La messa in latino, dice il Vaticano, non è mai stata cancellata dal Concilio Vaticano II
Nei seminari si ritornerà a studiarlo come si faceva un tempo
di Marco Bertoncini
Curiosamente, tre eventi si sono accavallati nei medesimi giorni con riferimenti al latino. L'Università cattolica ha celebrato a Milano un convegno dedicato alla presenza classica, per verificare quale possa essere il senso dello studio delle lingue antiche fuori degli specialisti. La Pontificia commissione Ecclesia Dei ha emanato un'istruzione (per applicare la lettera apostolica Summorum pontificum) nella quale alcuni punti sono dedicati alla conoscenza del latino da parte dei sacerdoti.
Infine, organizzato da un'associazione che si richiama a «Giovani e Tradizione», si è svolto nella capitale un convegno sulla Summorum pontificum, in cui il latino ha avuto non secondaria presenza, fino alla celebrazione, in San Pietro, della messa pontificale in «rito romano antico».
Per capirci, la Summorum pontificum è la lettera apostolica motu proprio data da Benedetto XVI, che ha riconosciuto l'esistenza di due forme del medesimo rito romano: una ordinaria, ed è quella celebrata col messale di Paolo VI, l'altra straordinaria, ed è quella col messale di Giovanni XXIII.
L'istruzione testé emanata dalla S. Sede conferma che il papa procede lungo la strada intrapresa timidamente da Giovanni Paolo II: poiché nessuno ha cancellato la messa riordinata da Pio V e rimasta fino a Giovanni XXIII, è opportuno che essa sia celebrata ovunque ve ne sia richiesta.
Pare che siano soprattutto taluni vescovi a frapporre ostacoli di vario tipo a tali celebrazioni.
A rodersi il fegato è il variegato mondo progressista, che non teme di cadere in contraddizione con sé stesso, con la brama di dissolvimento dell'autorità pontificia che sempre l'anima e con la ricerca di esperimenti sempre nuovi nella liturgia.
Un'ottima sintesi di queste reazioni si legge nell'acido e bavoso commento di Giancarlo Zizola su la Repubblica, contro la chiesa di Ratzinger che sarebbe «liquida, se non babelica» (l'esatto opposto di quel che di solito si lamenta) e ora consentirebbe «procedure tipicamente anarchiste per scompigliare l'ordine gerarchico nelle diocesi e nelle parrocchie».
Veniamo al latino. Nonostante i testi scritti e dispositivi della Chiesa, partendo dalla Veterum sapientia di Giovanni XXIII per passare agli stessi documenti conciliari e postconciliari (diversamente da quanto si potrebbe credere), abbiano sempre circondato la lingua latina di rispetto e culto, obbligandone allo studio, di fatto la conoscenza di quella che è ancora la lingua ufficiale della S. Sede è andata scemando nel campo ecclesiastico.
Quando si diventava sacerdoti passando esclusivamente dagli studi classici, la questione non si poneva. Oggi, però, che ci sono preti che sono ragionieri o geometri o diplomati in un istituto professionale, diventa arduo rimediare ai buchi dell'istruzione. Bene ha fatto, quindi, l'istruzione dell'Ecclesia Dei a ricordare che i sacerdoti che seguano il rito che fu della Chiesa da Pio V a Giovanni XXIII a disporre di una «conoscenza basilare» della lingua latina. Ma soprattutto è lodevole il suo intervento sui seminari, «dove si dovrà provvedere alla formazione conveniente dei futuri sacerdoti con lo studio del latino».
La classe dirigente europea, almeno sino alla prima guerra mondiale, era abbastanza omogenea quanto a conoscenza delle lingue classiche. Il fatto che sul Times apparissero citazioni in alfabeto greco indica come, nell'età vittoriana, il lettore medio fosse capace d'intenderle, e la presenza del latino trova conferma, per esempio, nelle pagine che hanno come protagonista Sherlock Holmes. Progressivamente, dall'insegnamento sono scomparsi, prima il greco, poi il latino. Una botta tremenda, in Italia, è costituita dalla legge n. 910 del 1969, demagogica e populistica, che parificò l'accesso all'istruzione superiore per tutti i diplomati. Oggi la maggioranza dei laureati non è capace di comprendere due parole latine.
Non che all'estero stiano meglio: basti citare l'invito degli organi di giustizia europei agli avvocati affinché non usino espressioni mutuate dal diritto romano, essendo incomprensibili a molti giudici. All'Università cattolica si è, giustamente, ricordato che il latino non è solo la lingua degli antichi romani. E non è solo la lingua della tradizione cristiana, pur se la Chiesa cattolica (le chiese protestanti e anglicane avevano già provveduto da secoli) negli ultimi decenni le ha inferto colpi durissimi. Il latino fu pure la lingua di cultura per l'intero Medioevo, nel Rinascimento e ancora, almeno in parte, nell'età moderna. Diplomazia e scienza si espressero in latino ben oltre i termini temporali della produzione di lettere latine originali. La decadenza del latino (lasciamo stare il greco, lingua che è ancor oggi la base della terminologia medica e latamente scientifica e che ha alimentato la più alta delle letterature) si paga con un impoverimento culturale e anche linguistico.
© Copyright Italia Oggi, 26 maggio 2011
Nei seminari si ritornerà a studiarlo come si faceva un tempo
di Marco Bertoncini
Curiosamente, tre eventi si sono accavallati nei medesimi giorni con riferimenti al latino. L'Università cattolica ha celebrato a Milano un convegno dedicato alla presenza classica, per verificare quale possa essere il senso dello studio delle lingue antiche fuori degli specialisti. La Pontificia commissione Ecclesia Dei ha emanato un'istruzione (per applicare la lettera apostolica Summorum pontificum) nella quale alcuni punti sono dedicati alla conoscenza del latino da parte dei sacerdoti.
Infine, organizzato da un'associazione che si richiama a «Giovani e Tradizione», si è svolto nella capitale un convegno sulla Summorum pontificum, in cui il latino ha avuto non secondaria presenza, fino alla celebrazione, in San Pietro, della messa pontificale in «rito romano antico».
Per capirci, la Summorum pontificum è la lettera apostolica motu proprio data da Benedetto XVI, che ha riconosciuto l'esistenza di due forme del medesimo rito romano: una ordinaria, ed è quella celebrata col messale di Paolo VI, l'altra straordinaria, ed è quella col messale di Giovanni XXIII.
L'istruzione testé emanata dalla S. Sede conferma che il papa procede lungo la strada intrapresa timidamente da Giovanni Paolo II: poiché nessuno ha cancellato la messa riordinata da Pio V e rimasta fino a Giovanni XXIII, è opportuno che essa sia celebrata ovunque ve ne sia richiesta.
Pare che siano soprattutto taluni vescovi a frapporre ostacoli di vario tipo a tali celebrazioni.
A rodersi il fegato è il variegato mondo progressista, che non teme di cadere in contraddizione con sé stesso, con la brama di dissolvimento dell'autorità pontificia che sempre l'anima e con la ricerca di esperimenti sempre nuovi nella liturgia.
Un'ottima sintesi di queste reazioni si legge nell'acido e bavoso commento di Giancarlo Zizola su la Repubblica, contro la chiesa di Ratzinger che sarebbe «liquida, se non babelica» (l'esatto opposto di quel che di solito si lamenta) e ora consentirebbe «procedure tipicamente anarchiste per scompigliare l'ordine gerarchico nelle diocesi e nelle parrocchie».
Veniamo al latino. Nonostante i testi scritti e dispositivi della Chiesa, partendo dalla Veterum sapientia di Giovanni XXIII per passare agli stessi documenti conciliari e postconciliari (diversamente da quanto si potrebbe credere), abbiano sempre circondato la lingua latina di rispetto e culto, obbligandone allo studio, di fatto la conoscenza di quella che è ancora la lingua ufficiale della S. Sede è andata scemando nel campo ecclesiastico.
Quando si diventava sacerdoti passando esclusivamente dagli studi classici, la questione non si poneva. Oggi, però, che ci sono preti che sono ragionieri o geometri o diplomati in un istituto professionale, diventa arduo rimediare ai buchi dell'istruzione. Bene ha fatto, quindi, l'istruzione dell'Ecclesia Dei a ricordare che i sacerdoti che seguano il rito che fu della Chiesa da Pio V a Giovanni XXIII a disporre di una «conoscenza basilare» della lingua latina. Ma soprattutto è lodevole il suo intervento sui seminari, «dove si dovrà provvedere alla formazione conveniente dei futuri sacerdoti con lo studio del latino».
La classe dirigente europea, almeno sino alla prima guerra mondiale, era abbastanza omogenea quanto a conoscenza delle lingue classiche. Il fatto che sul Times apparissero citazioni in alfabeto greco indica come, nell'età vittoriana, il lettore medio fosse capace d'intenderle, e la presenza del latino trova conferma, per esempio, nelle pagine che hanno come protagonista Sherlock Holmes. Progressivamente, dall'insegnamento sono scomparsi, prima il greco, poi il latino. Una botta tremenda, in Italia, è costituita dalla legge n. 910 del 1969, demagogica e populistica, che parificò l'accesso all'istruzione superiore per tutti i diplomati. Oggi la maggioranza dei laureati non è capace di comprendere due parole latine.
Non che all'estero stiano meglio: basti citare l'invito degli organi di giustizia europei agli avvocati affinché non usino espressioni mutuate dal diritto romano, essendo incomprensibili a molti giudici. All'Università cattolica si è, giustamente, ricordato che il latino non è solo la lingua degli antichi romani. E non è solo la lingua della tradizione cristiana, pur se la Chiesa cattolica (le chiese protestanti e anglicane avevano già provveduto da secoli) negli ultimi decenni le ha inferto colpi durissimi. Il latino fu pure la lingua di cultura per l'intero Medioevo, nel Rinascimento e ancora, almeno in parte, nell'età moderna. Diplomazia e scienza si espressero in latino ben oltre i termini temporali della produzione di lettere latine originali. La decadenza del latino (lasciamo stare il greco, lingua che è ancor oggi la base della terminologia medica e latamente scientifica e che ha alimentato la più alta delle letterature) si paga con un impoverimento culturale e anche linguistico.
© Copyright Italia Oggi, 26 maggio 2011
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