Dio e quindi alla vita, alla libertà, l'interiorizzazione ha la precedenza.

Questo significa ancora che questa partecipazione non si può esaurire nel momento dello svolgimento liturgico; che la liturgia non può essere addossata all'uomo dall'esterno come un happening ma ha bisogno di educazione e di pratica liturgiche.

Purtroppo tutto il grandioso lavoro che uomini come Romano Guardini e Pius Parsch hanno svolto a questo riguardo è stato cestinato con i nuovi libri come cartaccia; invece noi non avremmo niente di più necessario oggi che il rinnovamento e la continuazione del tipo di ricerche che sono state svolte a suo tempo soprattutto da Pius Parsch.

Invece di presentare sempre nuovi progetti di strutture liturgiche, la liturgia dovrebbe nuovamente ritornare al suo compito originario di servire all'educazione liturgica, cioè ad aiutare a sviluppare la capacità di appropriazione interiore della liturgia comunitaria della chiesa. Solo così può essere reso superfluo il profluvio di spiegazioni che distrugge la liturgia e che poi non spiega nulla.

Siamo così giunti dalla questione del rapporto tra il singolo e la comunità alla questione sulle forme espressive della liturgia senza alcuna forzatura. La teologia della creazione e quella della resurrezione (che include e rende definitiva l'incarnazione) richiedono con forza cogente la corporeizzazione della preghiera, l'inglobamento di tutte le dimensioni delle espressioni corporee: la spiritualizzazione del corpo e la corporeizzazione dello spirito si esigono reciprocamente; solo quando ciò avviene si avrà l'«umanizzazione» dell'uomo e del mondo, umanizzazione che consiste proprio nel fatto che la materia viene portata alle sue possibilità spirituali e lo spirito viene espresso nella pienezza della creazione.

A partire da qui deve essere criticato l'unilaterale predominio della parola che purtroppo sembra essere in parte accolto anche dai libri liturgici ufficiali. A questo proposito bisognerebbe con insistenza richiamare alla memoria il piccolo, bel libro di Romano Guardini sui santi segni. Alla liturgia appartiene la parola e il silenzio; il canto, la lode degli strumenti e l'immagine; i simboli e il gesto rispondente alla parola.

Io vorrei qui brevemente soffermarmi solo su due degli elementi indicati. Il silenzio come comune viaggio verso l'interno, come interiorizzazione di parola e segno, come liberazione dai ruoli che nascondono il proprio di una persona è indispensabile, dopo quanto detto, per una vera actuosa participatio.

Esso crea il modo, lo spazio in cui l'uomo fa proprio il duraturo: la tensione liturgica non può consistere nel «cambiamento» come ha giustamente notato B. Kleinheyer (6), ma nel fatto che viene offerta la possibilità di incontrare ciò che è veramente grande ed increato che non ha bisogno di cambio perché in grado di soddisfare: la verità e l'amore.

Con il ruolo dunque che ha il silenzio non sono adeguati i pochi secondi tra l'oremus e la preghiera che, oltretutto, spesso suonano molto artificiali. Altri spazi di silenzio si dovrebbero avere durante la preparazione dei doni e prima e dopo della comunione; purtroppo il primo contro la volontà del messale viene rispettato molto di rado.

Benché si contrapponga alle teorie predominanti io vorrei aggiungere che anche l'intero canone non deve essere necessariamente sempre recitato ad alta voce. Affermare questo significa misconoscere il suo carattere di annuncio. Dove in una comunità è avvenuta la richiesta educazione liturgica, necessaria per la natura della celebrazione, i fedeli sanno su quali elementi fondamentali è costruito il canone della chiesa. In tal caso basta per esempio proclamare ad alta voce le prime parole delle singole parti della preghiera, quasi come parole chiave.

La partecipazione dei fedeli e quindi anche il successo dell'annuncio saranno in questo modo spesso superiori di quando l'ininterrotta proclamazione ad alta voce soffoca l'esigenza interiore delle parole. La moltiplicazione delle anafore cui purtroppo si è arrivato in altri paesi e che da noi è cominciata già da lungo tempo è espressione di una situazione estremamente dubbia, tanto più che la qualità e l'adeguatezza teologica sono in parte ai limiti del sopportabile.

Tali erosioni sono un sintomo che la continua recita a voce alta del canone
strappa formalmente il grido al cambiamento che però non può essere soddisfatto neppure da un sì gran numero di anafore. La soluzione non può venire che dall' accettazione della tensione insita nella realtà; anche il cambiamento è alla distanza noioso. Perciò è particolarmente urgente a questo punto l'educazione all'interiorizzazione, l'accostamento al nucleo essenziale, anzi ne va della sopravvivenza della liturgia in quanto tale.

Solo il coraggio di riapprendere nel silenzio la parola può salvare dall'accumularsi delle parole che in fondo induce a parlare proprio lì dove si dovrebbe incontrare la «Parola» - il Logos - che in quanto parola dell'amore crocifisso e risorto è autorizzazione alla vita e alla gioia.

La mia seconda annotazione si riferisce al significato dei gesti. Lo stare in piedi, l'inginocchiarsi, lo star seduti; l'inchinarsi e il sollevarsi, il battersi il petto, il segno della croce; tutto questo ha un imprescindibile significato antropologico come autodimostrazione dello spirito nel corpo. J. Pieper ha espresso con molta forza il fatto che l'interno e l'esteriore stanno in un mutuo rapporto particolarmente importante per ambedue (7).

Io vorrei concludere con un accenno al gesto centrale dell'adorazione che oggi rischia sempre più di sparire: l'inginocchiarsi (8). Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22,41), che Stefano (At 7,60), Pietro (At 9,40) e Paolo (At 20,36) hanno pregato in ginocchio. L'inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2,6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45,23) sulla signoria sul mondo del Dio d'Israele.

Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la chiesa compie la verità; essa si inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte del vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell'atteggiamento di colui che «era uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso fino alla morte». La Lettera ai Filippesi, fondendo la parola profetica dell'Antico Testamento con la vita di Gesù Cristo, ha conferito al gesto dello stare in ginocchio, che essa presuppone come atteggiamento dei cristiani di fronte al nome di Gesù, una profondità cosmica e storico-salvifica in cui il gesto corporale diviene una confessione del Cristo non sostituibile da parole.

Così a conclusione è ritornata la parola che ci riconduce all’inizio: la liturgia cristiana è liturgia cosmica, così ci dice san Paolo nella Lettera ai Filippesi. Essa non può lasciarsi deviare da questa grandezza neppure dall'attrattiva dei piccoli gruppi e dell'autoinvenzione. Quel che vi è di esaltante in essa è che fa uscire dalla piccineria e ci fa partecipare alla verità. Mettere in luce questa sua grandezza liberante deve essere il vero compito di ogni rinnovamento liturgico.




Cfr. anche L. Bouyer, Eucharistie. Theologie et spiritualité de la prière eucharistique, Joumai 1966.
5) Cfr. ancora il libro citato alla nota 2 come pure J. Ratzinger, «Liturgie wandelbar oder unwandelbar?», in Communio (ed. tedesca), 6 (1977), 417-427.
6) B. Kleinheyer, Erneverung des Hochgebetes, Regensburg 1969, p. 24.
7) P. Pieper, Das Gedächtnis des Leibes. Von der erinnernden Kraft des Geschichtlich-Konkreten in W. Seidel (a cura di), Kirche aus lebendigen Steinen,Magonza 1975, 68-83
8) Da quanto detto dovrebbe essere ormai chiaro che anche l'attaccamento ad una forma dello sviluppo liturgico superata da tutta la chiesa significa fuga in un circolo ristretto e, in quanto decisione di porsi al di fuori del comune, scelta per l'autoinvenzione. Molto diversa invece è la questione se - come nella riforma del 1570 - non debba essere concessa generosamente la possibilità di usare ancora, in determinate condizioni, il vecchio messale. Ancora diversa da questa è la questione autocritica secondo cui i nuovi libri liturgici sono più deboli dei vecchi per cui si deve mirare ad una integrazione dell'antica eredità. Soprattutto però deve essere chiaro che la vera contrapposizione non sta tra i libri vecchi e nuovi ma tra la liturgia dell'intera chiesa e quella autoinventata. Il più grave impedimento per una appropriazione pacifica della rinnovata forma liturgica consiste nell'impressione che la liturgia sia ora abbandonata alla propria invenzione.

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