lunedì 16 maggio 2011
La struttura della celebrazione liturgica (II)
articolo del Cardinal Joseph Ratzinger
tratto da: "Communio", n.41, 1978
I. La natura della celebrazione liturgica
Il fatto che simili concezioni, sviluppate nelle loro logiche conseguenze, porterebbero ad abolire la liturgia, cioè la celebrazione pubblica comunitaria della chiesa, non deve farci dimenticare che nel loro punto di partenza vi è un fondamentale elemento giusto a partire dal quale dovrebbe essere possibile un dialogo sulla struttura fondamentale della liturgia. Questo elemento sta nella concezione della liturgia come celebrazione; più chiaramente dobbiamo dire: la liturgia ha per sua natura il carattere di festa (2).
Se possiamo far valere questo come dato previo comune, possiamo ora cominciare la disputa su che cosa fa sì che una festa sia appunto festa. La concezione descritta vede evidentemente realizzata la festa in un'esperienza concreta, comunitaria di un gruppo cresciuto e sviluppatosi in «comunità». Essa inoltre considera come premessa e contenuto di una tale autoesperienza della comunità la spontaneità e la libera espressione, cioè la liberazione dalle rigide regole quotidiane e la raffigurazione creatrice che contemporaneamente rende manifesto che cosa sostiene la comunità in quanto comunità. La liturgia è allora in questo caso «gioco» con ruoli ben definiti in cui tutti prendono parte al gioco e rendono così possibile la «festa». Anche in questa concezione io vedo qualcosa di giusto e cioè il pensiero che all'essenza della
festa appartiene la libertà come liberazione dalle costrizioni del quotidiano e che perciò la festa fonda la comunità.
Ma una tale liberazione, tuttavia, per poter veramente essere tale deve significare precisamente una uscita dalle «costrizioni dei ruoli», un deporre i ruoli per far emergere il proprio di una persona. Deve causare il salto dal «ruolo» all'essere. Altrimenti tutto resta un gioco, apparenza più o meno bella che ci mantiene perciò nel mondo delle apparenze e non ci dà libertà e comunità, anzi le nasconde.
Considerato questo, è valso in tutte le culture il principio che la festa presuppone un'autorizzazione che i partecipanti alla festa non possono darsi da se stessi. Non si può decidere di celebrare una festa, essa ha invece bisogno di un fondamento e per di più oggettivo che è anteriore ai propri desideri. In altri termini: io posso rappresentare la libertà quando io sono effettivamente libero; altrimenti la rappresentazione della libertà diventa una tragica autoillusione. Io posso rappresentare la gioia solo quando il mondo e l'umanità danno veramente motivo di rallegrarsi. Ma lo fanno essi veramente?
Quando queste domande vengono messe da parte il party - il tentativo del mondo postreligioso di ritrovare la festa - diviene rapidamente una tragica mascherata. Perciò non è un caso che il party ogni qual volta delle persone hanno cercato in esso la «redenzione», cioè l'esperienza della liberazione dall'autoalienazione, dalla costrizione del quotidiano e l'esperienza di una comunione che oltrepassi l’io, ha subito oltrepassato i limiti dell'intrattenimento borghese per degenerare in baccanale. La droga che non viene presa isolatamente bensì deve essere celebrata insieme (3) deve operare il viaggio nel totalmente altro, viaggio che solo viene sperimentato come fuga liberante dal quotidiano nel mondo della libertà e della bellezza.
Sullo sfondo c'è la domanda per eccellenza, la domanda sulle potenze del dolore e della morte cui nessuna libertà può opporsi. Chi non si pone queste domande si muove in un mondo di finzioni la cui miseria artificiale non può essere superata neppure da patetiche declamazioni sul dolore dei popoli oppressi, declamazioni che non per caso appartengono al nucleo comune di quasi tutte queste liturgie autoinventate.
Detto con altre parole: dove la festa vien fatta coincidere con interazioni comunitarie e la libertà viene scambiata con la «creatività» di trovate artefatte, l'umanità è ridotta ad una fiammata e, per quanto belle possano sembrare le parole, la vera domanda è evitata. Non c'è bisogno di essere un profeta per predire breve durata a simili esperimenti. In ogni caso essi possono contribuire a distruggere ulteriormente la liturgia.
Ma proviamo a tirare le conseguenze dal positivo che abbiamo trovato! Abbiamo detto: la liturgia è una festa. Nella festa ne va della libertà, nella libertà dell'essere al di là dei ruoli. Ma dove emerge l'essere, fa anche capolino la domanda della morte. A questa domanda deve anzitutto rispondere la festa.
Facendo il processo inverso: la festa presuppone l'autorizzazione alla gioia; questa autorizzazione è valida solo se è in grado di far fronte alla domanda sulla morte. Proprio per questo la festa ha sempre avuto carattere cosmico e universale nella storia delle religioni: cercava di rispondere alla domanda sulla morte riferendosi all'universale potenza vitale del cosmo.
Ma ora si potrà obiettare che nel nostro caso si tratta proprio di ricercare lo specifico cristiano e che non è affatto possibile sviluppare l'essenza della liturgia cristiana da categorie generali della storia delle religioni.
Ciò è perfettamente giusto per quel che concerne l'affermazione positiva e la struttura della festa cristiana; ma contemporaneamente va da sé che l'inderivabile novità del cristianesimo è la risposta alla domanda comune di tutti gli uomini e quindi deve essere riferita ad un fondamentale contesto antropologico senza il quale proprio questa verità resterà incompresa.
Questa novità poi consiste nel fatto che la resurrezione di Cristo dà l'autorizzazione alla gioia ricercata da tutta la storia e che nessuno era in grado di fornire. Perciò la liturgia cristiana - Eucarestia - è per sua natura festa della resurrezione, Mysterium Paschae. In quanto tale essa porta in sé il mistero della croce che è poi l'intima premessa della resurrezione. Ci troviamo semplicemente di fronte a un eccessivo deprezzamento quando l’Eucarestia viene spiegata come il pasto della comunità: essa è costata la morte di Cristo e la gioia che essa promette presuppone l'entrata in questo mistero di morte.
L'Eucarestia è orientata escatologicamente ed è quindi centrata sulla teologia della croce. Questo si intende quando la chiesa resta fedele al carattere sacrificale della messa; qui si decide effettivamente se si resta fedeli o si manca pienamente l'ordine di grandezza senza il quale l'autentica profondità dell'umanità e l'autentica profondità della potenza liberante di Dio vengono messe da parte.
In altri termini: la libertà che è in gioco nella festa cristiana, l'Eucarestia, non è la libertà di inventare testi ma la liberazione del mondo e di noi stessi dalla morte, liberazione che sola può disporci ad accettare la verità e ad amarci gli uni gli altri in verità.
Dalla concezione di base qui sviluppata derivano da se stesse altre due essenziali strutture dell'Eucarestia.
La prima consiste nel carattere di latria dell'Eucarestia, carattere di cui a stento si parla nelle teorie dei ruoli. Cristo è morto pregando; egli ha anteposto il suo sì al Padre all’opportunità politica e per questo andò verso la croce. Così sulla croce egli ha diretto il suo sì al Padre, ha glorificato in esso il Padre e fu proprio questo modo di morire che con logica conseguenza portò alla resurrezione. Questo significa: l'autorizzazione alla gioia, il sì liberante, vittorioso alla vita ha il suo luogo più proprio nell'adorazione. La croce è in quanto adorazione «elevazione», presenza della resurrezione; celebrare la festa della resurrezione significa entrare nell'adorazione. Se con «festa della resurrezione» viene descritto il senso centrale della liturgia cristiana, l'«adorazione» è in questo caso il centro da cui tutto prende forma: qui viene superata la morte e reso possibile l'amore. L'adorazione è la verità.
La seconda caratteristica dell'Eucarestia è la seguente: con quanto detto finora risalta il carattere cosmico ed universale della liturgia. La comunità non diviene tale per una serie di azioni reciproche ma per il fatto che essa si accetta dal tutto e si ridona al tutto... A partire da questa constatazione si potrebbe dimostrare passo per passo perché la liturgia non è «fatta», ma accolta e di fatto ogni volta viene rivitalizzato qualcosa di già esistente; si potrebbe così dimostrare perché la sua universalità si esprime nella sua forma panecclesiastica che come «rito» viene predata alla singola comunità.
Sviluppare qui i singoli punti ci condurrebbe troppo lontano. II pensiero centrale è stato in ogni caso già espresso con quanto detto finora: la liturgia in quanto festa scavalca l'ambito del fatto e del fattibile, essa introduce nel campo del dato, del vivo che ci viene incontro. Perciò la crescita organica nell'universalità della tradizione comunitaria è stata legge fondamentale della liturgia in tutti i tempi e in tutte le religioni.
Anche nel grande salto dal Vecchio al Nuovo Testamento questa regola non è stata inficiata e la continuità del divenire liturgico non è stata rotta: Gesù aveva introdotto le parole della cena organicamente nel contesto della liturgia giudaica, lì dove questa era ad esse aperta, dove, per così dire, le attendeva interiormente.
La chiesa nascente ha continuato con cura questo processo dell'approfondimento interiore, della purificazione e dell'estensione dell’eredità veterotestamentaria. Né gli apostoli né i loro successori hanno «fatto» una liturgia cristiana; essa si sviluppò organicamente dalla lettura cristiana dell’eredità giudaica, lettura che in breve tempo si coniò una forma(4). Nel far ciò vennero filtrate le esperienze di preghiera delle singole comunità che ovviamente si muovevano nella forma fondamentale dell'unica chiesa in cui a poco a poco si sviluppavano le forme particolari di estese circoscrizioni ecclesiastiche.
In questo senso ci fu sempre per la singola comunità o per il singolo liturgo la determinatezza della liturgia: essa è garante ed espressione del fatto che qui avviene qualcosa di quantitativamente e qualitativamente superiore di quanto possano fare sia singole comunità sia addirittura gli uomini in quanto tali; essa è espressione dell'oggettiva autorizzazione alla gioia, della partecipazione al dramma cosmico della resurrezione di Cristo, partecipazione dalla quale dipende il ruolo della liturgia.
Inoltre questa determinatezza delle parti essenziali della liturgia è anche garante della vera libertà dei fedeli: solo così hanno la sicurezza di non essere esposti alle invenzioni di un singolo o di un gruppo ma incontrano la realtà che vincola anche il parroco, il vescovo e il papa e dà a tutti loro lo spazio della libertà per l'appropriazione personale del mistero diretto a tutti noi.
Del resto bisogna qui anche notare che la «creatività» delle liturgie fatte per conto proprio si muove in un circolo ristretto che è necessariamente misero in confronto alla ricchezza della liturgia formatasi nei secoli anzi nei millenni; purtroppo i costruttori di liturgia se ne accorgono sempre più tardi dei partecipanti. Ancora il numero di coloro che possono far valere un tale diritto è sempre molto limitato, e quel che per essi è libertà è contemporaneamente «esercizio di autorità» verso gli altri.
Invece nella liturgia della chiesa formatasi nei secoli vi è ampio spazio in cui sono chiamate le forze creative. Vi è spazio per la preparazione artistica, specialmente nel campo musicale; nella concreta strutturazione dei servizi liturgici e, secondo le circostanze, nell'adeguata preparazione del luogo liturgico. La creatività si estende ancora alla preghiera dei fedeli ed ha il punto culminante nell'annuncio della parola riservato al sacerdote in cui questi traduce la comune novella nell'hic et nunc dei partecipanti. Chi si pone con vera serietà di fronte a questo compito sperimenterà con dolore sempre nuovo i limiti della sua «creatività» e certamente non avrà il desiderio che essa venga estesa.
2) Ciò è sviluppato più estesamente nelle mie prediche quaresimali di prossima pubblicazione presso Wewel di Monaco col titolo Eucharistie. Sul tema della festa resta sempre fondamentale il libro di Pieper, Zustimmung zur Welt. Eine Theorie des Festes, Monaco ²1964.
3) Informazioni ricche di insegnamento a questo riguardo in E. K. Scheuch, Haschisch und LSD aIs Modedrogen, Osnabrück 1970.
4) Questo sviluppo è esposto più estesamente nel mio libro citato alla nota 2;
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