di Roberto de Mattei
Il prossimo Sinodo dei Vescovi è preceduto da un frastuono mediatico che gli attribuisce un significato storico superiore alla sua portata ecclesiologica di mera assemblea consultiva della Chiesa. Qualcuno si lamenta per la guerra teologica che il Sinodo annuncia, ma la storia di tutte le adunanze episcopali della Chiesa (tale è il significato etimologico del termine sinodo e del suo sinonimo concilio) è fatta di conflitti teologici e di aspri dibattiti sugli errori e sulle scissioni che hanno minacciato la comunità cristiana fin dal suo sorgere.
Oggi il tema della comunione ai divorziati è solo il vettore di una discussione che verte su concetti dottrinali più complessi, come quello di natura umana e di legge naturale. Questo dibattito sembra tradurre, sul piano antropologico, le speculazioni trinitarie e cristologiche che scossero la Chiesa dal Concilio di Nicea (325) a quello di Calcedonia (451). Allora si discusse per determinare la natura della Santissima Trinità, che è un unico Dio in tre Persone, e per definire in Gesù Cristo la Persona del Verbo, che sussiste in due nature, la divina e la umana. L’adozione, da parte del Concilio di Nicea, del termine greco homoousios, che in latino fu tradotto con consubstantialis e, dopo il Concilio di Calcedonia, con le parole “della stessa natura” della sostanza divina, per affermare la perfetta uguaglianza del Verbo e del Padre, segna una data memorabile nella storia del cristianesimo e conclude un’epoca di smarrimento, di confusione, di dramma di coscienze analoga a quella in cui siamo immersi. In quegli anni la Chiesa era divisa tra la “destra” di sant’Atanasio e la “sinistra” dei seguaci di Ario (la definizione è dello storico dei concili Karl Joseph von Hefele). Tra i due poli ondeggiava il terzo partito dei semi-ariani, divisi a loro volte in varie fazioni. All’homoousios niceno, che vuol dire “della stessa sostanza”, venne contrapposto il termine homoiousios, che significa “di sostanza simile”. Non si trattava di una questione di lana caprina. La differenza tra queste due parole, in apparenza infima, cela un abisso: da una parte l’identità con Dio, dall’altra una certa analogia o rassomiglianza, che fa di Gesù Cristo un semplice uomo.
La migliore ricostruzione storica di questo periodo resta quella del cardinale John Henry Newman ne Gli ariani del IV secolo (tr. It. Jaca Book, Milano 1981), un approfondito studio che mette in luce le responsabilità del clero e il coraggio del “popolino” nel mantenere la fede ortodossa. Il diacono Atanasio, campione dell’ortodossia, eletto vescovo, fu costretto per ben cinque volte ad abbandonare la sua diocesi per percorrere la via dell’esilio. Nel 357 papa Liberio lo scomunicò e due anni dopo i concili di Rimini e di Seleucia, che costituivano una sorta di grande concilio ecumenico rappresentante l’Occidente e l’Oriente, abbandonarono il termine “consustanziale” di Nicea e stabilirono una equivoca via media, tra sant’Atanasio e gli ariani . Fu allora che san Girolamo coniò l’espressione secondo cui “il mondo gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano”.
Atanasio e i difensori della fede ortodossa vennero accusati di impuntarsi sulle parole e di essere litigiosi e intolleranti. Le stesse accuse vengono oggi rivolte verso chi, dentro e fuori l’aula sinodale, vuole levare una voce di intransigente fermezza nel difendere la dottrina della Chiesa sul matrimonio cristiano, come i cinque cardinali (Burke, Brandmüller, Caffarra, De Paolis e Müller), che, dopo essersi espressi singolarmente, hanno riunito i loro interventi in difesa della famiglia in un libro che è ormai diventato un manifesto, Permanere nella verità di Cristo: Matrimonio e Comunione nella Chiesa cattolica, appena dato alle stampe dalle edizioni Cantagalli di Siena. Allo stesso Cantagalli si deve la pubblicazione di un altro testo fondamentale, Divorziati “risposati” . La prassi della Chiesa primitive del gesuita Henri Couzel.
I commentatori del “Corriere della Sera” e de “la Repubblica” si sono stracciati le vesti per la “rissa teologica” in corso. Lo stesso Papa Francesco, il 18 settembre, ha raccomandato ai vescovi di nuova nomina di “non sprecare energie per contrapporsi e scontrarsi”, dimenticando di essersi assunto personalmente la responsabilità dello scontro, nel momento in cui ha voluto affidare al cardinale Walter Kasper il compito di aprire le danze sinodali. Come ha notato Sandro Magister, è stato proprio il cardinal Kasper, con la sua relazione del 20 febbraio 2014, resa nota da “Il Foglio”, ad aprire le ostilità e ad innescare il dibattito dottrinale, divenendo così, al di là delle sue intenzioni, il portabandiera di un partito. La formula più volte ribadita dal cardinale tedesco, secondo cui ciò che deve mutare non è la dottrina sull’indissolubilità matrimoniale, ma la pastorale verso i divorziati risposati, ha in sé una portata dirompente, ed è l’espressione di una concezione teologica inquinata nelle sue fondamenta.
Per comprendere il pensiero di Kasper bisogna risalire a una delle sue prime opere, e forse la principale, L’assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, pubblicata nel 1965 e tradotta da Jaca Book nel 1986. Walter Kasper appartiene infatti a quella scuola di Tubinga che, come egli scrive in questo studio, “ha avviato un rinnovamento della teologia e dell’intero cattolicesimo tedesco nell’incontro con Schelling ed Hegel” (p. 53). La metafisica è quella di Friedrich Schelling (1775-1854), “gigante solitario” (p. 90), dal cui carattere gnostico e panteista il teologo tedesco tenta invano di liberarsi. Nella sua ultima opera, Philosophie der Offenbarung (Filosofia della rivelazione), del 1854, Schelling contrappone al cristianesimo dogmatico quello della storia. “Schelling – commenta Kasper – non concepisce in modo statico, metafisico e sovratemporale il rapporto tra naturale e soprannaturale, bensì in modo dinamico e storico. L’essenziale della rivelazione Cristiana è proprio questo, che essa è storia” (p. 206).
Anche per Kasper il cristianesimo, prima di essere dottrina è storia, o “prassi”. Nella sua opera più nota, Gesù il Cristo (Queriniana, Brescia 1974), egli sviluppa una cristologia in chiave storica che dipende dalla Filosofia della rivelazione dell’idealista tedesco. La concezione trinitaria di Schelling è quella degli eretici sabelliani e modalisti, precursori dell’arianesimo. Le tre Persone divine sono ridotte a tre “modi di sussistenza” di un’unica persona-natura (modalismo), mentre l’essenza della Trinità si risolve nel suo manifestarsi al mondo. Cristo non è intermediario tra Dio e l’uomo, ma la realizzazione storica della divinità nel processo trinitario.
Coerente con la cristologia è l’ecclesiologia di Kasper. La Chiesa è innanzitutto “pneuma”, “sacramento dello Spirito”, definizione che, per il cardinal tedesco, “corregge” quella giuridica di Pio XII nella Mystici Corporis (La Chiesa luogo dello spirito, Queriniana, Brescia 1980, p. 91). Il campo di azione dello Spirito Santo non coincide infatti, come vuole la Tradizione, con quello della Chiesa cattolica romana, ma si estende ad una più vasta realtà ecumenica, la “Chiesa di Cristo” di cui la Chiesa cattolica è parte. Per Kasper il Decreto del Vaticano II sull’ecumenismo spinge a riconoscere che l’unica chiesa di Cristo non si limita a quella cattolica, ma è divisa in chiese e comunità ecclesiali separate (ivi, p. 94). La chiesa cattolica è “dove non c’è alcun vangelo selettivo”, ma tutto si dilata in maniera inclusiva, nel tempo e nello spazio (Chiesa cattolica- Essenza, realtà, missione, Queriniana, Brescia 2012, p. 289). La missione della Chiesa è di “uscire da sé stessa” per riacquistare una dimensione che la renda veramente universale. Eugenio Scalfari, che si atteggia a terzo Papa, dopo quello emerito e quello regnante, pur ignaro di teologia, attribuisce la medesima concezione a papa Francesco, affermando che per lui la Chiesa missionaria è quella che “deve uscire da sé e andare nel mondo”, realizzando il cristianesimo nella storia (“La Repubblica”, 21 settembre 2014).
Queste tesi si riflettono nella teologia morale di Kasper, secondo cui l’esperienza dell’incontro con Cristo dissolve la legge, o meglio la legge è un impaccio di cui l’uomo deve liberarsi per incontrare la misericordia di Cristo. Schelling nella sua filosofia panteista assorbe in Dio il male. Kasper assorbe il male nel mistero della Croce, in cui vede la negazione della metafisica tradizionale e della legge naturale che ad essa consegue. “Il passaggio dalla filosofia negativa alla filosofia positiva è per Schelling nello stesso tempo passaggio dalla legge al vangelo” (L’assoluto nella storia, p. 178), scrive il cardinale tedesco, che vede a sua volta il passaggio dalla legge al vangelo nel primato della prassi pastorale sull’astratta dottrina.
Sotto quest’aspetto, la dottrina morale del cardinal Kasper è, almeno implicitamente, antinomista. L’antinomismo è un termine coniato da Lutero contro un suo oppositore di sinistra, Johann Agricola (1494-1566), ma risale alle eresie antiche e medioevali per indicare il rifiuto dell’Antico Testamento e della sua legge, sentito come mera costrizione e vincolo, in antitesi al Nuovo Testamento, cioè alla nuova economia della Grazia e della libertà. Più generalmente si intende come antinomismo il rifiuto della legge naturale e morale che ha la sua radice nel rifiuto dell’idea di natura. Per gli antinomisti cristiani non c’è legge perché non c’è una oggettiva e universale natura umana. La conseguenza è l’evaporazione del senso del peccato, la negazione degli assoluti morali, la Rivoluzione sessuale all’interno della Chiesa.
Si comprende in questa prospettiva come il cardinal Kasper nel suo recente libro apparso in tedesco nel 2012 e poi tradotto in italiano per i tipi della Queriniana nel 2013, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita, si proponga di rompere il tradizionale equilibrio tra giustizia e misericordia, facendo di quest’ultima, contro la tradizione, l’attributo principale di Dio. Ma, come ha osservato padre Serafino Lanzetta in un’eccellente analisi del suo volume, pubblicata da www.chiesa, “la misericordia perfeziona e compie la giustizia ma non l’annulla; la presuppone, altrimenti non avrebbe in sé ragion d’essere”. La scomparsa della giustizia e della legge rende incomprensibile il concetto di peccato e il mistero del male, a meno di non reintegrarli in una prospettiva teosofica e gnostica.
Ritroviamo quest’errore nel postulato luterano della “sola misericordia”. Abolita la mediazione della ragione e della natura, per Lutero l’unica via per risalire a Dio è la “fede fiduciale”, che ha il suo preambolo non nella ragione metafisica, da cui deve essere totalmente svincolata, ma in un sentimento di disperazione profonda, che ha a sua volta il proprio oggetto nella “misericordia” di Dio, invece che nelle verità da Lui rivelate. Questo principio, come ha dimostrato Silvana Seidel Menchi in Erasmo in Italia 1520-1580 (Bollati Boringhieri, Torino 1987), si sviluppa nella letteratura ereticale del sedicesimo secolo grazie anche all’influenza del trattato di Erasmo, De immensa Dei misericordia (1524), che spalancava agli “uomini di buona volontà” le porte del cielo (ivi, pp. 143-167). Nelle sétte di derivazione erasmiana e luterana che costituiscono l’estrema sinistra della riforma protestante riaffiorano inoltre gli errori antitrinitari del IV secolo: arianesimo, modalismo, sabellianesimo, fondati sul rifiuto o sul travisamento dell’idea di natura.
L’unico percorso penitenziale possibile per conoscere l’abbraccio della Misericordia divina è il rifiuto del peccato in cui siamo immersi e il riconoscimento di una legge divina da osservare e da amare. Questa legge è radicata nella natura umana ed è incisa nel cuore di ogni uomo “dal dito stesso del Creatore” (Rm 2, 14-15). Essa costituisce il criterio di giudizio supremo di ogni azione e delle vicende umane nel loro complesso, ovvero della storia.
Il termine natura non è astratto. La natura umana è l’essenza dell’uomo, ciò che egli è prima di essere una persona. L’uomo è una persona, titolare di diritti inalienabili, perché ha un’anima. E ha un’anima perché, a differenza di qualsiasi altro vivente, ha una natura razionale. Naturale non è ciò che nasce dagli istinti e dai desideri dell’uomo, ma ciò che corrisponde alle regole della ragione, che deve a suo volta conformarsi a un ordine oggettivo e immutabile di princìpi. La legge naturale è una legge razionale e immutabile, perché immutabile, in quanto spirituale, è la natura dell’uomo. Tutti gli individui della stessa natura agiranno o dovranno agire nella stessa maniera, perché la legge naturale è iscritta nella natura non di questo o quell’uomo, ma nella natura umana considerata in sé stessa, nella sua permanenza e nella sua stabilità.
Il cardinale Kasper non crede nell’esistenza di una legge naturale universale e assoluta e nell’Instrumentum laboris, il documento ufficiale del Vaticano che prepara il Sinodo di Ottobre, questo ripudio della legge naturale traspare con evidenza, anche se presentato in chiave sociologica, più che teologica. “Il concetto di ‘legge naturale’ risulta essere come tale oggi nei diversi contesti culturali, assai problematico, se non addirittura incomprensibile” (n. 21) – si dice – anche perché “oggi, non solo in Occidente, ma progressivamente in ogni parte della terra, la ricerca scientifica rappresenta una seria sfida al concetto di natura. L’evoluzione, la biologia e le neuroscienze, confrontandosi con l’idea tradizionale di legge naturale, giungono a concludere che essa non è da considerarsi ‘scientifica’” (n. 22). Alla legge naturale viene contrapposto, secondo il programma kasperiano, lo spirito del Vangelo, di cui occorre comunicare i valori “in modo comprensibile all’uomo di oggi”. Si rende perciò necessario “dare una enfasi decisamente maggiore al ruolo della Parola di Dio quale strumento privilegiato nella concezione della vita coniugale e familiare. Si raccomanda maggiore riferimento al mondo biblico, ai suoi linguaggi e forme narrative. In tal senso, degna di rilievo è la proposta di tematizzare e approfondire il concetto, di ispirazione biblica, di “ordine della creazione”, come possibilità di rileggere in modo esistenzialmente più significativo la “legge naturale” (…) Si raccomanda anche l’attenzione al mondo giovanile da assumere come interlocutore diretto, anche su questi temi” (n. 30).
Le inevitabili conseguenze di questa nuova concezione della morale, di cui dovranno discutere i padri sinodali, sono tratte da Vito Mancuso, su “La Repubblica” del 18 settembre. La legge naturale “è un peso troppo gravoso da portare”; occorre perciò puntare a “un profondo percorso di rinnovamento in materia di etica sessuale” che dovrebbe portare alle “seguenti necessarie aperture: sì alla contraccezione; sì ai rapporti prematrimoniali; sì al riconoscimento delle coppie omosessuali”.
Di fronte a questo catastrofico itinerario verso l’immoralismo, come meravigliarsi che cinque cardinali abbiano pubblicato un libro in difesa della morale tradizionale e che altri cardinali, vescovi e teologi, si siano associati a questa posizione? Contro chi invoca una nuova disciplina dottrinale e pastorale, ha scritto il cardinale Pell, si eleva “una barriera insormontabile”, basata su “la quasi completa unanimità su questo punto di cui la storia cattolica dà prova da duemila anni” (Prefazione a Juan Pérez-Soba, Stephen Kampowski, Oltre la proposta di Kasper, Cantagalli, Siena 2014, p. 7).
C’è da sperare che il confronto sia libero e trasparente, senza l’imposizione dall’alto di regole che falsino il gioco. La posta non è una semplice divergenza di opinioni, ma il chiarimento sulla missione della Chiesa. C’è da augurarsi inoltre che i presuli fedeli alla Tradizione non si facciano intimidire e che siano capaci di sopportare con pazienza le violenze mediatiche e le censure ecclesiali, anche ingiuste e pesanti, che dovessero subire. “La canzone migliore continua ad essere la nostra” (p. 8), scrive ancora il cardinal Pell e Atanasio rimane un modello, nel nostro tempo, per tutti coloro che non si ritraggono dalla giusta battaglia in difesa della verità.
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da: Il Foglio, 1° ottobre 2014
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