7 giugno 2016
Anche se a questo mondo ci sono tante cose importanti da fare (per esempio seguire i playoff di basket tra Milano e Reggio Emilia, e capire che fine farà l’Inter in mani cinesi), continuo a studiare la questione che mi sta a cuore dopo le perplessità sorte in me in seguito alla lettura e rilettura di Amoris laetitia, specialmente per quanto riguarda la pastorale del «caso per caso». Due le domande.
La prima: può una norma morale generale essere ridimensionata e resa meno stringente per adattarla al caso particolare? E qual è la relazione tra misericordia, giustizia divina e verità rivelata?
Voi direte: amico mio, continua a dedicarti al basket e all’Inter, forse è meglio! Posso essere d’accordo, però sapete che cosa c’è? Sono entrato in un’età in cui mi succede sempre più spesso di pensare alla morte, ma non alla morte in generale: dico alla mia morte. Non ho paura, ma prendo molto sul serio il buon Dio, che mi ha donato la fede e mi ha dotato di ragione. Di qui le domande.
Per esempio: una legge morale universale, penso ai dieci comandamenti, è adattabile a un caso particolare? Si può derogare a una legge universale se l’applicazione della legge suona ingiusta per la coscienza individuale? E poi la relazione tra misericordia e perdono. Misericordia è solo perdono? E il giudizio di Dio? Se la misericordia è solo perdono, Dio non dimostra forse di non prendere sul serio la mia libertà e la mia responsabilità? E se io elimino dalla misericordia i riferimenti alla giustizia, non finisco col crearmi un Dio a mia immagine e somiglianza, solo consolatorio?
In chiesa nessuno più ci parla di queste cose. Dei cosiddetti Novissimi, che abbiamo studiato da piccoli al catechismo, non si occupa quasi più nessuno. I Novissimi sono le cose che succederanno all’uomo alla fine della vita: la morte, il giudizio, il destino eterno, la pace o il castigo, il paradiso o l’inferno. Ho notato che preti e parroci parlano volentieri di cose importantissime come il riscaldamento globale e il tasso di disoccupazione, ma diventano improvvisamente reticenti quando ci sono di mezzo i Novissimi. Perché? Mah! E pensare che la nostra vita quaggiù è un battito di ciglia.
Procediamo. Circa il rapporto tra norma morale generale e caso particolare mi sono imbattuto in un interessantissimo discorso di Pio XII. È del 1952, quando io ancora non ero nato. Papa Pacelli lo tenne, in francese, alla Federazione cattolica mondiale della gioventù femminile e vi si legge quanto segue: «Ci si chiederà come la legge morale, che è universale, possa essere sufficiente e persino essere obbligatoria in un determinato caso singolare che nella situazione concreta sua propria è sempre unico e di “una sola volta”».
Bravo Pio XII, è proprio quello che mi chiedo io! Ed ecco la risposta: «Lo può e lo fa perché, precisamente a causa della sua universalità, la legge morale comprende necessariamente e intenzionalmente tutti i casi particolari in cui si verificano i suoi concetti, e in numerosissimi casi lo fa con una logica talmente concludente che persino la coscienza del singolo fedele vede immediatamente e con piena certezza la decisione da prendere».
Ecco quella che si dice una risposta chiara. Ovviamente le parole di Pio XII non saltano fuori dal nulla, ma arrivano dopo secoli di riflessioni della Chiesa (pensiamo solo a san Tommaso). E Pio XII, già nel 1952, sapeva bene che si stava facendo strada una «nuova morale», detta anche «morale della situazione», secondo la quale alla norma universale viene attribuita una certa, chiamiamola così, fluidità, in modo tale che si possa procedere con adattamenti al caso particolare.
Ascoltiamo dunque Pio XII mentre parla della nuova morale: «Il segno distintivo di tale morale è costituito dal fatto che essa non si basa in alcun modo sulle leggi morali universali, come ad esempio i dieci comandamenti, ma sulle condizioni o circostanze reali e concrete nelle quali si deve agire, e secondo le quali la coscienza individuale è tenuta a giudicare e a scegliere; questo stato di cose è unico ed è valido una sola volta per ciascuna azione umana. Perciò la decisione della coscienza, affermano coloro che sostengono tale etica, non può essere imperata dalle idee, dai principi e dalle leggi universali […]. Espressa sotto questa forma, l’etica nuova è talmente al di fuori della Fede e dei principi cattolici che persino un bambino, se conosce il suo catechismo, se ne può rendere conto e lo può percepire».
Queste ultime parole sono forti e quindi sono andato a rileggerle nell’originale francese, trovando la conferma che il papa dice proprio così: «Sous cette forme expresse, l’éthique nouvelle est tallement en dehors de la Foi et des principes catholiques, que même un enfant, s’il sait son catéchisme, s’en rendra compte et le sentira».
Qualcuno a questo punto dirà: «Vabbe’, ma tu vai a prendere Pio XII! È preconciliare!». Sì, è preconciliare, e allora? Forse per questo è meno ragionevole? Lo stesso papa Francesco, pochi giorni fa, in una delle meditazioni rivolte ai preti per il loro giubileo, ha raccomandato di leggere Haurietis aquas, l’enciclica di Pio XII sulla devozione al Sacro Cuore (1956), e ha commentato: «Ma è preconciliare! Sì, ma fa bene!».
Nel corso del tempo, naturalmente, l’insegnamento della Chiesa in materia è andato avanti, e san Giovanni Paolo II, con Veritatis splendor, l’enciclica del 1993 «circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa», torna a confrontarsi con la questione della «morale della situazione» o, come diciamo oggi, del caso per caso.
Ascoltiamo dunque papa Wojtyła. Il capitolo di Veritatis splendor che qui ci interessa è il secondo (La coscienza e la verità), dove il pontefice, interrogandosi sul rapporto tra la libertà dell’uomo e la legge di Dio, e sottolineando che ciascuno di noi avverte dentro di sé, nell’intimo della sua coscienza, una legge che non è lui a darsi e che lo chiama sempre a fare il bene e a fuggire il male, a un certo punto scrive: «In tal senso le tendenze culturali […] che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà conducono ad un’interpretazione “creativa” della coscienza morale, che si allontana dalla posizione della tradizione della Chiesa e del suo Magistero». Giovanni Paolo II è ben cosciente dell’opinione di diversi teologi, secondo i quali la funzione della coscienza non può essere ricondotta alla semplice applicazione di norme morali generali. Secondo tali teologi, dice il papa, «queste norme non sono tanto un criterio oggettivo vincolante per i giudizi della coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che aiuta in prima approssimazione l’uomo nel dare un’ordinata sistemazione alla sua vita personale e sociale». Quando però si tratta di fare i conti con la realtà concreta del singolo caso, è la coscienza individuale, con la sua «creatività» a essere esaltata.
Qui sembra proprio che Giovanni Paolo II, con più di vent’anni d’anticipo, immagini certi passi di Amoris laetitia che mi lasciano perplesso. Ma ascoltiamo ancora Wojtyła: «Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l’originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale».
E che cosa succede lungo questa strada? Dove si va a parare secondo la logica delle eccezioni alla regola generale? Risposta di Giovanni Paolo II: «In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un’opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette “pastorali” contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica “creatrice”, secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare».
Parole profetiche. Alle quali Giovanni Paolo II aggiunge questa riflessione: «Non vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l’identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell’uomo e alla legge di Dio».
Consiglio a tutti di rileggere interamente Veritatis splendor.
Ma io, dicevo, ho una seconda questione da affrontare: quale relazione c’è tra misericordia e giustizia divina?
Papa Francesco, meditando sulla parabola del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-31), nel corso degli esercizi spirituali con i preti (San Giovanni in Laterano, prima meditazione, 2 giugno 2016) a un certo punto spiega: «Il cuore di Cristo è un cuore che sceglie la strada più vicina e che lo impegna. Questo è proprio della misericordia, che si sporca le mani, tocca, si mette in gioco, vuole coinvolgersi con l’altro, si rivolge a ciò che è personale con ciò che è più personale, non “si occupa di un caso” ma si impegna con una persona, con la sua ferita». Poi, dopo aver messo in guardia dal «clericalismo» che riduce una persona a un caso non che dalla «pastorale pulita» ed «elegante» che però non si mette in gioco e non rischia niente, dice: «La misericordia va oltre la giustizia e lo fa sapere e lo fa sentire; si resta coinvolti l’uno con l’altro. Conferendo dignità – e questo è decisivo, da non dimenticare: la misericordia dà dignità – la misericordia eleva colui verso il quale ci si abbassa e li rende entrambi pari, il misericordioso e colui che ha ottenuto misericordia. Come la peccatrice del Vangelo (Lc 7,36-50), alla quale è stato perdonato molto, perché ha amato molto, e aveva peccato molto».
Sono parole molto belle, che certamente toccano il cuore di molti. Non di meno c’è da interrogarsi: «La misericordia va oltre la giustizia».
Dunque, quando io morirò e sarò davanti a Dio, secondo quale metro sarò giudicato? Se, in nome della morale della situazione, non avrò rispettato le leggi universali date da Dio e trasmesse dalla mia santa madre Chiesa, come sarò accolto da Dio?
E poi: è la misericordia, solo la misericordia, che mi conferisce dignità? E la libertà? E la responsabilità?
Qui mi è arrivato in aiuto il testo di un amico. Non farò il suo nome, perché non so se gli fa piacere (da quando alcuni mi hanno bacchettato per le mie critiche al pensiero pastorale di Francesco, continuo a esporre me stesso ma evito di farlo con altri, che potrebbero non gradire), però saccheggerò impunemente il suo pensiero.
Dunque, sostiene il mio amico, sulla parola misericordia, così centrale nel magistero di Francesco, occorre interrogarsi. È parola bellissima, che tocca direttamente il cuore, specialmente dei sofferenti (come ho visto bene dalle decine e decine di reazioni che mi sono arrivate dopo i miei ultimi articoli dedicati ad Amoris laetitia), ma non bisogna pronunciarla invano.
Se ci facciamo caso, nell’insegnamento della Chiesa la misericordia non è mai lasciata sola. Recita per esempio il Salmo 84: «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo».
Ecco. Misericordia, giustizia, verità. Non ci sarebbe bisogno di misericordia se non ci fosse il peccato e non ci fossero i peccatori. Possiamo isolare la misericordia infinita di Dio dai suoi comandamenti? Si può disgiungere la misericordia dalla giustizia? Si può separare la misericordia dalla legge assegnata per la nostra salvezza?
La misericordia senza giustizia e senza verità, dice il mio amico, non ha significato. Per la Chiesa c’è un tribunale di misericordia sempre aperto, fino all’ultimo respiro: è il sacramento della confessione. È lì che tutti noi, anche all’ultimo secondo dei tempi supplementari, e anche se nella nostra vita siamo stati grandissimi peccatori, possiamo essere perdonati. Possiamo esserlo se ci pentiamo sinceramente e chiediamo perdono. Ecco la giustizia che fa capolino. La misericordia non è il colpo di spugna che tutto cancella. Dio ci prende sul serio! E noi siamo chiamati a fare altrettanto con lui!
«Neanch’io ti condanno» dice Gesù all’adultera. Ma aggiunge: «Va’ e d’ora in poi non peccare più».
Io ho invece l’impressione che oggi ci stiamo costruendo un Dio a nostra immagine e somiglianza, del quale diventa espressione una Chiesa molto simpatica ma, ahimé, relativista. Una Chiesa che sembra avere a cuore non la salvezza delle anime, ma il benessere psicofisico delle persone. Una Chiesa che, ignorando giustizia e verità, non giudica ma si limita a consolare e giustificare. È una Chiesa à la page, che pensa di non dover perdere tempo con la dottrina e per questo piace molto ai laicisti di ogni colore ed estrazione.
È una Chiesa che non ritiene necessario, perché poco «moderno», confermare i fratelli nella fede, ma è sensibile agli applausi che arrivano dai lontani. Così tutti quelli che, con ostinazione e senza rendersi conto di essere fuori moda, continuano a porsi il problema della giustizia e della verità (poverini: leggono ancora Pio XII!), diventano automaticamente «dottori della legge» e «farisei».
Mi sbaglierò, ma c’è qualcosa che non funziona.
Aldo Maria Valli
http://www.aldomariavalli.it
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