di Riccardo Cascioli
Qualche strumentalizzazione e forzatura è ovvia, da mettere in conto, ma sostenere che il poco esaltante spettacolo offerto dal Sinodo nei giorni scorsi sia solo frutto dei media, è quantomeno assurdo. Benedetto XVI aveva parlato di un Concilio Vaticano II reale e un Concilio dei media, ma pensare di poter applicare quello schema al Sinodo in corso è completamente fuori luogo: si deve riconoscere che i giornali hanno riportato esattamente ciò che dai briefing quotidiani, dalle conferenze stampa e dalle interviste veniva effettivamente comunicato, inclusa la Relazione Erdö di fine prima parte.
Se poi, come fanno alcuni giornali, ci si ostina a volere far credere che il clima al Sinodo è disteso, che la Relazione Erdö rispecchia fedelmente quanto detto in aula e che c’è solo qualche dissenso marginale, allora si scade nel patetico: lo stesso cardinale Erdö in conferenza stampa sembra abbia voluto prendere le distanze almeno da alcune parti della relazione letta; e poi sono intervenuti il prefetto della Dottrina della Fede, i vescovi africani, il presidente dei vescovi polacchi, il cardinale Burke, e altri: tutti a contestare la corrispondenza di quanto scritto con quanto avvenuto nell’aula sinodale. E in più accuse esplicite alla direzione del Sinodo di voler manipolare la comunicazione per favorire una linea ben precisa.
È evidente che tutto ciò non è invenzione dei giornali. Piuttosto, sapendo come funziona il circuito della comunicazione e cosa si aspettano i media “laici”, se non si vogliono dare messaggi fuorvianti si deve piuttosto pensare a comunicare in modo diverso. A meno che invece, il titolo “La Chiesa apre alle unioni civili e ai gay” sulle prime pagine di tutto il mondo non fosse esattamente l’obiettivo che qualcuno si prefiggeva.
Solo ipotesi ovviamente, ma leggere ancora che qualcuno si lamenta del “Sinodo dei media” e delle “invenzioni” dei giornalisti – dopo tutto quello che è stato detto e fatto – è francamente insopportabile.
Peraltro non deve neanche scandalizzare che ci siano scontri duri. Il fatto in sé non è nulla di nuovo, è stato così dall’origine e molte volte nel corso dei secoli ci sono state dispute feroci, teologiche e pastorali. A far pensare dovrebbe invece essere altro, ovvero ciò che sta dietro alle discussioni che hanno tenuto banco in questi giorni. Le questioni della comunione ai divorziati risposati e delle unioni omosessuali, in fondo, sono soltanto un effetto e non una causa.
Un padre sinodale – ci informa la sintesi ufficiale – intervenendo dopo la Relazione Erdö ha notato che, tra le tante cose che non andavano nel testo, mancava un adeguato riferimento alla realtà del peccato. Giusto, ma anche questa è una conseguenza.
Ciò di cui in effetti non c’è traccia è la chiamata alla santità. La santità attraverso la forma particolare del matrimonio, nelle diverse circostanze in cui questo può svilupparsi; la consapevolezza chiara che la pastorale è anzitutto accompagnare le singole persone e le famiglie al compimento del proprio destino. Non sappiamo se nessuno dei vescovi lo abbia effettivamente ricordato, di sicuro non ve n’è traccia nelle sintesi quotidiane e nella Relazione Erdö. Ed è ciò che veramente sorprende. Eppure se non si ha chiaro questo punto tutto il resto diventa fatalmente ideologico.
È soltanto in un cammino di immedesimazione in Cristo che trovano adeguata ragione anche la fedeltà coniugale, l’apertura alla vita, rapporti affettivi ordinati e secondo natura. Se si perde di vista la chiamata alla santità, il ricapitolare tutte le cose in Cristo, si finisce fatalmente per discutere quanto è possibile cedere al mondo senza mettere in discussione la dottrina. E si fanno giravolte linguistiche per conciliare l’inconciliabile (vedi il caso delle unioni omosessuali, come spiega benissimo Roberto Marchesini). È questo il destino delle denominazioni protestanti.
Se si perde il riferimento alla santità verso cui tendere, anche la missione cambia significato. Diventa soltanto una missione “orizzontale”, cioè Cristo si riduce alla spinta per andare a soccorrere chi ha bisogno: i poveri, gli emarginati, le famiglie in difficoltà, e così via. Lo scopo – come sottolineava padre Piero Gheddo in uno splendido articolo qualche giorno fa – diventa risolvere i problemi del mondo, fare stare meglio l’umanità. Così la domanda fondamentale attorno a cui è ruotato il Sinodo, sembra essere stata “Come risolviamo i problemi delle situazioni difficili?”. Nasce così l’idea che la Comunione sia usata come medicina, come un palliativo, più che altro psicologico (il sentirsi pienamente accettati nella situazione in cui si è), tende a perdere il significato sacramentale («segno efficace della Grazia, istituito da Gesù Cristo per santificarci», diceva il vecchio Catechismo). Così si spiega anche perché l’unica coppia che ha parlato abbia proposto un modo per superare l’imbarazzo di un figlio gay.
La missione a cui Gesù ci ha chiamato è invece quella di andare e annunciare il suo Vangelo, la liberazione dal peccato; certo condividendo il bisogno dell’altro, ma solo perché il bisogno immediato, fisico, è segno di una domanda più profonda che ha solo Cristo come risposta adeguata, come l’episodio della samaritana ci insegna. Si va in tutto il mondo, a tutti gli uomini perché tutti possano venire a Cristo, non per risolvere i loro problemi. Quando la lodavano per tutte le cose che faceva per i poveri, madre Teresa rispondeva: «Ma io non lo faccio per i poveri, lo faccio per Gesù Cristo». È il segreto di tutti i santi, è ciò che tutti noi abbiamo più bisogno di imparare, e ciò di cui più si sente la mancanza in questo Sinodo. Non sappiamo cosa la vita ci riserverà e come anche la nostra situazione matrimoniale potrà evolvere: alla fine tutto dipenderà dal dove posiamo lo sguardo e mettiamo il cuore, qualsiasi cosa accada. O guardiamo in basso, e cerchiamo di risolvere i problemi, o nell'affrontare i problemi guardiamo in alto, con il desiderio di santificarci. “Cercate prima il regno di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in più” (Mt 6,33).
Se ci poniamo in questa prospettiva allora si comincia a comprendere che il problema oggi della Chiesa non è come fare in modo di avvicinare alla comunione chi vive situazioni irregolari, ma capire anzitutto cos’è l’Eucarestia e cosa significa accostarsi alla comunione. Per tutti: basta osservare il modo sciatto e distratto in cui viene vissuto il momento della comunione nella stragrande maggioranza delle nostre chiese per capire che il problema sta qui.
E se la cosa più importante è imparare come si può crescere nell’amore di Dio e santificarci anche nelle situazioni più difficili, allora in questo Sinodo sono mancate testimonianze concrete, esempi visibili a cui tutte le coppie possono guardare, regolari e irregolari. E – almeno a quanto letto nelle sintesi – sono mancate indicazioni chiare sul come, nell’attuale situazione delle famiglie, percorrere con sicurezza la strada che porta al compimento del nostro destino. È questa la vera pastorale che vorremmo sentire.
La nuova Bussola Quotidiana 16/10/14
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