mercoledì 1 giugno 2016

Il Papato al tempo della Amoris Laetitia


Amoris Laetitia                      



 di Stefano Fontana
30-05-2016

Il Linguaggio dell’Esortazione apostolica Amoris Laetitia ha fin da subito attirato l’attenzione su di sé, prima e forse più dei contenuti. Su La Civiltà Cattolica del 14 maggio si parla di «rinnovamento del linguaggio ecclesiale». Il cardinale Schönborn, in occasione della conferenza stampa di presentazione in Vaticano, aveva detto che la Amoris Laetitia è un «avvenimento linguistico». Forse, il cardinale Kasper si riferiva proprio a questo aspetto quando anticipò che l’Esortazione sarebbe stata una «rivoluzione».

Padre Antonio Spadaro, presentando l’Esortazione sul quindicinale dei Gesuiti da lui diretto, il 23 aprile scorso aveva detto che «il Pontefice insiste sulla concretezza, è una cifra fondamentale dell’Esortazione». Viene richiamato, infatti, quanto scritto proprio da Papa Francesco nell’Esortazione: fare in modo che l’annuncio del Vangelo non sia «meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone».  Anche il linguaggio, quindi, dovrebbe cambiare, per favorire la vicinanza pastorale, l’accompagnamento, il discernimento.

Mi sembra però che queste buone intenzioni si scontrino con un problema oggettivo: la concretezza esistenziale è sempre per sua natura ricca di sfumature, sfuggente, articolata, dato che ha a che fare con la complessità della vita e la varietà delle situazioni. Parole ed espressioni che volessero adeguarsi ad essa dovrebbero perdere di nitidezza e aumentare invece le proprie sfumature. Una parola polisemica, evocativa ed allusiva, una espressione metaforica o perfino un artificio retorico potrebbero essere più utili di espressioni dal contorno preciso. Ma sarebbero ugualmente in grado di orientarla, l’esistenza?

Esaminando il linguaggio dell’Esortazione Amoris Laetitia, si incontrano parole, espressioni ed immagini che possono aprire squarci sulla complessità dell’esistenza, ma che proprio per questo sono anche ambigue, e non poteva essere diversamente. Chiamare il peccato «fragilità» e «inadeguatezza» qualche precisazione la richiede. Cosa sia una «morale fredda da scrivania» non è facile a capirsi con precisione, qui il linguaggio è metaforico ed allusivo. Non è nemmeno chiaro cosa significhi l’invito a non adoperare i principi dottrinali come se fossero pietre, scagliandole contro gli altri. Siccome la dottrina della fede non può essere considerata come l’astratto contrapposto al concreto dell’esistenza personale, ma va considerata come l’umano reale visto alla luce del suo ultimo bene, espressioni come quelle appena riportate se da un lato invitano ad una maggiore disponibilità ad avvicinarsi alla vita, dall’altro producono confusione su ciò che questo possa significare.

La scelta di avvicinarsi alla concretezza esistenziale (ricordiamo però che “concreto” e “reale” non sono sinonimi e che avvicinarsi all’esistenza non significa automaticamente avvicinarsi al reale) produce per forza una comunicazione dai contorni fluidi. Nell’esistenza spesso noi ci esprimiamo nella forma del «sì… ma», e anche la Amoris Laetitia lo fa, come per esempio nel paragrafo 3. Nell’esistenza spesso noi ci facciamo delle domande senza risposte, e anche la Amoris Laetitia lo fa. Spesso ci esprimiamo enfatizzando retoricamente qualche termine adoperato non nel suo significato tecnico, e infatti anche la Amoris Laetitia dice per esempio che non bisogna «scomunicare» i divorziati risposati né tanto mento «condannarli per l’eternità».  In queste espressioni è evidente che i termini «scomunicato» e «condannato per l’eternità» sono delle forzature espressive che vogliono esprimere in forma non letterale concetti come «esclusione» o «trascuratezza» o «abbandono» (pastorale).

Non ho qui lo spazio per fare riferimento ad altri esempi tratti dal testo dell’Amoris Laetitia. Siccome però molti confermano la novità del linguaggio, come dicevo all’inizio, mi trovo confortato nella mia analisi. Questo linguaggio è stata una scelta e rappresenta veramente una caratteristica portante del documento.

Ecco perché dobbiamo porci un problema, che qui mi limito ad enunciare. I fedeli della Chiesa cattolica sono stati finora abituati (ma è ovvio che si tratta di più di un’opinione)  ad attendersi dal magistero, e soprattutto dal magistero petrino, definizioni e precisazioni in termini di dottrina e di morale. E questo non solo nella forma solenne delle definizioni dogmatiche, ma anche nell’ambito del magistero ordinario autentico, a cui appartiene per esempio una Esortazione apostolica.

L’intento di precisare i termini di una questione – come fece per esempio Giovanni Paolo II col paragrafo 84 della Familiaris consortio a proposito dell’accesso all’Eucarestia dei divorziati risposati – richiede una volontà di precisare e un linguaggio adeguato, ossia preciso. L’uso di un linguaggio diverso potrebbe quindi esprimere una diversa volontà, non più di precisare quanto di suscitare questioni, indurre a farsi domande e a mettersi in discussione, oppure aprire percorsi di prassi pastorale nuovi, processi di vita dentro le comunità ecclesiali in grado di affrontare il nuovo.

Nel paragrafo 3 dell’Esortazione Apostolica si legge che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero». La Amoris Laetitia, per esempio, non ha chiarito e precisato una questione sulla quale per due anni i vescovi sinodali, e non solo, avevano discusso: appunto la Comunione ai divorziati risposati. Non è stato chiarito questo punto e, per molti versi, è stato reso più confuso. La domanda che mi faccio è quindi: devo aspettarmi un nuovo ruolo del magistero petrino, non tanto di definizione e precisazione, ma di apertura di processi, su cui deciderà in seguito la storia e la prassi? Sarebbe una nuova concezione del Papato.







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